La memoria: presidio della democrazia. Bologna, 2 agosto 1980

Luca non sta più nella pelle: sta andando al mare con la sua mamma e il suo papà, è l’ultima estate senza compiti perché lui a settembre andrà a scuola, in prima elementare. La macchina procede lungo l’autostrada, ma un piccolo incidente cambia i programmi della sua famiglia perché il veicolo si rompe e la delusione del bambino è grande. I genitori lo tranquillizzano, portano la macchina a far riparare e decidono di proseguire il viaggio in treno prendendone uno alla stazione di Bologna. Chissà se per arrivarci hanno utilizzato un taxi e chissà se era quello di Fausto che adesso è anche lui lì, in stazione, in attesa del prossimo treno da cui magari scenderà il/la suo/sua prossimo/a cliente, intanto però si gode il momento di pausa chiacchierando con un collega. Come lui anche Mirella, Euridia, Nilla, Franca e Rita, nonostante sia agosto, sono al lavoro chi occupandosi della contabilità, chi contattando i fornitori, chi dedicandosi alle/ai clienti al bancone del Self Service: tutte sono dipendenti della Cigar, la società incaricata dei servizi di ristorazione all’interno della stazione e gli uffici sono proprio sopra le sale d’aspetto dell’ala ovest di un edificio gremito di persone perché è il 2 agosto e o si parte o si programma un viaggio. Ed è proprio quello che stanno facendo Viviana e Paolo, sposi da pochi mesi, che presto diventeranno anche mamma e papà perché lei ha appena scoperto di aspettare un/a bambino/a; sono in fila e stanno per acquistare i biglietti per il treno e per il traghetto che li porterà in Sardegna a settembre. Maria, invece, il biglietto ce l’ha già e sta attendendo il treno per il Lago di Garda dove trascorrerà una breve vacanza con la sua bimba, Angela, di tre anni e alcune amiche; è in sala d’aspetto e il suo tempo, come quello di Luca e dei genitori; di Fausto; di Mirella, Euridia, Nilla, Franca, Rita; di Viviana e Paolo e del/la loro bimbo/a si ferma alle 10:25, l’ora che ancora oggi segna l’orologio di quella stazione senza mai andare avanti, l’attimo in cui un’esplosione sollevò l’intera area ovest della struttura che poi ricadde su sé stessa, investendo il sottopassaggio pedonale con un’onda di fiamme, polvere, schegge e avvolgendo il treno straordinario Ancona-Chiasso, fermo al primo binario e i taxi e le persone: un’intera città avvertì il tremendo boato che veniva da lì, dalla stazione. È il 2 agosto 1980 e muoiono 85 persone, 200 rimangono ferite: la strage più grande avvenuta in Italia in tempo di pace.

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Immediata è la risposta di Bologna: in tanti/e accorrono per scavare, per dare una mano e la catena di solidarietà è enorme, le ambulanze trasportano le persone ferite e i primi ricoveri si registrano già 10 minuti dopo l’esplosione. Anche la massima carica istituzionale, il Presidente della Repubblica, appena appresa la notizia, accorre a Bologna, visita prima l’Ospedale Maggiore e poi il luogo della strage. Sandro Pertini, il partigiano che aveva assistito alla feroce guerra civile del 1943-1945, con voce rotta dalla commozione usa quella parola che scava dentro l’abisso e permette a tutte/i le/gli italiane/i, che guardano attonite/i Bologna, di dare voce all’indefinibile tormento di quei momenti e ai giornalisti, che aspettano una dichiarazione, dice di sentirsi straziato, cioè diviso, smembrato, squarciato da un dolore superiore a qualsiasi capacità di sopportazione. L’esplosione ha cancellato il futuro di 19 studenti, 5 insegnanti, 14 operai/e, 12 impiegate/i, 7 pensionati/e, 11 casalinghe e poi artigiane/i, ferrovieri, tassisti, dirigenti, lavoratori/trici, disoccupate/i, ha reso i corpi di alcune delle vittime irriconoscibili o addirittura introvabili: è il caso di Maria, i cui resti saranno rivenuti solo a dicembre.

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Le indagini partono immediatamente e l’ipotesi iniziale di un incidente dovuto ad una caldaia malfunzionante si abbandona subito: tutti/e coloro che o sono rimasti/e coinvolti/e e sono sopravvissuti/e oppure si sono precipitati/e alla stazione per dare il proprio contributo dichiarano di aver percepito un forte odore di polvere da sparo. Il riconoscimento che l’esplosione è dolosa avviene 24 ore dopo la strage: l’esplosivo ad alto potenziale, presumibilmente nascosto in una valigia, è stato collocato vicino ad uno dei muri portanti della sala d’aspetto a dimostrazione del fatto che l’intenzione era quella di uccidere indiscriminatamente il maggior numero possibile di persone. Gli inquirenti si orientano verso l’area politica dell’estrema destra neofascista spinti sia da un’ampia documentazione raccolta in cui si fa riferimento alla vocazione stragista della destra neofascista, come già aveva registrato anche il magistrato romano Marco Amato che si era dedicato all’arcipelago neofascista ed era stato ucciso proprio nel giugno 1980; sia per i precedenti: da Piazza Fontana a Peteano, dalla Questura di Milano all’Italicus. Già a fine agosto vengono firmati i primi mandati di arresto per esponenti dell’estrema destra coinvolgendo inizialmente 28 e, successivamente, 50 persone. Ma ecco che subito si verificano fatti strani: il 13 gennaio 1981 sul treno Taranto-Milano viene rinvenuta una valigia contenente otto lattine con una miscela esplosiva praticamente identica a quella della stazione di Bologna; circola inoltre un’informativa dei servizi dal titolo eloquente, Terrore sui treni, in cui si ipotizzano nuovi attentati. Poi dichiarazioni, rivendicazioni telefoniche e altri ritrovamenti, insomma indizi che conducono in modo esemplare, impeccabile, “troppo elementare”, per dirla alla Conan Doyle, verso altre piste, tra cui quella che sarà poi detta “internazionale”. Tutto ciò produce un voluto disorientamento investigativo che verrà attribuito ad alcuni elementi deviati del Sismi fra cui il faccendiere Francesco Pazienza e i suoi ex colleghi dei servizi segreti Pietro Mesumeci e Giuseppe Belmonte, guidati dal Maestro Venerabile della P2, Licio Gelli. I detenuti di estrema destra vengono rilasciati e l’ipotesi di una possibile archiviazione dell’inchiesta incombe su una città che vuole la verità e sui familiari delle vittime che, guidati da Torquato Secci che nella strage ha perso suo figlio, si uniscono il 1° giugno 1981 nell’Associazione familiari vittime della strage alla Stazione di Bologna che da allora lotta facendo pressione sulla magistratura e sulle istituzioni chiedendo giustizia nella convinzione che: «un Paese che rinuncia alla speranza di avere giustizia ha rinunciato non soltanto alle proprie leggi, ma alla sua storia stessa», per questo loro decidono ostinatamente di aspettare la verità.

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Nuovamente gli inquirenti guardano a quell’arcipelago, come l’aveva definito Marco Amato, di estrema destra e si focalizzano sui Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari), gruppi di terroristi/e fondati a Roma intorno al 1977-1978, che gravitano nell’area neofascista. Non sono dotati di una struttura gerarchica e unitaria e dalle informazioni piuttosto fumose che danno di loro hanno come obiettivo primario una vera e propria lotta contro il potere costituito, contro lo Stato da condursi mediante lo spontaneismo armato. Tra le personalità emergenti in tali gruppi si registrano Valerio Giuseppe Fioravanti (detto Giusva), la sua compagna non solo nella lotta armata, ma anche nella vita, Francesca Mambro, e Luigi Ciavardini, minorenne all’epoca della strage. A loro carico viene istituto un processo che avrebbe dovuto aprirsi il 19 gennaio 1987, ma di fatto ha inizio il 9 marzo dello stesso anno e si conclude con l’ergastolo di Fioravanti e Mambro e con la condanna a 10 anni per Gelli, Pazienza, Mesumeci e Belmonte per depistaggio. Fra gli esecutori materiali vengono condannati all’ergastolo anche Sergio Picciafuoco e Massimiliano Fachini; a Gilberto Cavallini viene imputato solo il reato di partecipazione a banda armata. La posizione di Ciavardini rimane inizialmente sospesa in quanto minore all’epoca della strage. Nel 1990 la Corte d’Appello però non conferma le condanne e assolve gli imputati e la imputata, insomma si teme il tutto da rifare. Nel febbraio del 1992 però la Corte di Cassazione decide che il processo d’appello vada rifatto e si arriva al maggio del 1994 con la nuova sentenza d’appello che conferma l’impianto accusatorio del primo grado, a sua volta confermato dalla Cassazione nel novembre 1995, ad eccezione di Picciafuoco e Fachini che vengono scagionati. La situazione di Luigi Ciavardini è invece più complessa e porta ad una prima condanna a tre anni e 6 mesi nel gennaio 2000, ribaltata poi dalla Corte d’Appello nel 2002 a 30 anni in quanto viene riconosciuto esecutore materiale, ma la Corte di Cassazione poi annulla. Successivamente rivista, la sua posizione viene giudicata dalla Cassazione l’11 aprile 2007 come quella di esecutore materiale della strage e gli vengono confermati i 30 anni di reclusione. Anche la situazione giudiziaria di Cavallini viene rivista e nel 2017 è rinviato a giudizio per concorso in strage; proprio agli inizi di quest’anno è stato condannato in primo grado all’ergastolo.
La vicenda giudiziaria sugli esecutori della strage sembrerebbe conclusa, ma i mandanti? Chi ordinò l’attentato? Chi lo finanziò? Perché? L’11 febbraio 2020 la Procura Generale di Bologna ha emesso l’avviso di chiusura delle indagini sui mandanti della strage. Secondo quanto contenuto nell’avviso firmato dai procuratori generali e dall’avvocato generale i mandanti-finanziatori sarebbero stati Licio Gelli e il suo stretto collaboratore Umberto Ortolani; mentre i mandanti-organizzatori Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale e Mario Tedeschi, senatore piduista del Msi. Secondo gli inquirenti, la preparazione della strage avrebbe avuto inizio nel febbraio del 1979 e ci sarebbe stato un legame tra la P2, l’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno e l’estrema destra con il coinvolgimento di agenti dei servizi segreti e faccendieri e il movimento di milioni di dollari che gli investigatori hanno minuziosamente ricostruito. I quattro mandanti iscritti nell’avviso di conclusione delle indagini verranno archiviati in quanto deceduti, ma ci sono altri quattro indagati per depistaggio e false dichiarazioni, chissà se il processo che verrà istituito consentirà di mettere la parola fine a questa vicenda giudiziaria all’italiana.
40 anni sono tanti, troppi per conoscere quella verità necessaria alla costruzione di una memoria collettiva che per noi italiane/i è cosa ardua, al limite dell’impossibile. Il pericolo, come sostiene Simonetta Saliera, presidente dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna, è che «ogni amnesia nasconda una strisciante e inaccettabile amnistia».

FOTO 4. intitolazione

L’ostinato esercizio del ricordo è l’unico antidoto al drammatico leitmotiv di tutta questa straziante vicenda: la cancellazione delle vite, delle responsabilità, della verità e di una memoria collettiva che è uno dei più importanti presìdi della democrazia, la sua forza, quel legame che unisce tutte/i in quanto cittadine/i. Io quest’anno ricordo leggendo le biografie delle vittime in un prezioso contributo: 2 agosto 1980-2016. Strage alla stazione di Bologna, realizzato dalla Regione Emilia-Romagna in collaborazione con l’Associazione dei familiari delle vittime della strage alla Stazione di Bologna. Credo che conservare, proteggere e custodire la memoria di chi è stato, di quello che è stato sia una delle più alte espressioni del nostro essere umane/i perché come cantano i Modena City Ramblers: «Il giorno che il cielo cadde su Bologna/piovvero pietre fiamme e vergogna/una breccia nel muro/e un’altra nel cuore/quando il ricordo è radice/custodisce il dolore/quando il ricordo è radice/il futuro avrà un fiore».

Si rimanda all’articolo del 27 luglio 2019 su Vitamine vaganti di Mauro Zennaro (https://vitaminevaganti.com/2019/07/27/morte-a-bologna/

 

 

Articolo di Alice Vernaghi

Lh5VNEop (1)Docente di Lettere presso il Liceo Artistico Callisto Piazza di Lodi. Si occupata di storia di genere fin dagli studi universitari presso l’Università degli Studi di Pavia. Ha pubblicato il volume La condizione femminile e minorile nel Lodigiano durante il XX secolo e vari articoli su riviste specializzate.

 

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