Tina Merlin e l’olocausto del Vajont. Una giornalista che sapeva, aveva le prove e non si diede mai pace.

La sera del 9 ottobre 1963 un sibilo inquietante si diffuse in tutta la valle attraversata dal torrente Vajont, seguì una frana devastante, proveniente dal pendio del Monte Toc, che si riversò nelle acque del bacino alpino ricavato dalla costruzione dell’omonima diga. Inizialmente l’acqua tracimò e superò le sponde del lago invadendo i paesi di Erto e Casso, vicini alle rive, poi l’onda generata dal superamento della diga da parte delle acque provocò un’inondazione che ebbe effetti catastrofici sugli abitanti del fondovalle veneto, distruggendo Longarone e provocando la morte di duemila persone.

Qualcuno aveva già previsto la tragedia e trovò la parola giusta per definirla: un olocausto perché quella sera un’intera comunità venne spazzata via e disintegrata da un’onda. La sua voce rimase inascoltata. La chiamarono la “Cassandra del Vajont” perché come la Cassandra di Virgilio aveva cercato di distogliere i troiani dall’introdurre all’interno delle mura cittadine il cavallo di legno dal quale sarebbe derivata la rovina della sua città; così lei aveva indagato, scritto e protestato con sferzanti parole contro la costruzione di una diga pericolosa per quella comunità di cui faceva parte, ma nessuno le aveva dato retta, anzi era stata accusata, processata e assolta. Non le piaceva essere chiamata in quel modo perché mentre Cassandra era predestinata a rimanere inascoltata in quanto in grado di vedere cose che gli altri non potevano percepire, nel caso del Vajont non c’erano in gioco doti miracolose dato che, come lei stessa con rabbia scrisse pochi giorni dopo la strage: «tutti sapevano, nessuno si mosse».

FOTO 1.Longarone prima della tragedia del Vajont
Longarone prima della tragedia

Lei era una giornalista, aveva lanciato l’allarme dalle colonne del giornale per il quale scriveva con anni di anticipo, denunciando il pericolo di un disastro ambientale ed umano senza precedenti, ma la mattina dopo, il 10 ottobre 1963, in una Belluno trasformata in un grande accampamento di tende e mezzi di soccorso, ebbe solo il ruolo di testimone di una tragedia per la quale non ebbe mai pace, per la quale si sentì sempre di non aver fatto abbastanza per impedirla. Lei si chiamava Tina (contrazione di Clementina) Merlin, era nata a Trichiana, in provincia di Belluno, non aveva potuto studiare perché aveva dovuto iniziare presto a lavorare, ma amava scrivere e continuò a farlo sempre. Durante la Seconda guerra mondiale aderì alla Resistenza diventando staffetta partigiana della “7° Brigata degli Alpini” e lì conobbe il partigiano Nerone che sarebbe diventato suo marito. Iniziò a scrivere racconti per il giornale “Noi Donne”, l’organo di stampa dei Gruppi di Difesa della Donna e poi dell’Udi, Unione delle Donne Italiane, e uno di essi le valse un importante premio letterario. Successivamente, dal 1951 al 1967, divenne corrispondente dell’edizione locale dell’Unità. Negli anni Cinquanta, Tina Merlin affiancò l’attività giornalistica a quella letteraria pubblicando, nel 1957 per la casa editrice Cortina, Menica, una raccolta di racconti partigiani. È proprio in quel periodo che cominciò ad interessarsi da vicino alle vicende della diga del Vajont, seguendo come un segugio le mosse della Sade,  Società Adriatica di Elettricità, fondata nel 1905 dal conte Volpi di Misurata, responsabile della costruzione della diga.

FOTO 2. La diga
La diga

Per i suoi articoli, nel 1959, venne accusata di diffondere notizie false e tendenziose in grado di turbare l’ordine pubblico, ma, processata dal Tribunale di Milano, venne assolta. Il disastro del Vajont divenne la ragione principale della sua vita, fu la prima ad arrivare e l’ultima ad andarsene tra i corrispondenti che si affannavano a scrivere e raccontare e raccolse la sua testimonianza in un libro dal titolo Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso Vajont, che è un pugno, un vero e proprio pugno nello stomaco perché parla del Vajont, ma anche di noi, di tutti/e noi.

Come scrive Marco Paolini, attore e regista che sul Vajont ha realizzato un’importante pièce teatrale, «le storie non esistono se non c’è qualcuno che le racconta» e Tina Merlin lo fece in modo chiaro, ma soprattutto schietto e diretto. Nel suo libro, non ci sono preamboli e giri di parole, non c’è spazio per il sensazionalismo o la commiserazione, ma c’è una presa di posizione lucida e netta nei confronti del potere come unico arbitro dell’azione umana e dei mostri che è capace di generare. La tesi sostenuta dalla giornalista nel libro è chiara e viene dimostrata in modo inoppugnabile: quando il potere politico abdica dal proprio ruolo, è quello economico, fondato sull’interesse di parte, a muovere i fili, a diventare il burattinaio di un teatrino in cui scienziati e politici vengono manovrati come marionette. La compromissione del potere politico con quello economico è talmente infinita e scandalosa che alla fine la gente, quella che paga sempre, non crede più a niente e a nessuno.

Il libro racconta di Erto e di Casso ed è la storia di una comunità che si “accontenta”, non chiede una vita troppo diversa, è abituata ad essere emarginata, a vivere isolata, a pensare ai fatti suoi, ma anche a non accettare che altri si immischino nelle sue faccende; ma è anche quella della Sade e di tutte le azioni messe in campo per perseguire i propri interessi con ogni mezzo lecito e illecito. È un atto d’amore verso chi ha subito il lutto e la vergogna di non aver ottenuto giustizia; ma anche un atto d’accusa nei confronti di chi non ha saputo raccontare in modo adeguato il Vajont seguendo la logica del potere e sostenendo la tesi del disastro naturale.

FOTO 3. Tina e l'Unità
L’articolo

Per quelli che avevano raccontato il Vajont come inviati speciali delle testate giornalistiche nazionali, Tina Merlin contava poco perché era una donna e, in quel tempo, la cupola informativa italiana era tutta maschile; non era un’invita speciale, ma una corrispondente locale; infine scriveva per il giornale di un partito scomodo all’epoca, il Pci. Verso di lei ci fu un atteggiamento discriminatorio di genere, di rango professionale e di tipo politico, ma fu l’unica giornalista ad essere accettata ed amata dai sopravvissuti del Vajont che cacciavano con le pietre gli altri inviati della stampa. Questo perché lei era figlia di quella montagna; era la ragazza che aveva fatto la Resistenza; era parte di quella comunità e aveva visto crescere la paura e la rabbia della gente contro la Sade; era quella che aveva denunciato la minaccia della diga e, soprattutto, era l’unica ad avere un approccio diverso dagli altri giornalisti, che si aggiravano come automi in mezzo alla morte e alla distruzione raccontando e scrivendo per poi andarsene, ma lei no, lei soffriva profondamente in mezzo alle macerie del suo mondo e non se ne andò, ma rimase continuando a parlarne, a combattere e a lottare insieme ai sopravvissuti per avere quella giustizia che fecero fatica ad ottenere. Era diretta e appassionata, usava le parole giuste come quando definì “prostituzione scientifica” quella sulla base della quale era stata redatta la relazione tecnica per la costruzione della diga.

Dopo essersi battuta per il Vajont, si trasferì alla redazione dell’”Unità” di Milano e, in seguito, di Venezia. Collaborò con varie riviste diventando direttrice di alcune di esse tra cui “Veneto emigrazione” e “L’uomo e l’ambiente”. Si dedicò anche alla storia della Resistenza, come membro del comitato direttivo dell’Istituto bellunese della Resistenza, e alla partecipazione delle donne alla vita politica e sociale. Si spense nel 1991 a seguito di una breve malattia non riuscendo a dimenticare e a perdonarsi perché forse, come diceva sempre, avrebbe potuto fare di più.

Il suo libro sul disastro del Vajont si apre con le parole di Bertolt Brecht: «Vi sono due lingue in alto e in basso/ e due misure per misurare,/ e chi ha viso umano più non si riconosce./ Ma chi è in basso, in basso è costretto/ perché chi è in alto, in alto rimanga». Lei, Tina Merlin, raccontò la logica di queste due lingue, di queste due misure e rimase sempre con chi è in basso, con chi perde tutto, deve ricominciare e non sa più in cosa e in chi credere.

A lei sono state dedicate vie a Pedavena e Maniago, un istituto comprensivo a Belluno e un’associazione che si occupa di attività di ricerca e studi sulla storia e la cultura delle donne, sulle classi subalterne, sulla letteratura spontanea e il giornalismo, con una particolare attenzione alla montagna.

Tratto da un pannello della mostra Le Giuste. La presentazione della mostra in Prezi è visibile al link: https://www.giovani.toponomasticafemminile.com/index.php/it/progettitpg/percorsi-digitali/

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Articolo di Alice Vergnaghi

Lh5VNEop (1)

Docente di Lettere presso il Liceo Artistico Callisto Piazza di Lodi. Si occupata di storia di genere fin dagli studi universitari presso l’Università degli Studi di Pavia. Ha pubblicato il volume La condizione femminile e minorile nel Lodigiano durante il XX secolo e vari articoli su riviste specializzate.

6 commenti

  1. Ho avuto la fortuna di conoscere Tina, che era amica di mia mamma. Era una persona alla mano ma insieme austera, laconica. Io invece ero un giovanotto logorroico e me lo fece notare. La ringrazio anche per quello.

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