Per le vie e i luoghi delle streghe umbre. Un viaggio da Perugia a Todi

Unguento unguento
mandame alla noce de Benevento
supra acqua et supra a vento
et supra ad omne maltempo
.

È la formula di Matteuccia riportata negli atti processuali conservati a Todi.
Risulta agli atti che Matteuccia si cospargesse di questo unguento e, trasformata in mosca o in gatto o in strega, cavalcasse un demonio dall’aspetto di capro che la portava in volo a Benevento.
Niente paura, non trasvoleremo in questo modo le vie e i luoghi delle streghe e non arriveremo fino a Benevento. Il viaggio che propongo è soltanto virtuale ed è limitato alle streghe del mio territorio, perciò partiremo da Perugia e ci fermeremo a Todi.
Il percorso inizia naturalmente da via delle Streghe, una traversa di corso Vannucci, la principale arteria del centro storico della città.
A un certo punto da via della Streghe si diparte via della Sapienza. Questo incrocio costituisce una sorta di felice metafora che mette insieme le donne e i saperi. Si tratta di una figura retorica involontaria perché la via prende il nome dal Collegio della Sapienza Vecchia a cui dava accesso; comunque l’intersecarsi delle due strade accosta le streghe alla loro “colpa” fondamentale, cioè quella di avere il potere della conoscenza, un potere da esorcizzare attraverso la persecuzione. Queste donne dovevano essere punite perché, invece di starsene tranquille al loro posto, cioè a casa, avevano fatto scelte diverse, mettendo in discussione il proprio ruolo. Dante (Inferno XX, 121-123) ce le mostra tra i dannati di Malebolge.
«Vedi le triste che lasciaron l’ago,
la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine;
fecer malie con erbe e con imago.»

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Perugia, via della Sapienza

Torniamo a via delle Streghe.
Le cronache non riportano episodi particolari legati a questa intitolazione. Il Frezzini, sembra attribuire l’origine del nome all’aspetto della via. «Non smentisce il proprio nome. È brutta, tortuosa e si può dire anche immonda», insomma parrebbe la sede ideale delle fattucchiere di malefici.
È un’altra la strada di Perugia che sembrerebbe legata a un episodio di “stregoneria” anche se dal nome non si direbbe, mi riferisco a via della Sposa.
L’episodio è descritto con ampiezza di particolari dal Gigliarelli che riporta anche le cronache dell’epoca.
«Marta di Giapeco di Nolfo, abitante presso la chiesa di Santa Mustiola, amava ardentemente un Armanno, che senza apparente ragione ai 15 del luglio 1351 a un tratto l’abbandonò. Passarono venti giorni e Marta era in fin di vita: ai 6 del successivo agosto si sparse la notizia ch’era stata “posta una factura sotto l’altare di sant’Andrea e il prete riteneva detta fattura e n’era pubblica voce e fama per tutta la parrocchia”; e se ne incolpò una tal Luminuccia di Vincenzo di Buoninsegna.
O fosse caso o ravvedimento, l’Armanno ritornò il giorno della Madonna di Monteluce vicino a Marta  morente; la quale subito riprese vita e vigore: le nozze si celebrarono e la fanciulla il dì dell’imeneo attraversò festeggiata la via».
(Nota per i non perugini: il giorno della Madonna di Monteluce è il 15 agosto, giornata di grande festa nel quartiere di Monteluce sviluppatosi intorno alla chiesa di Santa Maria Assunta. La fattura fu quindi tolta in un mese)

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Perugia, via della Sposa

Ho voluto riportare la storia di Marta e Luminuccia perché ci dice quali fossero, oltre alla cura delle malattie, le prestazioni che più si richiedevano alle maghe del tempo: i filtri e le fatture d’amore.
Gigliarelli poi si chiede: «E della povera Luminuccia che avvenne?». Le cronache non ce lo raccontano.
Ma se non conosciamo la sorte di Luminuccia, sappiamo, sempre basandoci sui testi di odonomastica, la tragica fine della sventurata Santuccia da Nocera. Ce la riporta l’abate Serafino Siepi nel suo Descrizione di Perugia –Annotazioni storiche, a proposito di piazza Campo di Battaglia.
«Notano i nostri scrittori a penna che nel 1445, il dì 6 marzo, fu dal Governatore Marino Orsini fatta abbruciare in questa piazza come Maga una certa Santuccia da Nocera, qui trasferita al supplizio a cavallo su di un asino col volto verso la coda e con una mitra in capo sostenuta dall’immagine di due diavoli» e dieci anni dopo: «Nel 1455 il dì 12 aprile in questo stesso luogo fu bruciata una vecchia Fattucchiera.».
All’epoca le esecuzioni avvenivano in questa piazza che era antistante le carceri, dove nel 1202, quando ancora non era santo, «stette per un anno ritenuto Francesco, figlio di Bernardone di Assisi, preso in una Battaglia data contro gli Assisani ribelli del Comune di Perugia.».
L’ultima esecuzione capitale in questa piazza è del 1583.
Oggi la piazza descritta dal Siepi non esiste più, ne hanno preso il posto molte e diverse strutture. Vi è stato costruito anche il Mercato coperto di fianco al quale, sempre nello spazio occupato un tempo dalla piazza, c’è il capolinea del minimetrò. Il nome campo di battaglia derivava dal fatto che il 1° marzo di ogni anno, in occasione della festa del patrono sant’Ercolano, vi si svolgeva la Battaglia dei sassi.
Torniamo alle due disgraziate donne bruciate vive nella piazza per capire in applicazione di quali norme furono condannate.
Nello Statuto del Comune e del Popolo di Perugia del 1342, libro III, capitolo 102, intitolato Deglie facente le fature, si prescrive che le autorità cittadine almeno una volta al mese:
«enquiriscano contra tucte e ciascune persone le quale facciono le fature overo venefitie overo encantatione d’emmunde spirite a nuocere. E quilla persona la quale troveronno de cotale  peccato envolta, per piubeca fama overo per uno testimonio de vertà, puniscano e punire siano tenute en quatrocento libre de denare per ciascuna fiada: la quale se pagare non poderà e non pagherà enfra diece dì po’ la condannagione facta, degga en lo foco essere arsa sì ke muoia.»
Si noti che era sufficiente la pubblica fama per istituire un processo e che il compito di giudicare le fattucchiere, anche se agivano con l’aiuto di emmunde spirite, cioè di demoni, non competeva alle autorità ecclesiastiche, ma ai tribunali secolari e questo in tutta l’Umbria. Sono le magistrature laiche che secondo gli statuti istituiscono i processi ed emettono le sentenze, non l’Inquisizione.
Non possiamo tuttavia ignorare il ruolo di influencer che in queste zone ebbero sull’opinione pubblica del tempo predicatori come san Bernardino da Siena e san Giovanni della Marca. La predicazione era in pratica l’unico ed efficace strumento di comunicazione di massa di cui disponeva allora la chiesa.
Di Santuccia e di Filippa da Città della Pieve, la fattucchiera nominata dal Siepi insieme a Santuccia, rimangono i processi, gli atti dei quali sono stati pubblicati da Ugolino Nicolini nel 1987.
I sette processi perugini editi da Nicolini coprono un arco di tempo che va dal 1347 al 1501. C’è solo un imputato uomo, Giacomo Nicolò Cervi da Pisa, che se la cava, si fa per dire, con una pubblica fustigazione. Delle sei donne solo una viene assolta per mancanza di prove, Bellafiora Ebrea; tutte le altre finiscono sul rogo.
A Perugia non c’è una setta, le imputate non vengono processate come adepte di una “societas maleficarum, si tratta di procedimenti isolati, a carico di streghe sole, pertanto qui non si riscontra in alcun modo il clima di caccia alle streghe che caratterizzò altri territori.
La prima condanna di questa serie di processi riguarda Riccola di Puccio da Pisa. È acccusata di essere «mulierem male conversationis, vite et fame, affacturatricem, veneficam et incantatricem et invocatricem malorum immundorum spiritum», e, per di più, compie questi riti a scopo di lucro: si fa pagare per le sue prestazioni.
Chi sono le clienti di Riccola e, più in generale, quali donne si rivolgono alle streghe? Sono donne sole o che soffrono di solitudine, spesso trascurate o maltrattate dai propri mariti. I rimedi che propone Riccola probabilmente non risolvono i loro problemi, sono innocui, non procurano la morte di nessuno, ma gli uomini ne sono terrorizzati, hanno paura che venga catturata la loro mente e che possano finire sottomessi alla volontà di una donna. Perciò il 3 marzo 1347 Riccola viene riconosciuta colpevole e condannata a pagare 1200 libre di denari. Ovviamente non dispone dei mezzi finanziari sufficienti e il 14 marzo il capitano del popolo di Perugia «ipsam Ricchola fecit igne cremari».
Dopo di lei vedremo che per ogni altra donna malefica o fattucchiera -in questi primi processi non compare il termine strega che all’epoca usava solo san Bernardino e che troveremo per la prima volta a proposito di Matteuccia- si ripropone la formula donna di cattiva condizione di vita e di fama.
Occorre notare che negli statuti di Perugia e di altre città umbre, come Gubbio, Gualdo Tadino, Assisi e Orvieto la condanna per questi reati non era mai la pena di morte, ma una multa in denaro per ogni capo di imputazione e, solo se non era in grado di pagare la somma stabilita dai giudici entro dieci giorni, la condannata finiva sul rogo. Era praticamente impossibile per queste donne che non avevano protezione, perché sole, nubili o vedove, disporre di tali somme di denaro e quindi il loro destino era segnato.
È il caso per esempio di Filippa di Città della Pieve, bruciata il 12 aprile 1455 in piazza Campo di Battaglia, dopo essere stata condannata dal capitano del popolo di Perugia a pagare 4000 libre di denari.
Lo stesso accade a Mariana da San Sisto, condannata a Perugia il 6 novembre 1456 e che è condotta al rogo a capite tonso perché fra i capi d’accusa che le sono addebitati c’è quello di aver indotto una donna all’adulterio e negli Statuti di Perugia era questa la pena per le ruffiane (libro III, capitolo 101, De la rufiana.): «el capo tosseratoglie, per la cità e per glie borghe degga essere frustata».
Di Santuccia da Nocera non ci è pervenuta la parte finale degli atti processuali, cioè la sentenza, ma abbiamo la descrizione della sua fine, riportata come si è visto anche da Serafino Siepi e disponiamo di un altro terribile documento: la testimonianza del predicatore Giovanni della Marca che nel suo De sortilegiis definisce Santuccia diabolica vetula, la accusa di aver ucciso 50 bambini, di averne bevuto il sangue e di aver compiuto un maleficio servendosi di un’ostia consacrata.
Nel 1437 finisce sul rogo Katerina di Giorgio da Modrus, di origine croata ma cittadina di Perugia. È accusata non solo di aver compiuto i soliti malefici che si attribuiscono alle malefiche e fattucchiere, ma anche di essere homicidam e furem, cioè assassina e ladra. La rovina di Caterina inizia dalla sua passione per Guiduccio, un suo vicino di casa. In questo caso la strega non opera per una cliente, ma per sé stessa. Per conquistare l’amore di Guiduccio fa un incantesimo con un’ostia consacrata contro la moglie di lui e, guidata  dalla gelosia, fa una fattura al suo stesso amante con una candela benedetta. Guiduccio deve fare sesso solo con lei, perciò, quando sarà con un’altra donna, la candela piegata gli impedirà di avere «potentiam coheundi cum aliqua muliere».
Accecata dalla passione, Katerina va oltre. Un giorno, in seguito a una lite con la moglie di Guiduccio, le dà uno spintone. La donna rotola dalle scale e muore sul colpo. Per la colpevole non ci sono attenuanti. La fine è segnata.

3. TODI
Todi

È arrivato il momento di lasciare Perugia e di trasferirci a Todi. Qui incontreremo la più famosa di tutte le streghe dell’Umbria: Matteuccia di Francesco da Ripabianca. Gli atti processuali, conservati nell’archivio storico del comune di Todi ed editi da Domenico Mammoli, sono piuttosto noti e trascrizioni più o meno parziali del processo si possono trovare anche online. Trenta sono i capi d’accusa contro la strega e Matteuccia il 20 marzo 1438 finisce sul rogo in piazza del Monterone a Todi.

4. Panorama-su-piazza-del-Montarone-di-Todi-1024x692
Panoramica su piazza del Monterone

Di tutte le streghe umbre, Matteuccia compresa, pur disponendo degli atti processuali, non conosciamo la loro versione dei fatti, la loro effettiva linea di difesa; abbiamo soltanto la trascrizione ad opera dei notai delle loro confessioni, estorte attraverso la tortura. È lo strazio della tortura che trasforma i saperi popolari di cui erano portatrici in riti e pratiche sataniche.
Matteuccia è una Domina herbarum, la sua colpa è quella di conoscere le proprietà delle erbe e delle piante officinali e di aiutare con esse le persone che si rivolgono a lei. È l’ignoranza dell’epoca che ritiene questi rimedi estremamente pericolosi perché frutto di un’intesa col demonio.
Non dimentichiamo che nel periodo del processo a Matteuccia si trovava a Todi Bernardino da Siena. Non abbiamo testi del santo che riguardano Matteuccia, ma conosciamo le sue invettive contro le streghe che, secondo lui, dovevano finire tutte quante bruciate, di modo che il fumo di questi roghi fosse come un incenso da offrire a Dio.
Matteuccia è molto apprezzata, la sua fama fa sì che si rivolgano a lei uomini e soprattutto donne provenienti da tutta l’Umbria. I rimedi che propone, dettagliatamente descritti nel processo, sono piuttosto ingenui, ma sono interessanti perché ci raccontano di un mondo dove convivono sacro e profano, conoscenze e fantasia e ci testimoniano di un’umanità afflitta da problemi che non possiamo dire di aver risolto neppure oggi. Ci sono donne che si rivolgono a Matteuccia per fare fatture erotiche, cioè per conquistare l’amore di un uomo, e ci sono donne che vanno da lei perché maltrattate dal marito. Era lecito per gli uomini di allora picchiare la propria moglie al fine di “correggerla”, perciò queste donne maltrattate non potevano rivolgersi alle magistrature locali, non restava loro che chiedere aiuto alla strega. E cosa propone loro Matteuccia?
A una certa Giovanna del distretto di San Martino «Matteuccia le disse di trovare un rondinino, e nutrito con zucchero, di darlo a mangiare a detto suo marito e inoltre di lavarsi i piedi e di dargli a bere quell’acqua mescolata a vino». Come poteva una donna, ci chiediamo oggi, pensare di proteggersi da un marito violento in questo modo? Eppure dagli atti del processo traspare la convinzione dei giudici che con queste pratiche gli uomini vengano manipolati e impediti nella loro volontà. Anche se la loro volontà è quella di picchiare la moglie.
Ci sono anche donne che, come una certa Caterina di Città della Pieve, si recano da Matteuccia per chiedere un contraccettivo. Matteuccia conosce le proprietà di molte erbe e suggerisce la cura per ogni male, per ogni situazione, ma l’accusa che le è rivolta è quella di «praticare la sua arte (…) non avendo presente Dio, ma piuttosto il nemico del genere umano». L’ignoranza popolare è convinta poi che compia riti satanici, che si rechi ai convegni delle streghe e succhi il sangue ai lattanti e alla fine lei stessa dichiara di preparare un unguento i cui principali ingredienti sono il grasso di avvoltoio e il sangue delle nottole e dei neonati grazie al quale può volare al noce di Benevento, e ne svela la formula magica. E dichiara altro ancora… Potenza delle procedure processuali dell’epoca!
A Lorenzo de Surdis, Capitano e Conservatore della pace nella città di Todi, non resta che emettere la sentenza capitale.
Il nostro viaggio, iniziato sulle parole di Matteuccia, sta per concludersi a Todi, di nuovo con Matteuccia, per  una sorta di circolo virtuoso. Non in piazza del Monterone, che ha visto le fiamme che l’hanno divorata. La nostra storia, in un certo senso, finisce bene: dopo tanti anni la figura di Matteuccia è stata finalmente riabilitata. Qui a Todi. E probabilmente nel modo migliore.
Siamo nel convento di Montecristo, sede dell’Istituto tecnico agrario, la scuola d’agricoltura più antica d’Italia, fondata nel 1864.
Qui è stato ideato e aperto un laboratorio didattico sui generis. Si tratta di un orto di piante officinali, un progetto innovativo che tiene conto della rinata attenzione per le essenze vegetali di cui è stato rivalutato l’apporto salutistico. Questo giardino è stato dedicato alla strega Matteuccia.
In occasione dell’inaugurazione si è tenuto un convegno a cui ha fatto seguito una pubblicazione: L’orto della strega Matteuccia nell’abbazia di Montecristo. Il Giardino delle erbe aromatiche ed officinali dell’Istituto Agrario di Todi. Qui si dichiara che l’iniziativa presa dalla scuola va intesa anche come «un tardivo segno di riconciliazione tra sapere al femminile e il sapere universale».
Non è stata fatta una semplice intitolazione, ma è stato organizzato l’orto in modo tale che sia ricco di simbologie, che offra a chi lo  visita spunti di riflessione.
«La prima sensazione che si prova entrando in questo giardino è che si stia entrando in una dimensione in cui ci si mette in gioco, in cui ascolto e sguardo passivi fluiscano in una dimensione attiva e propositiva nella ricettività che ci prepara all’accoglimento degli stimoli successivi. L’interpretazione dei segni, infatti, intesi come disposizione degli oggetti ma anche come ascolto delle essenze vegetali, ci offre la possibilità di stimolare intelletto e curiosità.
Essa rimane comunque libera ad ogni forma di espressione e il presupposto principale da cui scaturiscono le scelte progettuali si pone l’obiettivo di partire dalla “rievocazione” di un accadimento storico come il rogo della strega Matteuccia per poi allargare gli orizzonti verso l’affascinate universo della femminilità. Questo perché, seppur si sia consci di affrontare un capitolo tragico della storia, esso non può ormai che essere la base per costruire un divenire di sempre maggiore consapevolezza.» (pp.31-32)
Per una descrizione dettagliata dell’orto che ne spieghi tutte le simbologie e i significati non posso che invitarvi a leggere questo testo, un’opera collettiva, ricca di notizie, e anche di curiosità, come la lista delle erbe delle streghe e delle loro proprietà curative. Una copia digitalizzata del libro si trova nel sito della scuola, a disposizione di tutti/e.
Per me è arrivato il momento di concludere con l’immagine di ragazzi/e e  insegnanti nell’orto di Matteuccia.
È compito della scuola fornire gli strumenti per combattere l’irrazionale e il pregiudizio e, nell’orto della strega dell’Istituto agrario di Todi, Matteuccia parla ancora oggi alle giovani generazioni attraverso i suoi saperi e il ricordo di ciò che le fu fatto, affinché questa storia non possa più ripetersi.

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Bambini e insegnanti nell’Orto della Strega dell’Istituto Tecnico Agrario di Todi

 

 

Articolo di Paola Spinelli

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Ex insegnante, ex magra, ex sindacalista, vive a Perugia alle prese con quattro gatti e i suoi innumerevoli hobby, ma è in grado di stare bene anche senza fare niente.

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