Erika arriva dalla Romania. Quando la conosco ha appena compiuto diciotto anni e frequenta la quarta di un liceo umanistico. È arrivata in Italia tre anni prima e parla la nostra lingua in maniera quasi perfetta. «Complimenti!» le dico «Sei proprio portata per le lingue, eh?» Lei abbassa gli occhi e guarda il pavimento, mentre un lieve rossore le colora il viso. È una di quelle studenti timide, silenziose e attente, un po’ invisibili. Svolge sempre tutti i compiti assegnati, persino quelli facoltativi che nessuno/a si degna mai di prendere davvero in considerazione. Tra i suoi quaderni regna un ordine perfetto: mai una pagina spiegazzata, neppure l’ombra di una correzione mal cancellata o di un’orecchia. Quando ha qualche dubbio, o non capisce qualcosa, Erika chiede aiuto alle compagne, sempre dopo la lezione, però, per non disturbare. Ogni tanto mi rivolge qualche domanda, forse le sono simpatica. Nel corso dei due anni in cui rimango nella sua classe, abbiamo qualche buona occasione per chiacchierare. Scopro così che è in Italia con la mamma e una zia, entrambe badanti. Dopo la scuola Erika aiuta le donne di famiglia nelle faccende di casa, va a fare la spesa per le signore di cui si occupano e cura il bambino della zia, che non ha ancora un anno.
«Noi facciamo così: tutte devono dare una mano in casa. Per noi è giusto e normale» mi spiega con orgoglio. Del padre non mi parla mai. Nei suoi racconti è il grande assente e io, del resto, non oso chiedere. A parlare con Erika si coglie immediatamente la distanza che separa una adolescente che ha già superato la soglia della maturità, da un/a ragazza media delle nostre classi. Erika è rumena. Questo ha evidentemente un peso centrale sul modo in cui la sua identità si è strutturata. Mentre parliamo ho la netta sensazione di trovarmi davanti a un’adulta. A determinazione e impegno, in classe, non le sta dietro nessuna/o. Rimanere al passo e rimanerci bene, quando si trascorrono tutti i pomeriggi a lavorare, lontane da casa, con una rete sociale tutta da reinventare, non è cosa da tutte/i.
È così, nell’invisibilità quasi totale, che arriviamo alla fine del quinto anno. Nel mese di marzo mi chiede se posso aiutarla a individuare qualche autore di filosofia utile per preparare un elaborato sul viaggio da presentare alla commissione d’esame.
«Molto interessante» commento.
«Vorrei trattare del dolore di chi lascia la propria terra, del senso di abbandono, della perdita di identità» mi spiega.
«Autobiografica?» azzardo.
«Sì e no» risponde.
Già: Erika è timida e discreta, cos’altro avrebbe mai potuto rispondermi? «Prova con Heidegger! — le propongo — Nella sua filosofia c’è tutta la questione dell’uomo gettato nel mondo alla ricerca del progetto che è chiamato a realizzare e che intuisce soltanto. Scoprirlo è il compito della vita. Il progetto che siamo, dico!»
«Eh?» mi chiede con aria imbarazzata.
È evidente che non ha capito niente. Colpa mia: troppo entusiasmo mi porta spesso a mettere tutta la carne sul fuoco nello stesso istante, col solo risultato di disorientare chi ho davanti.
«Tranquilla — la rassicuro — Ti porto io un bel riassunto.»
Qualche giorno dopo, entro in classe, vado dritta verso il suo banco e le metto sotto il naso un paio di fogli stampati.
«Ecco qui! — esordisco trionfante — il meglio di Heidegger solo per te!»
Lei alza gli occhi dal quaderno, scuote debolmente la testa e mi comunica che il tema del suo lavoro sarà un altro: le stelle, mi pare, o qualcosa del genere. «Ma perché? — le chiedo — hai cambiato idea?»
Mi spiega che sono stati gli insegnanti a consigliarle una modifica.
«Siamo in classe in quattro stranieri — mi spiega — se portiamo tutti lo stesso argomento, la commissione magari si stufa e abbassa i voti.»
Io annuisco, riprendo i miei fogli e me ne torno con la coda tra le gambe al mio banco. Per me una alunna che usa la scuola per elaborare la sua vita e i suoi vissuti, ha capito esattamente a cosa serve il sapere. La conoscenza non ha altro scopo che questo: svelarci a noi stessi. E se una ragazza poco più che adolescente lo intuisce, ciò che occorre fare è incoraggiarla, accompagnarla nella costruzione di un senso delle cose. Questo non solo perché è bello, ma anche e soprattutto perché è giusto. È ciò che un educatore o una educatrice dovrebbero fare. Una scuola che porta una alunna a scegliere di approfondire, attraverso le varie discipline, un tema che riguarda la sua vita, ha centrato uno dei suoi obiettivi più alti. Sono quattro gli alunni stranieri in classe? Vogliono parlare tutti del viaggio, dell’emigrazione, del senso di perdita e di lontananza che invade loro l’animo ogni singolo giorno? Ebbene, lo facciano. E lo facciano col nostro aiuto, perché a questo serve la scuola: ad accompagnare nel cammino di crescita, nella costruzione del Sé.
Erika fa un buon esame. Esce dal liceo con un voto medio-alto. Non il suo, comunque, per quel che mi riguarda. Io ad un’alunna così avrei dato dal novanta in su. E non per pietismo, ma perché se lo merita. Ho risentito Erika qualche tempo fa. Dopo il liceo si è iscritta a Giurisprudenza e ora è una brillante avvocata, moglie e mamma di un bambino che ha preso i suoi intensi occhi neri. Nel bel viso da donna, nonostante si sia scelta un mestiere in cui l’apparire sicure è fondamentale, a uno sguardo attento si riesce ancora a scorgere la delicata timidezza che le segna le guance. Grazie al Cielo. Senza, non sarebbe più lei. Dopo la scuola superiore, la stessa estate del suo diploma, avevo incontrato la sua mamma in un parco pubblico della città. Stava seduta su una panchina, all’ombra di un monumentale cedro, accanto a una anziana signora elegante, con i capelli legati a chignon. Evidentemente Erika ha ereditato da sua madre la precisione, la dedizione, l’amore per le cose fatte con cura, si tratti di un compito di matematica o di una acconciatura. Perché anche la badante, proprio come la studente, si può fare in moltissimi modi. Mi sono presentata, abbiamo scambiato qualche parola. Le ho detto che sua figlia mi ha insegnato molte cose sull’orgoglio e la pazienza, sul coraggio e la determinazione. Mi ha guardata con gli occhi lucidi, l’aria di chi non è abituata a sentirsi rivolgere parole gentili e mi ha ringraziata abbassando la testa. Proprio come Erika anni fa, quando le avevo rivolto per la prima volta la parola.
Dal diario di una educatrice scolastica (Liberamente tratto da La palestra degli eroi di Chiara Baldini, Erickson LIVE edizioni)
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Articolo di Chiara Baldini

Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.
leggendo di questa ragazza, resto di stucco per la sua bravura ed il suo impegno scolastico e lavorativo….pensavo non esistessero più. Guardandomi in giro vedo ragazzi-studenti presi da tutt’altro (cellulare di ultima generazione, capi d’abbigliamento griffati) e poi hanno seri problemi di sintassi e un pessimo rapporto con congiuntivi e condizionali.
Complimenti ad Erika e a te che la segui egregiamente!
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