Come già considerato nella prima e nella seconda parte di queste riflessioni, il percorso sulla giustizia femminista si è sviluppato in due realtà complesse e profondamente diverse, ma accomunate da situazioni sia di violenza sia di solidarietà e di costruzione di percorsi femminili e femministi: la Colombia e la ex-Jugoslavia.
Queste esperienze preziose hanno portato le Donne in Nero italiane a interrogarsi anche sul contesto italiano, sulle molteplici ingiustizie che le donne subiscono anche nella nostra realtà in un tempo apparentemente pacificato.

Come ricordiamo, dal 1991 al 2001, nei territori dell’ormai ex Jugoslavia ci sono stati vari conflitti armati, inquadrabili tra guerra civile e conflitti secessionisti – associati a forti interessi politici ed economici, locali e internazionali, leciti e illeciti, come il traffico di droga e di esseri umani attraverso i Balcani, e a un discutibile ruolo dell’Onu – che hanno coinvolto diversi territori appartenenti alla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia causandone la dissoluzione con la successiva formazione di Stati nazionalisti.
Nelle guerre jugoslave, secondo il Centro Internazionale per la Giustizia di Transazione (Ictj), morirono circa 140.000 persone e circa 4.000.000 diventarono rifugiate (2,4 milioni più altri 2 milioni di sfollati interni) su una popolazione totale di 23.724.919 nel 1991. Le ferite provocate da tali violenti scontri armati nel tessuto multietnico di quei territori sono state profonde e dolorose.
Al termine della guerra si è attivata la giustizia istituzionale che è stata innegabilmente importante ma non è soddisfacente. Il sistema istituzionale, infatti, molto spesso non è al servizio della giustizia, non solo per le donne, ma per tutte le persone non privilegiate, che non hanno nessun tipo di potere, i sommersi, i poveri. Il Tribunale con sede a L’Aia, fondato nel 1993, ha condannato solo 161 criminali per la guerra jugoslava. 161 persone sono davvero poche, tenendo conto che soltanto al genocidio di Srebrenica hanno partecipato più di 20.000 individui, quasi tutti di origine serba.
Comunque il Tribunale de L’Aia è essenziale perché – senza il suo lavoro – nessun criminale di guerra della ex Jugoslavia sarebbe stato condannato. Inoltre è molto importante dal punto di vista femminista perché per la prima volta nella storia a livello internazionale i crimini sessuali sono stati riconosciuti come crimini di guerra e contro l’umanità. Questo è estremamente significativo e non è dovuto solo al lavoro del Tribunale, ma soprattutto a una sinergia tra le attiviste femministe e le bosniache sopravvissute a questi crimini.
Le Donne in Nero sostengono, come femministe, come donne che hanno lavorato insieme, che la giustizia punitiva individuale non può soddisfare l’esigenza di giustizia, perché i principali responsabili sono gli Stati-nazione. C’è la necessità di prendere in considerazione nuovi tipi di impunità: come mai, per esempio, gli intellettuali che incitano e giustificano la guerra, oppure gli accademici sono al sicuro da ogni tipo di punizione? E i mass-media, le istituzioni religiose? Solo gli esecutori dei crimini sono perseguiti e processati.
In questi Stati nazionalisti non esistono leggi efficaci per proteggere i testimoni, sia donne che uomini, davanti ai tribunali nazionali. Specialmente le condizioni delle donne vittime di crimini sessuali sono difficili, sia all’interno dei singoli Stati che nelle loro comunità dove subiscono pressioni di ogni tipo, isolamento, incomprensione.
È importante sottolineare che nessun altro tribunale ha riunito le donne di sette Stati – Bosnia Erzegovina, Montenegro, Croazia, Kosovo, Macedonia, Serbia e Slovenia. Sono donne che hanno vissuto in contesti differenti, in condizioni completamente diverse: ad esempio la mobilitazione forzata dei loro familiari, un crimine contro la pace che finora nessun ente, nessuna istituzione internazionale punisce.

Nella sua relazione al convegno Staša Zajović mette in evidenza i vari importanti passaggi di questo percorso: «La nostra è una narrazione diversa della guerra, una narrazione alternativa. Abbiamo deciso di raccogliere esperienze condivise, senza mai tralasciare di creare lo spazio per riconoscere la dignità della sofferenza. È stato un lavoro molto serio e impegnativo, non facile, perché anche le donne sono state contaminate dall’ideologia nazionalista che minimizza i crimini commessi dalla propria parte e amplifica quelli degli altri. […] Abbiamo affrontato anche teoricamente il tema della giustizia. […] Abbiamo osservato un continuum di violenze, violenza strutturale, non solo di genere, violenza etnica, economica, politica, militarista. […] Abbiamo voluto rendere visibile la resistenza, individuale e collettiva, delle donne. Abbiamo imparato insieme. All’esperienza delle donne sopravvissute alla guerra e alla morte, abbiamo dato lo stesso valore che alle conoscenze delle docenti universitarie: le donne hanno acquisito grande dignità da questo processo di abolizione delle gerarchie tra diversi tipi di sapere. […] Un obiettivo importante, ma difficile da raggiungere, era quello di mettere insieme donne con esperienze diverse; per le donne serbe, per esempio, che hanno sofferto molto per la mobilitazione forzata dei loro familiari e hanno testimoniato su questo crimine, è stato difficile parlare davanti alle donne del Kosovo e di Srebrenica, perché pensavano che le loro sofferenze per i figli mandati alla guerra come carne da cannone non fossero comparabili alle sofferenze delle donne che in Bosnia e in Kosovo hanno perduto i figli, uccisi da militari e paramilitari serbi. Mettere insieme queste donne è stato il rischio più grande, come creare lo spazio in cui le loro sofferenze potessero essere dette. Analizzare la narrazione dominante della guerra è molto importante per comprendere come gli stati-nazione siano pericolosi per le donne e come il nazionalismo sia un’ideologia e una prassi devastante. Così abbiamo inventato circoli di discussione, training educativi, dibattiti femministi, seminari, performance di arte impegnata. Nei cinque anni del nostro percorso, in tutta la ex Jugoslavia, abbiamo organizzato 16 seminari regionali, training per le presentazioni pubbliche, 140 presentazioni in un centinaio di città, dalla Slovenia al Kosovo, circoli di dibattito femminista; è stato bellissimo; riflettere tutte insieme, testimoni, teoriche esperte, attiviste femministe, donne di base.
Abbiamo elaborato riflessioni sull’etica femminista della cura, sull’etica femminista della responsabilità, sul femminismo antimilitarista, sui modelli alternativi di giustizia, sul genocidio. Abbiamo dato alle stampe 60 pubblicazioni. Ci siamo dette: cosa ce ne importa degli stati, cosa significa stato della Serbia, stato della Croazia? […]. Etica femminista della cura nel nostro caso significa ad esempio prendersi cura dei serbi sfollati, provenienti dalla Croazia e dal Kosovo e questo è stato un ruolo politico ed emozionale, non soltanto tecnico: prendersi cura delle vittime dei crimini commessi da quelli della “nostra parte”. Etica femminista significa dire pubblicamente: io sono sleale verso questo stato, voglio trasgredire e rompere politicamente con lo stato-nazione, e voglio dirlo alle donne che sono vittime […]
Al Tribunale delle Donne di Sarajevo hanno testimoniato 36 donne di tutti gli stati nati dalla disgregazione della Jugoslavia. […] Le testimonianze riguardavano tante forme di violenza esercitate durante la guerra sulla popolazione civile: violenza etnica (persecuzione degli “altri”), violenza sessuale (il corpo delle donne come campo di battaglia), violenza militarista, in Serbia e in Macedonia, ma anche violenza dopo la guerra, un continuum di violenze, etniche ed economiche […].

Nel Tribunale di Sarajevo erano presenti anche dodici esperte – filosofe, antropologhe, storiche, sociologhe – che alla fine di ogni sessione illustravano, partendo dalle testimonianze, il contesto più ampio, etnico, politico, economico in cui queste si collocavano.
Un risultato storico l’abbiamo ottenuto nel contesto della schiavitù sessuale. Molte donne avevano paura di parlare, di rivivere il trauma subito, di restare isolate se parlavano; grazie al lavoro del Tribunale hanno deciso, dopo 25 anni, di parlare. Sapevano chi erano i responsabili dei crimini e li hanno trovati. […]
Uno dei frutti di questo lavoro è la Rete di Solidarietà delle Madri per la Pace.
La cosa più importante è che le testimoni siano diventate soggetti di giustizia; si riuniscono, si incontrano e hanno creato una comunità solidale, una rete che le sostiene. Sarebbe arrogante dire: a noi non interessa la giustizia istituzionale. Non si può disprezzarla […] Quel che dà alle testimoni la forza di continuare a impegnarsi per ottenere la giustizia che desiderano, ciò che a loro interessa di più, sono la fiducia, la riconciliazione, le riparazione simboliche. […] Ora cominceremo a lavorare con donne della Siria: sarebbe bene scambiarci pratiche, esperienze e riflessioni per dare loro forza, incoraggiarle a esigere giustizia anche davanti ai tribunali statali […]».

Nella conclusione della sua relazione Staša Zajović traccia in sintesi i nodi del percorso delle Donne in Nero: «L’impunità non è una fatalità, è una strategia applicata in modo consapevole dagli attori armati e dai perpetratori delle violenze.
È evidente l’importanza dell’elaborazione di narrazioni alternative alla narrazione dominante. In contesti di violenza estrema, di lacerazioni di tessuti sociali, di violenze sui corpi, sulle menti, sulle vite delle donne, può sembrare quasi un lusso poter parlare di elaborazione di narrazioni differenti. In realtà noi siamo storia, siamo portatrici di storia.
È necessario dare spazio alla riparazione simbolica, non limitandosi a ricordare le vittime e a esprimere empatia con loro, esigendo invece che i criminali rispondano dei loro reati anche se commessi da chi appartiene alla “nostra parte”.
È necessario creare lo spazio dove esprimere anche le differenze parlando con chiarezza, dignità, responsabilità, non facendo populismo femminista.
È necessario discutere anche come presentare i crimini sessuali, senza vendere la sofferenza delle donne come viene fatto da tanta propaganda che parla degli stupri in modo umiliante.
Strumenti importanti sono l’arte, il teatro, la poesia, la danza, la riforma del sistema educativo.
La giustizia femminista si basa sul fatto che la verità raccontata dalle donne può e deve portare non tanto e non solo a una giustizia punitiva ma a una giustizia riparatrice, che permetta cioè la riparazione e chiuda le brecce che separano storicamente le donne e gli uomini, quelle brecce che la guerra e la cultura maschile hanno posto tra loro.
La giustizia femminista, come dicono le donne indigene colombiane, sa “camminare la parola”, sa cioè tenere unite la parola e la vita, sa che è necessario darsi il tempo per compiere davvero il cammino insieme».
Per approfondimenti:
Donne in Nero e Centro per gli Studi delle Donne di Belgrado, Il Tribunale delle Donne. Un approccio femminista alla giustizia, Belgrado 2015, edizione italiana a cura delle Donne in Nero di Udine, Udine 2016.
Il tribunale delle donne: un approccio femminista alla giustizia: https://www.youtube.com/watch?v=-Dxox0t3Kts
https://www.unive.it/pag/fileadmin/ n. 28 07/2015 e https://www.unive.it/pag/31184/ n. 33 01/2017
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Articolo di Carla Manfrin

Dopo la laurea a Magistero, ho insegnato 36 anni in tutti gli ordini di scuola dove ho organizzato corsi di aggiornamento e laboratori per insegnanti su identità e differenza. A Padova, nel 1976, insieme alle compagne del Centro Femminista, ho scritto il libro di divulgazione femminista L’erba sotto l’asfalto; nel 2008 sono stata tra le organizzatrici di 1968 – 2008: Memoria e Desiderio delle Donne. Insieme a Flavia e Sandra Busatta nel 2012 ho costituito www.femminismo-ruggente.it