Taranto. Sogni di mari e Marì

Un’isola, un castello che fa da vedetta a un passato che affonda le radici in storie antiche e gloriose, una terra abbracciata dal mare in tutta la sua bellezza. Anzi, per chi è abituato a dare un nome a ogni cosa, i mari sono due, come se fosse possibile dividere l’immensità.

Basterebbe questa descrizione per suscitare in qualsiasi animo gentile l’immagine di un posto da sogno, uno di quelli che si cerca per fuggire dallo stress o che qualche tour operator inserirebbe nei dépliant della tanto gettonata Puglia come una delle mete fondamentali, dei “paradisi” utili per staccare dal mondo e dalla routine. E, in un certo senso, dal mondo si stacca davvero: Taranto è una parentesi nello spazio e nel tempo, un luogo sospeso tra ciò che la tiene costretta alla terra e l’utopia del salto nel blu.

Taranto è il Meridione d’Italia, è la sua gioventù costantemente schiacciata dal ricatto di un’emigrazione violenta per inseguire progresso e “lavoro fisso”, abbandonando le proprie radici e la propria natura. E in un Paese miope, che da anni (o forse da sempre) ha rinunciato a occuparsi di una metà del proprio territorio, lo sviluppo e il progresso hanno una sola declinazione, che non può piegarsi alle vocazioni particolari e che non si interroga sulle ricadute drammatiche che questo modello semina. L’emigrazione di Taranto si chiamava Italsider, al tempo in cui si cercava un lavoretto in loco per arrangiare, poi ILVA, al tempo dell’emigrazione al Nord, e oggi Arcelor-Mittal, al tempo dell’emigrazione all’estero, della “generazione Erasmus”. Le ricadute sul territorio di appartenenza sono ormai note: distruzione ambientale, “malattia e morte”, appiattimento di qualsiasi velleità di sviluppo alternativo. Con buona pace del mare e del sogno.

Tutto questo è tornato prepotentemente nel dibattito pubblico quotidiano, concentrato sull’atavico e annoso dualismo tra ambiente e lavoro, tra “operai” (rigorosamente maschi) e movimento ambientalista. Ma Taranto, come tutto il Sud, non si può appiattire o semplificare: è un corpo vivo, che si agita, che abbraccia il suo popolo e a volte lo soffoca, un organismo fatto di contraddizioni che ti costringe ad allargare occhi, cuore e mente. E dentro quel corpo si scoprono persone e realtà che continuano a coltivare un sogno diverso, che hanno deciso di restare nella “vera” Taranto, immaginando un futuro senza il “mostro”, seppur nella contraddizione quotidiana di dover fare i conti con la sua presenza. E in questo mondo ci sono anche tante donne, incastrate nel ruolo di mogli o madri nel racconto pubblico, che invece da anni lottano e costruiscono visioni differenti. Nella mia breve esperienza di vita a Taranto ne ho conosciute alcune e da una di loro mi sono fatto aiutare per rispondere all’esigenza di dire qualcosa, non per semplice tifo per l’una o l’altra posizione (seppur si possa intuire dall’articolo una certa visione), ma per condividere una piccola parte del vortice di emozioni che quella Terra mi ha regalato, incastonandosi nell’anima come fa da millenni col mare.

Maria, infatti, ha deciso di rimanere lì dov’è nata, inseguendo il suo sogno di artigiana e “creatrice di bellezza” ma con i piedi ben saldi nella realtà che quotidianamente la circonda, incarnando pienamente le contraddizioni di una città forte e fragile, rassegnata e mai doma, che lotta non perdendo mai la profonda sensibilità di chi si batte per un ideale. Bellissima ma di animo inquieto, come le cose più rare.

«Sono un’artigiana. Ho studiato Modellistica Artigianale all’accademia di Moda e lavoro come costumista, assistente e sarta per il cinema e il teatro. Il mio nome d’arte è “Oi Marì” e, assieme alle mie colleghe e amiche, Candida e Claudia, portiamo avanti progetti di sostenibilità tessile, vintage e di riuso di materiali e scarti tessili. Con “Ammostro” ci occupiamo anche di serigrafia naturale e tecniche di stampa manuali/artigianali. In questo, in collaborazione con un’altra sorella di viaggio, Karen Modeo, il mio impegno è nello studio, nella raccolta e nell’estrazione del pigmento colorante dalle piante della macchia mediterranea, con continue ricerche e sperimentazioni. Un esempio è il workshop “indigo print e dye” sulla reinterpretazione dei capi usati e vintage, personalizzandoli con tecniche di tinture e stampe naturali. La mia vita, quindi, è un continuo guardare alle cose belle, che ti vengono incontro se non ti limiti a ciò che accade ma ti attivi, trasformando ogni negatività in bellezza. L’artigianato è stato il Daimon che mi ha aiutata nel rendere materico ciò che la mia anima voleva esprimere. L’arte, intesa come risultato individuale o collettivo, è la medicina a cui dobbiamo attingere per diventare individui, è quella cosa che, senza parlare, unisce le persone: la mia è l’Arte Sartoriale. Cresciuta nei mercatini vintage, sesta figlia di una famiglia numerosissima, sin da piccola sfruttavo la macchina da cucire, sempre presente in casa, definendo la mia fantasia, da sempre fuori dal comune, lontana dai nuovi trend e dalla tentazione della globalizzazione. Mi sono dovuta reinventare in un territorio, a mio parere, fertile: la bellezza che mi circonda mi spinge a guardare in faccia un cambiamento che deve necessariamente avvenire.

Ed io guardo Taranto così, dandole un po’ della mia energia positiva, anche se spesso stressata dalla noncuranza di chi tutela ancora vecchie convinzioni, come molta della nostra classe dirigente, priva di una visione reale che vada oltre il tamponare le emergenze. Ho iniziato organizzando corsi di sartoria base con le donne del quartiere Tamburi. Alcune di loro, ora, sono esempi di mamme che lottano in prima linea contro l’ex ILVA. Vivere in un quartiere così a ridosso dei “mostri” (perché il problema non è solo l’ex Ilva, vedi Eni) ne crea anche altri dentro di noi: i tumori, la diossina nel latte delle mamme, i bimbi nati e morti a causa di problemi causati da terzi. La quotidianità è intrinseca di questi discorsi, è normalità qui, ma non dovrebbe esserlo! Io sono rimasta a Taranto perché credo che ognuno di noi ha un destino da compiere e forse il mio è essere motore, assieme a tante altre persone, della rinascita di questa città, che merita giustizia: “prendersi cura” delle cicatrici di questa terra è un atto d’amore, come prendersi cura della propria madre. Crescere nei quartieri periferici, dove la criminalità è pratica comune, ha sviluppato in me una capacità di osservazione che va oltre le “poltrone buone”: la mia infanzia mi ha regalato la capacità di comprensione e la lucidità del pensiero oggettivo. Quando vivi certe situazioni sviluppi l’intuito e l’istinto alla pari dell’olfatto o dell’udito. Ciò è avvenuto e avviene con “la fabbrica della morte”: non sono mai stati i media a darci le informazioni, siamo individui pensanti. Siamo stati calpestati per troppo tempo, abbiamo smarrito la nostra vera anima, stiamo perdendo il nostro mare, le nostre campagne, la nostra aria. Non possiamo mangiare il cibo della nostra terra, né fare il bagno senza allontanarci chilometri per arrivare alla “spiaggia incontaminata”. Eppure il mare è Taranto. Siamo stati privati della nostra casa: bambine e bambini non potrebbero giocare per strada, ma ci giocano, si sporcano le mani e respirano diossina in ogni singolo istante. Anche gli animali, argomento poco discusso, continuano a morire di tumore. Non si può più neanche pescare, attività storica tarantina. Ci hanno tolto il pane, abbiamo scambiato la nostra identità per il lavoro fisso, la corsa al mutuo, alla macchina, al televisore. È come se da anni fossimo prigioniere e prigionieri di uno stato a sé, che ha costretto in schiavitù un’intera popolazione, per cui il ricatto è pratica quotidiana.

Vivere e crescere in questa città mi ha portato a capire che è una lotta personale e di chi, con me, condivide questo pesante percorso: oggi sono tante e crescono sempre più le persone pronte a ribellarsi a questa situazione, ognuna nel suo piccolo, combattendo quotidianamente contro l’appiattimento del pensiero. È una lotta per la libertà delle prossime generazioni, per dar loro una casa in cui sentirsi al sicuro e la possibilità di non emigrare per la paura di morire. C’è una città che necessita di tantissimo amore per rinascere, come un gioiello prezioso e ambizioso, fiore all’occhiello della nostra bella Puglia. Il sogno è tanto semplice quanto annebbiato: vivere nel rispetto dell’ambiente e della salute, dove ognuno si debba sentire accolto e non minacciato dai mostri. Taranto è l’abito più prezioso a cui vorrei ridare vita.»

Articolo realizzato con la collaborazione di Maria Martinese

 

Articolo di Sasy Spinelli

OWVBrE9G.jpegNato a Foggia, sul finire degli anni ’80, ha sempre avuto una passione per le seconde opportunità: per il riciclo creativo di oggetti, per il trapianto di piante e fiori, per l’inclusione di persone ai margini dei contesti sociali.  Laureato in Economia delle Istituzioni e dei Mercati Finanziari, con una tesi sul microcredito, intreccia percorsi di ricerca per l’innovazione sociale, perseguiti anche all’interno dell’associazione Libera, con il suo interesse per la scrittura e la lettura in prosa e in versi.

2 commenti

  1. Articolo bellissimo. L’inizio è un colpo al cuore: “Come se fosse possibile dividere l’immensita’ “. E in tutto l’articolo si sente che l’orizzonte dell’immensita’ non è perduto!

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