Cittadinanze incompiute. La parabola dell’autorizzazione maritale 

Quanto ha inciso sulla formazione dell’identità femminile un ordinamento giuridico che ha per lungo tempo confinato le donne in una condizione di inferiorità giuridica, sottoponendo i loro atti giuridici all’autorizzazione maritale, relegandole al ruolo di mogli e madri, a cui peraltro era sottratto l’esercizio della potestà, delineando all’interno del nucleo familiare la figura e i poteri di un capofamiglia, impedendo l’accesso a determinate facoltà o insegnamenti e a certi uffici e incarichi pubblici, per non parlare dell’esclusione dal diritto di voto? 

Il testo che vado a recensire è un lavoro corale, inserito nella Sezione Plurale della Storia delle donne e di genere, che prende avvio dall’incontro organizzato da Stefania Bartoloni, Rosanna De Longis, Simona Feci e Paola Stelliferi, a Roma il 10-11 ottobre 2019. Tale incontro ha visto coinvolti la Società italiana delle storiche e il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli studi Roma Tre. Il titolo fa riferimento alla condizione di inferiorità giuridica delle donne nei testi legislativi italiani ed europei dell’Ottocento e del primo Novecento, con una parte finale che riflette sui cambiamenti intervenuti nella legislazione e nella società dal secondo Novecento a oggi. 
Il volume, curato da Stefania Bartoloni, che ne ha scritto l’introduzione, si compone di molti interventi, tutti di grande spessore, e intende fare il punto della situazione relativamente al diritto, ai diritti e ai movimenti delle donne dal Codice civile del 1865, che introduceva l’istituto dell’autorizzazione maritale e sanciva l’incapacità giuridica delle donne, alla legge Sacchi del 1919, che finalmente l’aboliva, dopo che molte voci e un forte movimento si erano schierati contro il regime di «oppressione legale» nei confronti delle donne. 

La lettura di questo libro potrebbe essere un utile spunto per un lavoro interdisciplinare di storia e diritto nella scuola secondaria di secondo grado, perché ha il pregio di soffermarsi sulla situazione giuridica della donna nella storia, ma servirebbe a ogni cittadino e cittadina europei e dovrebbe essere un testo di formazione per ogni docente. 
Nel recensire questo libro mi soffermerò in modo particolare su alcuni saggi, accennando brevemente agli altri, a cui rinvio per la specificità dei loro temi. 
La prima parte si apre con un contributo di Maria Rosa Di Simone, Le italiane tra Code Napoléon e Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch (ABGB), laddove la studiosa evidenzia come la «piemontesizzazione a vapore» che caratterizzò il processo di unificazione nazionale costituì per le donne un vero e proprio regresso. Al momento della costituzione del Regno d’Italia erano presenti due modelli legislativi che, pur essendo influenzati dal giusnaturalismo e dall’Illuminismo, differivano tra loro: il Codice Napoleonico del 1804 e quello austriaco del 1811. Incredibilmente, allora, il Code Napoleon appariva come un faro di modernità, mentre l’ABGB era visto come espressione politica della potenza nemica e perciò stesso criticato. Oggi questo giudizio così schematico è superato e mentre si riconosce nel sistema francese la presenza di retaggi passati si evidenziano in quello asburgico non pochi elementi riformisti. La posizione della donna nel codice francese, che pure per altri aspetti è da considerarsi moderno, visto il suo carattere spiccatamente laico, risente di un’impostazione verticistica della famiglia. L’intero potere decisionale era patrimonio dell’uomo che esercitava un’assoluta preminenza sulla moglie e sui figli. L’art. 212 equiparava formalmente i coniugi, ma già l’art. 213 stabiliva che il marito doveva protezione alla moglie e che la moglie doveva obbedienza al marito, assegnando così all’uomo una posizione di supremazia sulla donna. L’art. 214 imponeva alla moglie di abitare con il consorte e di seguirlo ovunque, l’art. 215 impediva alla moglie di stare in giudizio senza l’autorizzazione del marito e l’art. 217 richiedeva il consenso scritto del coniuge per donare, ipotecare, acquistare immobili a titolo oneroso o gratuito. Se il marito rifiutava di firmare tale atto, la moglie poteva rivolgersi al giudice che, sempre dopo avere consultato il capofamiglia, decideva se concedere o negare l’autorizzazione, e solo per le commercianti, in linea con la valorizzazione della classe dei mercanti nel codice napoleonico, era possibile concludere affari in modo autonomo (art. 220). La disparità di trattamento si rifletteva chiaramente anche nelle norme sull’adulterio che stabilivano sanzioni diverse per i due sessi, sia nel codice civile che nel codice penale. Ai genitori spettava la potestà genitoriale sui figli, ma al solo padre, in qualità di capofamiglia, era riconosciuto l’esercizio di tale potestà, con estesi poteri in materia correzionale e patrimoniale. Il padre amministrava e godeva i frutti di beni del figlio, mentre la madre era esclusa dalle decisioni e subentrava solo alla morte del coniuge come tutrice, ma anche in questo caso poteva essere sottoposta al controllo e al consenso di parenti della linea paterna o del consiglio di famiglia. 

Il sistema asburgico era molto più aperto, anche grazie all’intervento di alcuni giuristi. Quando giunse il momento di unificare legislativamente il Regno d’Italia molti si schierarono contro il sistema francese, ma invano. Il primo progetto del ministro Giovanni Battista Cassinis (19 giugno 1860), come quelli successivi, non faceva parola dell’autorizzazione maritale. Pisanelli sostenne che l’incapacità femminile era estranea alla tradizione italiana ed era priva di fondamento giuridico, frutto soltanto di un’ingiustificata sfiducia nei confronti delle donne. La discussione sul punto fu molto accesa. In favore dell’abolizione meritano di essere ricordate le parole di Pasquale Stanislao Mancini: «Confesso o signori, che arrossisco pensando alla ingiusta ricompensa, che con questo nuovo Codice italiano noi porteremmo alle generose madri e spose lombarde, che tanto premurosamente operarono, educando e incitando la gioventù a forti opere, pel trionfo della nazionale indipendenza, quasi costringendole a rimpiangere come più liberale la legislazione dello straniero dominatore». Ma il Senato rimase fermo nelle sue idee. Alla fine il codice nell’art. 134 sancì l’incapacità della moglie che non poteva «donare, alienare beni immobili, sottoporli a ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti senza l’autorizzazione del marito». Così la cittadinanza della moglie dipendeva dal marito (artt. 9 ss.), le donne erano escluse dalla testimonianza negli atti notarili e di pubblici ufficiali (artt. 268, 351, 788), dal ruolo di arbitro e procuratore, dagli uffici pubblici (artt. 10 e 156 c.p.c.) e dal voto, l’adulterio era perseguito in modo differente per i due coniugi, la potestà sui figli era esercitata dal padre (art. 220), la ricerca della paternità vietata (artt. 189, 190). Il più acceso difensore della parità delle donne fu l’avvocato mazziniano Salvatore Morelli, che, forte delle affermazioni di Stuart Mill e di Anna Maria Mozzoni, denunciò con forza la mentalità oscurantista del sistema, rea di relegare senza motivo in uno stato di umiliante schiavitù una larga parte dell’umanità. Estremamente interessanti la sua visione e i suoi progetti riportati dalla storica nel suo contributo, tra cui quello intitolato Per la reintegrazione giuridica della donna, nel quale si prevedeva, tra l’altro, la piena uguaglianza giuridica dei due sessi e il divorzio, la modifica della disciplina sul matrimonio in quanto attribuiva alla famiglia il nome di entrambi o di uno dei coniugi, parificava i diritti e doveri degli sposi, attribuiva ad ambedue la potestà, uniformava i figli naturali e legittimi assegnando loro il cognome materno, ammetteva la ricerca della paternità ed eliminava tutte le incapacità femminili presenti nel codice ammettendo le donne alle professioni e al voto amministrativo e politico. Progetti che furono considerati utopistici e respinti, fatti oggetto di satira sulla stampa. Il destino di Morelli fu quello di morire in solitudine e povertà, essendo peraltro riuscito a fare approvare nel 1875 l’ingresso delle studenti alle Università e nel 1877 l’eliminazione dell’incapacità a testimoniare delle donne, realizzando così l’unica riforma veramente importante fino alla prima guerra mondiale. 

1919

Si dovette attendere il 1919 per vedere finalmente abolita l’autorizzazione maritale, grazie alla legge che porta il nome dell’allora Guardasigilli Ettore Sacchi. Una maggiore consapevolezza era stata raggiunta anche grazie alla Grande guerra che comportò maggiori e nuove responsabilità lavorative e non solo per le donne. 
Maria Rosaria De Rosa analizza in «Pubblicamente e notoriamente» coniugi in affari e le risorse dell’autorizzazione maritale l’impatto dell’autorizzazione stessa sulle donne coniugate che esercitavano la mercatura a Napoli, in un approfondimento interessante che mette in luce la natura derogatoria e speciale del diritto commerciale rispetto al diritto civile, con conseguenze anche sulla posizione giuridica delle mercantesse. Silvia Bruzzi nel suo contributo Pluralismo giuridico e diritto di famiglia nella Libia coloniale italiana ci racconta, attraverso l’esame di molte sentenze, una verità inaspettata. La donna musulmana aveva capacità giuridica nella gestione del proprio patrimonio. Diversamente dalla donna italiana, che anche sul territorio libico sottostava al codice del 1865, i beni della suddita libica non erano sottoposti a controllo da parte del marito e “l’indigena” poteva sottoscrivere contratti e intraprendere commerci. 

Nella seconda parte, Il lavoro prima e dopo la legge Sacchi, Simonetta Soldani in Interpretare, circoscrivere stravolgere… Una legge progressista nel turbine della reazione riesce a darci un quadro del destino della legge che, intitolata Disposizioni sulla capacità giuridica della donna, finalmente nel 1919 abolì l’istituto assurdo dell’autorizzazione maritale e in soli 8 articoli cancellò molti divieti presenti nei Codici civile, di procedura civile e di Commercio. Pur mantenendo ancora alcune delle preclusioni precedenti, si trattava di una delle leggi più avanzate del continente europeo. L’articolo 7 era la chiave di volta della legge e affermava che le donne, maritate e non, erano ammesse «a pari titolo degli uomini, a esercitare tutte le professioni e a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto […] quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato», precisando però che tale esclusione avrebbe dovuto essere specificata con apposito regolamento e che nulla avrebbe impedito ulteriori aperture. Nel suo articolo Soldani descrive l’opera di stravolgimento, interpretazione restrittiva e circoscrizione di questa norma e la mancata armonizzazione della stessa con una serie di divieti che cozzavano con essa, come l’impossibilità di esercitare alcune professioni e ricoprire uffici pubblici in posizioni dirigenziali. La legge Sacchi fu accolta con grande entusiasmo dai movimenti femministi e fu vista come il preludio del diritto di voto alle donne, cosa che purtroppo non avvenne, anche perché il fascismo era alle porte e cominciò subito una campagna d’opinione tesa a far rientrare le donne nel regno domestico e a far liberare i posti di lavoro da loro occupati in tempo di guerra. 
Con l’avallo della giurisprudenza si passò dal diritto alla discrezionalità come criterio di applicazione della legge Sacchi, complici anche la crisi economica e le proteste dei reduci. Continuarono a essere banditi concorsi di insegnamento per le scuole medie preclusi alle donne, si lasciò grande discrezionalità alle Amministrazioni in tema di assunzioni e permanenza nei ruoli per il personale femminile, insomma si svuotò di significato la legge Sacchi, che fu definitivamente stravolta dal Regio Decreto n.228 del 5 settembre 1938, che precisava che le donne non potevano essere più del 10% del personale impiegatizio e stabiliva una serie di esclusioni per il lavoro femminile, rinviando a un regolamento che avrebbe dovuto enumerare le occupazioni più adatte alle donne, capovolgendo in tal modo la ratio della legge Sacchi.  

In Le postelegrafoniche dall’ammissione in ruolo alla grande crisi. Un’equiparazione senza carriera Laura Savelli descrive in modo approfondito la situazione di queste lavoratrici, «la cui vicenda storica […] è emblematica del rapporto tra donne e Stato, che in molti Paesi ha esercitato per lungo tempo il monopolio dei servizi di telecomunicazione». In questo campo le lavoratrici furono impiegate in molti Stati in grande numero, non solo per abbattere i costi. L’ingresso delle donne negli Uffici centrali dal 1873 provocò feroci campagne di stampa, cui l’allora Ministro dei Lavori pubblici Giuseppe Zanardelli ribattè affermando che nessun uomo sarebbe stato disposto ad accettare uno stipendio così basso «mentre le donne, anche le più distinte, non hanno altre carriere che loro permettano di percepire più di queste tre lire». Il licenziamento dopo il matrimonio fu dipinto dal Direttore generale dei telegrafi come lo strumento «per non distogliere le madri dall’adempimento di quei doveri che in loro devono sovrastare a qualsiasi altro, ed insieme per non incorrere nella maggiore spesa che ci avrebbe imposta la necessità a tutte le temporanee assenze dal servizio che lo stato coniugale avrebbe potuto cagionare». Le lavoratrici postelegrafoniche erano addette a mansioni importanti e di responsabilità e nel tempo furono le più sindacalizzate e combattive. L’articolo descrive le tappe della loro lotta e l’ostilità al lavoro femminile del regime fascista, con i provvedimenti susseguitisi alla crisi del ’29, ovunque, non solo in Italia, penalizzanti nei confronti delle donne. 

Liviana Gazzetta nel suo contributo Sulle orme di Elena. Docenti e studiose di filosofia del primo Novecento, descrive il difficile percorso, irto di ostacoli, che portò le donne all’insegnamento della filosofia nelle scuole superiori e nell’Università, attraverso le biografie di alcune donne, tra cui Emilia Santamaria Formiggini (1877-1971), prima docente di filosofia e Maria Sara Goretti (1907-2001), figura poliedrica ed eccentrica. La storica Gazzetta nel titolo del suo scritto omaggia la prima laureata in filosofia della storia, Elena Corner Piscopia e ricorda che la prima vincitrice di concorso nei licei fu Sara Treves, un’ebrea. Leggere questo contributo può servire a capire le ragioni della diffidenza e dell’ostilità nei confronti dell’insegnamento e della docenza delle donne in filosofia (e prima ancora nell’accesso agli studi classici delle donne), che ancora oggi persiste nella bassa percentuale di donne nei ruoli apicali della ricerca scientifica, come per le Stem e che ha fatto coniare l’efficace termine di fallo-logo-crazia, «per indicare il legame intrinseco tra la gerarchia sessuale delle società patriarcali e il ruolo che la filosofia vi ha esercitato», messo bene in luce anche da Anna Maria Mozzoni.  

Tecniche sapienti. Essere donna nella professione di ingegnere, di Claudia Belingardi e Claudia Mattogno è un contributo che riflette sull’opportunità data alle donne dalla legge Sacchi, simbolicamente approvata in Parlamento l’8 marzo anche se poi promulgata solo nel mese di luglio del 1919,di firmare progetti e assumere legalmente la titolarità e la responsabilità dei lavori per ingegnere e architette, ricordando la prima donna ammessa alla licenza di esercizio della professione di ingegnere, la bolognese Maria Bortolotti e mettendo in evidenza come poche delle donne laureate in ingegneria o architettura si dedicarono alla professione, preferendo occupazioni che potessero conciliare vita familiare e lavoro, come l’insegnamento, pur con lodevoli eccezioni. Il regime fascista, e Mussolini in primis, sconsigliava alle donne queste professioni e in particolare quella di architetta. Tra le tante donne ricordate meritano una menzione speciale Emma Strada, assistente straordinaria al Politecnico di Torino, che con imbarazzo i commissari dell’esame di laurea non sapevano se definire ingegnere o ingegneressa e Bice Crova, che ottenne la nomina a libera docente di Architettura tecnica (i suoi corsi saranno tutti opzionali e riguarderanno gli spazi verdi, la città giardino e l’urbanistica metropolitana con un’attenzione particolare all’igiene ambientale), ma si dedicò anche alla progettazione di case e vite migliori. Un racconto delle presenze femminili in ingegneria e architettura non è semplice perché ci si deve concentrare sul lavoro collettivo, sulle collaborazioni e sugli apporti delle e degli assistenti. Tre ricerche in questi anni si sono cimentate in quest’impresa, incontrando notevoli difficoltà a fare uscire dall’invisibilità molti talenti femminili. Intellettualità femminile e ordinamento corporativo: l’Associazione nazionale fascista artiste e laureate di Sara Collacchio racconta del tentativo fascista di reintrodurre l’autorizzazione maritale eliminata dalla «bolscevizzante» legge Sacchi, nel tentativo di riportare i principi di autorità e gerarchia tipici del regime fascista all’interno della famiglia. Le associazioni femminili delle professioniste si incaricarono di declinare il progetto di Mussolini in senso corporativo ma probabilmente servirono soltanto come strumenti della propaganda del regime. 

L’ultima parte del libro, Fuori d’Italia, oltre l’Italia contiene tre approfondimenti interessanti. Il primo, L’autorizzazione maritale e la sua abrogazione nel quadro europeo tra guerre e rivoluzioni (1919-1945) di Monica Fioravanzo, imputa i cambiamenti avvenuti nella condizione giuridica femminile nei diversi Stati ai rivolgimenti sociali, istituzionali e politici che si sono susseguiti alle guerre. L’eliminazione dell’autorizzazione maritale si deve quindi a molti elementi, tra cui le diverse culture politiche, i modelli sociali e familiari, le tradizioni religiose e giuridiche. Mary Gibson, nel suo contributo La sfida italiana alla Società delle Nazioni e l’abolizionismo internazionale, affronta il tema della normativa sulla lotta alla prostituzione e al traffico di bambini a livello internazionale. Tra le due guerre la Società delle Nazioni istituì la CTW (Traffic in Women and Children Committee), caratterizzata da una forte presenza femminile. Tale Commissione si proponeva di tutelare i diritti delle prostitute, di attuare una rete di cooperazione internazionale contro le organizzazioni criminali dedite all’organizzazione di questo traffico e di eliminare gradualmente le leggi che legalizzavano la prostituzione. Dopo uno sguardo all’atteggiamento dello Stato liberale in questo campo, Gibson si sofferma sulla politica fascista, che si rifiutò sempre di abolire la legalizzazione della prostituzione, pur rafforzando il controllo poliziesco sulle prostitute e sui trafficanti e diminuendo significativamente la presenza femminile nella Commissione. 

L’ultimo contributo si deve ad Alessandra Pescarolo. In Oltre la minorità giuridica: famiglia, lavoro e svolte culturali dal secondo Novecento ad oggi la storica suggerisce una lettura dei cambiamenti intervenuti dal secondo dopoguerra ad oggi, che potrà formare un utile punto di partenza per ulteriori studi in materia. 
Quest’importante opera collettiva apporta un contributo determinante agli studi di genere, che si spera sia tenuto nella giusta considerazione anche nei Manuali di storia delle nostre scuole. 
Il 4 ottobre p.v., alle 18.00, a Roma, presso la Casa internazionale delle donne (Via della Lungara, 19), nell’ambito di Feminism 4 – Fiera dell’editoria delle donne, la SIS e la casa editrice Viella presenteranno questo libro. Interverranno, con la curatrice, Marina D’Amelia e Laura Schettini. 
https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSfTWsv9qK2DsjtJY_VsmmIAcZfpkpfjWi3zyHTTaBjgpaA9tA/viewform

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Stefania Bortoloni
Cittadinanze incompiute
Viella, Roma, 2021
pp. 308

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Articolo di Sara Marsico

Ama definirsi un’escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la c maiuscola. Docente per passione da poco in pensione, è stata presidente dell’Osservatorio contro le mafie nel sud Milano e referente di Toponomastica femminile nella sua scuola. Scrive di donne, Costituzione e cammini.

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