il senso della vita

Messaggio su facebook di Federico a Freya, 25 agosto 2020, ore 22,28:
«Buonasera, non so se tu sia la persona che cerco. Se mi sono sbagliato, cancella questo messaggio e scusami. Se invece sei la Freya che conobbi tanto tempo fa, allora ciao: mi sono imbattuto nel tuo profilo quasi per caso, scorrendo le pagine di facebook e digitando nomi pescati nella memoria. Spero che ti ricordi di me, anche se sono passati molti anni. Come stai? Ricordo che avevi intenzione di diventare infermiera: hai fatto quello che volevi? Spero di sì. Io sto bene. Spero che stia bene anche tu e che mi risponderai. A presto, Federico».

Freya a Federico, 26 agosto, ore 6,32:
«Ciao Federico! Sì, sono io! Mi ha fatto molto piacere ricevere il tuo messaggio, ti ricordo benissimo! È passato molto tempo, come dite voi in Italia: “mamma mia”!!!!! Sì, ho fatto una scuola per infermiere ad Arendal, poi l’apprendistato e quindi ho lavorato 5 anni in un ospedale di Oslo. La grande città però non mi piaceva e così sono tornata nella mia Stavanger che, come sai, non è piccolissima, ma qui la vita è più tranquilla, specialmente a Buøy dove vivo. Sono da poco diventata nonna, ho smesso di lavorare e sono contenta. Mi fa piacere avere tue notizie, proprio non me lo aspettavo. Raccontami di te».

Federico a Freya, 26 agosto, ore 23,44:
«Io non sono diventato nonno, almeno non ancora. Sono sposato, ho due figli e una figlia e sono da poco in pensione anch’io. Non ho molto da raccontare. Ho una vita normale. Vivo a Roma come quando ci siamo conosciuti e ho viaggiato meno di quanto avessi desiderato da giovane. Forse ricorderai che sognavo di fare il contadino o il marinaio (due cose molto diverse fra loro, in realtà) ma la città sconfinata e caotica mi affascinava e non riuscivo a staccarmene. Qui si poteva fare tutto. Mi sentivo libero. Era entusiasmante. Mi ricordo che, quando veniste a Roma, tu e Nina rimaneste tramortite dalla confusione e dal caldo (la fine di luglio non è proprio il periodo ideale…), ma vi divertivate molto a venire in giro di notte con me e i miei amici, a mangiare all’aperto, a sentire la gente chiassosa per le strade. Il caos vi scandalizzava e vi deliziava, stavate vivendo una vacanza vera, eccessiva e un po’ riprovevole. Enea ed io, al contrario, quando venimmo a trovarvi in Norvegia, c’innamorammo del silenzio, della pacatezza e soprattutto della natura incontenuta e bellissima. Era tutto puro. Nessuno alzava la voce né appariva troppo vistoso. Qui c’è ancora tanta confusione, ma non mi diverte più. Sono tutti arrabbiati. Durante il confinamento per la pandemia la città era tranquilla e dalle strade non giungevano suoni. Solo dai balconi, al tramonto, qualcuno cantava per soffocare il silenzio. Io ho letto e visto film, non ho sentito il peso dello stare chiuso in casa. Ora qui vogliamo far finta di essere sani, come diceva Giorgio Gaber (un grande artista italiano). Come va in Norvegia?».

Freya a Federico, 28 agosto, ore 6,36:
«Qui la situazione è abbastanza tranquilla, noi non ci spaventiamo per cose del genere, siamo Vichinghi!!! Però per un paio di mesi non mi è stato possibile rifugiarmi nella mia capanna sulla piccola isola, te la ricordi? A me è sempre piaciuto molto passare del tempo lì da sola col mio cane o con amici o con la mia famiglia. L’ha costruita mio padre tanti anni fa, anche per questo l’amo molto. Te la ricordi?».

Federico a Freya, 29 agosto, ore 1,54:
«Certo. Ricordo bene la capanna e la barca con cui i tuoi genitori accompagnarono lì Enea e me. Mi sembrò un posto magico, nato dal mare e fiorito di erica viola (meno male che c’è il traduttore di Google!). La tua capanna era rossa, rustica, senza elettricità e con un rudimentale wc esterno, come immersa in una favola silenziosa e profumata. Mi colpì molto il fatto che vivevate tutto l’anno a pochi metri dal mare, su un’isola, e appena possibile fuggivate su un’isola più piccola e lontana, come se nulla fosse abbastanza solitario e selvaggio per voi. Mi ricordo che quando arrivammo alla capanna tu eri lì con un tuo amico e con Nina. Come sta Nina?».

Freya a Federico, 30 agosto, ore 7,03:
«(Viva il traduttore di Google!!!). Il mio amico è diventato mio marito! Si chiama Jørgen. Anche lui è molto bravo, come mio padre. Ci piace molto saper costruire! Farsi le cose con le proprie mani dà un senso alla vita. Negli anni dell’università (fa il medico) Jørgen ha costruito da solo una bellissima barca a vela tutta di legno con la quale abbiamo fatto dei viaggi incredibili! Ora la usiamo poco, solo d’estate (una volta amavamo il mare d’inverno…) ma mia figlia, appena può, continua ad andarci in giro per tutta la Scandinavia con il suo ragazzo. Nina invece non sta molto bene. Ha sposato Jens (forse te lo ricordi, siamo andati a pesca insieme), hanno avuto due figli e poi hanno divorziato, poi si è risposata e ha divorziato un’altra volta. Anche lei è nonna ma la sua testa non è più quella di un tempo, non si ricorda le cose e i figli vorrebbero metterla in un istituto e lei non vuole e litigano spesso. Questo è molto triste. Ed Enea? Come sta?».

Federico a Freya, 30 agosto, ore 23,12:
«Enea è morto il giorno prima che nascesse mia figlia. Forse ricordi che era malato di emofilia. Aveva preso l’aids dieci anni prima da un emoderivato che si iniettava quando stava male. Aveva imparato a farsi le flebo da solo, anche se gliel’avevano proibito. Sua madre andava a cercargli le medicine, carissime, alla farmacia del Vaticano perché in Italia non c’erano. Si affannava tantissimo per trovarle. Si sentiva in colpa perché l’emofilia la passano le madri. I farmaci erano tedeschi. Enea era diventato bravo con le flebo, ma un giorno gli capitò un flacone infetto. In Germania la multinazionale che l’aveva prodotto andò sotto processo e sborsò milioni, in Italia no, nulla. Buøy è l’isola davanti a Stavanger in cui vivevi con i tuoi genitori, no? Abiti vicino a loro?».

Freya a Federico, 2 settembre, ore 6,55:
«Sono terribilmente addolorata per la morte di Enea. Lo ricordo come una persona molto simpatica e profonda, mi piacevano i suoi quadri. Immagino che ti manchi molto. Mi ricordo che era emofiliaco ma voleva fare una vita normale. Aveva un carattere molto forte. Dovrei avere ancora delle foto che feci quando veniste qui, tanti anni fa. Le voglio cercare, se le trovo faccio una scansione e te le mando. Sì, Buøy è l’isola di fronte a Stavanger in cui abitavo da ragazza e ci abito ancora, proprio nella stessa casa. Jørgen e io abbiamo costruito una casa accanto a quella dei miei (l’abbiamo fatta quasi tutta con le nostre mani!!!) poi la nostra famiglia si è ingrandita e mio padre è morto, quindi con mia madre ci siamo scambiate le case, così siamo rimaste vicine. Ci stiamo benissimo, anche se adesso i figli sono andati via e siamo di nuovo due (più il nostro amato cane). È il ciclo della vita. Adesso Buøy non è più esattamente un’isola: qualche anno dopo la vostra visita hanno costruito un lunghissimo ponte, molto bello e utile, che la collega a Stavanger, ma io preferivo prima, quando c’era solo il traghetto e le poche auto di chi ci abitava. A noi norvegesi la gente piace, ma ci piace anche stare in solitudine, in mezzo alla natura incontaminata, in pace. Io vado ogni giorno a passeggiare nel bosco e sulla spiaggia, raccolgo i lamponi e faccio le marmellate e i dolci (ma dovrei mangiarne di meno!!!!!)».

Federico a Freya, 3 settembre, ore 2,42:
«Ti capisco. Dopo il nostro ritorno da Stavanger ho faticato a riabituarmi all’Italia. La vita qui è tanto diversa, te ne sei accorta anche tu. A Roma il senso della vita sembra essere la mera sopravvivenza. Qui nessuno si costruisce barche e case da sé. Mi hai scritto che Nina ha vuoti di memoria. Se si ricorda di me, salutala. Si ricorderà di Enea?».

Freya a Federico, 8 settembre, ore 7,08:
«Scusa, ho aspettato a risponderti perché volevo andare a trovare Nina e portarle i tuoi saluti. L’ho vista ieri. Le ho raccontato di te, ma non ricordava, non ha riconosciuto nemmeno me. C’è una signora africana che se ne prende cura e mi pare che la tratti con gentilezza. La signora africana non parla bene  il norvegese, ma a Nina non importa, ride molto e con lei non si arrabbia mai. Le ho chiesto se si ricordava di Enea e ha risposto cose strane, si è messa a raccontare di un principe che scappava da una lontana città in fiamme e arrivava qui e l’amava. Ogni tanto dice qualcosa di scombussolato e un po’ pazzesco. La mente è proprio strana. Ho lavorato in un reparto di psichiatria e ne so qualcosa. Quando Nina è di buon umore mi piace starla a sentire anche se capisco poco. I suoi figli invece si arrabbiano sempre e si arrabbiano anche con la signora africana perché ancora non ha imparato bene la nostra lingua e dicono che ride troppo e Nina si agita e strilla, ma invece ride. Quando ho nominato Enea, Nina ha sorriso, ma non vuol dire che si ricordi».

Federico a Freya, 8 settembre, ore 23, 57:
«Ho pensato molto alle nostre diverse vite, in Norvegia e in Italia. Alle passeggiate nei boschi e lungo i fiordi, all’erica e ai cartocci di gamberetti salati che mangiavamo al porto, ai maglioni pesanti e colorati che comprammo in quel piccolo negozio accanto alla biblioteca, al tè nella tua stanza con tutte quelle candele. Io ho provato per un po’ a fare il tè profumato come il tuo e ad accendere tante candele, ma dalla mia finestra non vedo il mare e casa mia non è di legno. Non aveva senso. Poi me ne sono dimenticato e non ho accese più candele e non faccio più il tè. Ho invidiato la vostra pace e la vostra bellezza. Mi è sembrato che in Norvegia il senso della vita fosse ovvio. Forse anche troppo. Che nasceste già conoscendolo. Che per trovare il senso della vita, a volte, trovaste non necessario viverla. C’è tanto ordine, tanta pulizia, tanta correttezza. Mi ricordo il tuo disagio quando mi raccontasti che una tua amica aveva sposato un italiano e poi l’aveva lasciato perché lui l’aveva picchiata. Eri imbarazzata perché temevi di sembrare razzista e di offendermi. Figurati, qui ci si fa quasi l’abitudine. Si sente tutti i giorni di qualcuno che mena e ammazza (donne, in genere). Non voglio dire che sia normale: io ci sto male tutte le volte. Ma sembra che non cambi mai. E mi colpisce la vostra passione nel costruire le stesse cose che hanno costruito i vostri genitori. Come da bambini giocare con il Lego. Una casetta uguale alla loro, stesse tendine ricamate, stesse candele, stesse torte con i lamponi. Andate via di casa a diciott’anni, girate un po’ e poi ritornate e trovate il senso della vita. Mi viene in mente quel film dei Monty Python che si chiama così. L’ultima volta che andai al cinema con Enea, prima che si ammalasse gravemente e dopo un anno morisse, avevamo visto proprio “Il senso della vita”. Ricordo che ci siamo scorticati dalle risate. È stata l’ultima volta che ho visto Enea divertirsi. Dopo poco non si è rialzato più dal letto. Alla fine della malattia aveva anche lui spaventosi buchi nella memoria. Hai visto anche tu quel film? Ti è piaciuto?».

Freya a Federico, 12 settembre, ore 6,15:
«Sì, noi norvegesi siamo così, amiamo quello che abbiamo ma per sentirne il valore dobbiamo allontanarcene un po’ e poi tornare. È una regola non scritta, che rispettiamo. A me sembra una cosa saggia. Nei limiti del possibile siamo felici. La felicità ha bisogno di regolarità. Ho visto “Il senso della vita” ma non mi è piaciuto. Sarà anche divertente ma mi è sembrato volgare. I miei figli invece si sono divertiti, alla loro età è normale essere trasgressivi. Si vede che sto invecchiando».

Federico a Freya, 12 settembre, ore 23,18:
«Volgare? Non l’ho trovato volgare. È sarcastico e esagerato. Ma come altro si può parlare del senso della vita? Forse tu l’hai trovato tra fiordi e lamponi. Nina non stava vaneggiando. Il principe che fuggiva dalla città in fiamme era Enea. Le aveva raccontato un nostro vecchio poema latino (cerca “Eneide” su Wikipedia), però adattato alla loro storia. Era la loro saga. Sono felice che Nina lo ricordi nella versione che lui le aveva raccontato. Pure lui la ricordava, anche alla fine. Si sono amati molto. Ma la Norvegia era troppo norvegese e l’Italia troppo italiana. Era tutto perfetto solo in vacanza, poi ricominciava la vita e ognuno doveva vivere la sua. Anche l’Enea del poema ha fatto la stessa cosa: se n’è andato. Alla fine di quel film che non ti è piaciuto, dopo tutta quella baraonda esagerata, viene fuori che il senso della vita è essere gentili, tenere a bada il colesterolo, leggere, passeggiare, andare d’accordo con gli altri. È una cosa esilarante. Voglio dire: la vita è una cosa senza senso. Enea ci rideva facendosi le flebo».

Freya a Federico, 16 settembre, ore 7,33:
«A me il film non ha fatto ridere, ma trovo che alla fine abbia ragione. La vita può essere difficile ma per trovarne il senso bisogna sapersi accontentare. Forse tu non hai saputo accontentarti».

Federico a Freya, 17 settembre, ore 1,43:
«Forse no. Avrei voluto qualcosa di più, e tu lo sai bene. Non importa, va bene così. È stato bello risentirti. Non ho in previsione un viaggio in Norvegia. Se verrai in Italia fatti viva, prenderemo un ottimo caffè in un bar rumoroso».

Freya a Federico, 17 settembre, ore 6, 45:
«Sì, certo, volentieri, ma anch’io non so quando. Se mai verrai in Norvegia ti offrirò tè e candele. Stammi bene, ciao».

Articolo di Mauro Zennaro

RXPazl9rMauro Zennaro, grafico, ha insegnato Disegno e Storia dell’arte presso un liceo scientifico e Progettazione grafica negli istituti professionali e in alcuni atenei. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla grafica e sulla calligrafia. Appassionato di musica, suona l’armonica a bocca e qualcos’altro in una blues band.

7 commenti

  1. Eccezionale e poetico il tuo dialogo sul web fatto di botte e risposte che ripercorrono tutta una vita. E siete persone eccezionali anche voi, che ho avuto piacere di conoscere, online e per telefono, a mia volta! A presto, spero, per ora passo e chiudo!

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