Editoriale. Speriamo che l’Europa sia femmina

Carissime lettrici e carissimi lettori,
avrei voluto cominciare questo editoriale con una serie di notizie giornalisticamente vecchie, ma allegre e invece scelgo di iniziare con il resoconto di un fatto orribile, anche se non più di attualissima cronaca, come detterebbe il calendario.
Che cosa si prova di fronte a un padre che uccide i suoi due figli per distruggere la moglie? Sicuramente orrore. Un orrore per una vendetta, una terribile vendetta trasversale, peggiore, e credevamo che cosa più cattiva non potesse esserci, dell’atto del femminicidio, perché, alla fine, di questo si deve parlare ancora. Non togliere la vita, ma condannare a un dolore eterno.
«É la vendetta più crudele che una persona possa compiere – ha affermato in un’intervista a Rita Bartolomei su un quotidiano on line Claudio Mencacci, presidente della società italiana di neuropsicofarmacologia – Distruggo quel che hai di più caro al mondo, per creare il deserto permanente…ancora più violento e prevaricatore, qualcosa che va al di là della morte fisica della persona. Come se in questo gesto ci fosse una condanna che non può avere riparazione…una dinamica incredibilmente perversa, purtroppo, drammaticamente più frequente di quello che a volte pensiamo.» La Grecia antica, non certo favorevole alle donne, a cui non riconosceva diritti civili, relegandole in luoghi di non partecipazione attiva come i ginecei, diede a una donna, Medea (figura tra le più complesse di Euripide), l’orribile sorte di punire attraverso sangue innocente un amore che vedeva non corrisposto.
Sulla possibilità di una malattia mentale di chi è riuscito a commettere questo terribile delitto è ancora Mencacci a sottolineare: «Non sappiamo ancora molto ma non dobbiamo confondere. Il potere, il possesso, la vendetta non sono sentimenti da malati mentali. Aver lanciato un messaggio prima, intanto fa intendere che ci sia stata premeditazione. Quello che mi ha colpito è che questo è il primo omicidio del genere dopo il lockdown».
Ecco che affiora il problema che sembrava dormiente. Il periodo in cui tante donne sono state costrette a rimanere chiuse in casa con il proprio convivente violento è stato anche lo stesso in cui le cronache e i media tutti hanno parlato esclusivamente di un’unica notizia, in maniera ossessiva, martellante: il Covid-19 e i numeri, di malati/e, morti/e e guariti/e legati al virus. Il resto sembrava essersi volatilizzato nel nulla, scomparso dietro mura invisibili, capaci di nascondere orrori peggiori di quelli che vedevamo mietuti dal coronavirus.
Invece la peste di quest’ultima primavera, per prendere in prestito la parola dal bel libro di Albert Camus, ha prodotto molti danni collaterali i cui frutti malevoli si stanno ingigantendo ora. La negazione totale della libertà personale: «di chi prima di tutto non considera il proprio partner come una persona che ha diritto a fare la sua vita, con i figli. Non si riesce mai a capire che è molto meglio avere una coppia che sceglie piuttosto che tenere insieme una famiglia con tensioni di questo genere. Ecco lo sbaglio di fondo… Le scelte dei genitori, quando sono consapevoli, aiutano i figli a crescere meglio. Fanno comprendere che si sta dalla parte dei sentimenti, che ci si comporta da persone più autentiche, piuttosto che rimanere in una logica di potere o di sofferenza che porta soltanto tensioni.»
Non si può parlare di amore. Orribile intitolare un’inchiesta, un articolo, definendo l’oggetto trattato come amore malato, perché in tutto questo non c’è amore e non c’è malattia. Lo psichiatra continua a spiegarcelo: «Assomiglia solo a un gesto di prepotenza. Commesso con molta lucidità. Non abbiamo alcun elemento che faccia propendere per una situazione di confusione o di malattia mentale…Quando un padre uccide i figli, è come se non pensasse alla loro sofferenza. Non li considera individui, persone, futuro, ma come un suo oggetto. Questa non è patologia. È possesso, potere, prevaricazione.»
E tale è la percezione che ha avuto questo assassino e femminicida, non ultimo se ricordiamo il terribile epilogo di un episodio, praticamente identico, accaduto a Foggia soltanto l’ottobre scorso. In quel caso una guardia carceraria di 53 anni sparò e si sparò, dopo avere ucciso le tre donne della sua famiglia. Non lasciò a soffrire una madre. Ma l’orrore sociale continuò con i titoli di giornale (era un uomo schivo!) e con una delle più inopportune pietas per l’assassino, che fu unito, nei necrologi, ai nomi delle sue vittime.
Anche stavolta un giornale ha titolato: Devastato dalla separazione, per poi sottolineare, generalizzando gravemente, che l’orrore commesso è stato frutto del dramma dei papà separati. Ancora un sacerdote, dimentico dell’avversione della Chiesa per l’omicidio e il suicidio che toglierebbero dalle mani della divinità il potere sulla vita e sulla morte (dilemma etico in tema di aborto ed eutanasia), e soprattutto indifferente alle parole del Cristo: “Sarebbe meglio per lui che gli fosse messa al collo una macina da mulino e fosse gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno solo di questi piccoli.”(Luca 17:1-2 LND) osa porsi nella mente divina e dice al suo popolo e ai lettori di un giornale che lo ha intervistato che Dio sarà clemente e sicuramente (?) e che ora saranno tutti e tre (figli e padre ndr) nelle mani divine.
Avevo annunciato argomenti più umani, anniversari di nascita o morte, ma di chi ha vissuto una vita intensa, donando ricchezza culturale e allegria all’umanità.
Vogliamo omaggiare prima di tutto una donna meravigliosa, che del suo sguardo al cielo ha fatto l’essenza della vita. Sette anni fa, (il 29 giugno 2013) ci lasciava Margherita Hack, scienziata valorosissima, tanto da essere riconosciuta come rifondatrice dell’Osservatorio astronomico di Trieste al quale ha saputo dare, con la sua direzione, livelli di competenza internazionali. La professoressa Hack (che un giorno in un’intervista mi disse, sorridendo, ma sicura, che nei suoi viaggi all’estero soffriva di non riuscire a trovare uova al tegamino ben cucinate!) era anche animalista e vegetariana da tutta la vita. Ripeteva (lo ha fatto anche durante la nostra chiacchierata, della quale ho un ricordo incancellabile) che la sua vita da atleta e da appassionata del nuoto e, soprattutto, della sua immancabile e inseparabile bicicletta (la prima gliela regalarono i genitori dopo il ginnasio e disse che si sentì veramente libera) era la testimonianza «di una forza fisica e della pace con la quale si può vivere con l’universo intero, senza procurare dolore e togliere la vita a nessuna creatura.» Da laica assoluta quale è sempre coerentemente stata, Margherita Hack ha visto le stelle nella loro bellezza fisica, mai come direttrici di un destino, ha semplicemente osservato la poesia laica della loro presenza.
Alla fine di giugno di venti anni fa (il 29 giugno 2000) moriva a Roma Vittorio Gassman, il Mattatore, uomo di teatro e splendido attore di cinema, diretto da registi che rimarranno con lui, e anche grazie al suo genio recitativo, nella storia del cinema mondiale. Lo ha diretto Monicelli da La grande Guerra a I soliti ignoti all’Armata Brancaleone. Dino Risi de Il sorpasso o de Il Tigre o Profumo di donna. E poi Zampa, Lattuada, Rossellini.
Il ricordo di Vittorio Gassman ci riporta ad un altro grande protagonista della Commedia all’italiana: Alberto Sordi, che avrebbe compiuto, come Federico Fellini, un secolo, ma la loro arte va oltre il tempo di una vita.
La meraviglia che è alla base dell’arte, della cultura e noi vogliamo pensare della vita, celebra il suo anniversario con quella Alice, creatura vera e viva, trasportata allegramente in un magico pozzo da un professore di Logica, precursore con le sue opere di fantasia di quel Corso di linguistica generale (1916) capolavoro di Ferdinand De Saussurre.  Era un matematico a Oxford e anche un pastore anglicano: si chiamava Charles Lutwidge Dodgson, che non sarà lo stesso nome con il quale firmerà la sua Storia di Alice nel Paese delle Meraviglie con la sua stupenda appendice di Alice attraverso lo specchio, per le quali era Lewis Carroll. L’anniversario è duplice: quello della gita in barca con le tre figlie del grecista e collega Henry George Liddell, il 4 luglio 1862 (“una giornata fresca e piovosa”, ahinoi!) e della prima uscita del libro, nel 1865, ben centocinquantacinque anni fa, anni che non tolgono certo freschezza al testo, che risulta un vero trattato di filosofia del linguaggio. Su Carroll e le Avventure della sua Alice leggerete un bell’articolo oggi qui pubblicato.
Edmonia Lewis è una scultrice che meritava una puntata a sé nella carrellata di articoli qui pubblicati sulle grandi scultrici, sempre all’ombra degli artisti maschi. Una sofferenza che ha investito anche la compositrice polacca Grażyna Bacewicz (1909-1969) che, nell’analisi dell’odonomastica di Varsavia e delle altre città della Polonia qui raccontata, è più volte confusa come uomo, replicando un doloroso copione.
Grande simpatia per le premiate con il Nobel per le scienze, dalla fisica, alla chimica alla medicina: un numero comunque sparuto rispetto ai colleghi maschi che spesso si sono giovati, per l’ambito riconoscimento, proprio del contributo delle scienziate.
Una gita da Toponomaste è invece quella da fare tra le strade umbre di Perugia fino a Todi per ascoltare le storie e le intitolazioni (bello l’orto della scuola di Agraria dedicato a Matteuccia) legate a donne che il patriarcato regnante ha voluto chiamare Streghe.
Viene da Firenze (dove oggi mi trovo) la Tesi di questa puntata, discussa nel 2015 e parla della lingua e dell’uso che ne viene fatto: «Come spiega Bourdieu (1998) –  scrive l’autrice citandolo – la forza dell’ordine maschile si misura dal fatto che non deve giustificarsi: la visione androcentrica si impone in quanto neutra e non ha bisogno di enunciarsi in discorsi miranti a legittimarla. Il linguaggio perpetua, quindi, la visione del femminile in una costante ottica di alterità e diversità. Noi siamo “l’altra metà del cielo”, e lo rimarremo finché non potremo accedere a delle parole che siano nostre, finché non smetteremo di sentire che «ministra è cacofonico», «sindaca suona male»; finalmente il nostro genere smetterà di esse ricordato e inglobato dal maschile e troveremo una nostra voce.»
Sarà un caso o una necessità del destino, ma qui a Firenze e dalla nostra rivista arriva contemporaneamente un gustoso suggerimento gastronomico che, semplice e poco costoso, profumerà le nostre cucine secondo la ricetta riportata più giù. La pappa al pomodoro: da preparare rigorosamente con il pane sciocco raffermo dei toscani che rimanda a quei versi della Commedia (Paradiso canto XVII) «Tu lascerai ogni cosa diletta/ più caramente; e questo è quello strale/che l’arco dell’esilio pria saetta/ tu proverai come sa di sale/ lo pane altrui, e come è dura calle/ lo scendere e‘l salir per l’altrui scale». A riprova che anche il grande Alighieri conosceva il pane privato del sale dalle forti gabelle imposte da Pisa. Io qui la ordinerò per pranzo!
Buona lettura a tutte e a tutti

 

 

Editoriale di Giusi Sammartino

aFQ14hduLaureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.

5 commenti

  1. Come al solito a largo raggio e molto interessate. Condivido al 100% il ritratto i Margherita Hack che ho stimato molto come donna prima ancora che come scienziata. Una domanda che mi faccio sul papà omicida suicida a cui nessuno ha dato una spiegazione convincente. Ha fatto in modo che i figli non lo vedessero in faccia: pietà o più presumibilmente vergogna vergogna?

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    1. Carissima, ti rispondo con ritardo ma perché con ritardo leggo i commenti non essendo bravissima a confrontarmi con questi strumenti. Adoro la pappa al pomodoro non potevo farne a meno di lodarla e poi la tua bellissima scrittura mi ha accompagnata. Grazie a te

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