Carissime lettrici e carissimi lettori,
“armi, armi, armi”: una richiesta di morte. Comunque e sempre. Armi per uccidere. Contro un popolo, una terra da conquistare, una classe di ragazzine e ragazzini inermi che non sapevano (seppure si sapeva!) di stare in una guerra interna concessa dalla politica e dalle lobby.
Arma, armi: di offesa (ma dicono anche di difesa), armi bianche, armi da fuoco. Un sostantivo che al singolare, in italiano, rimanda al plurale neutro del latino. Arma che ritorna, sempre in italiano, come plurale maschile: armi.
Ci siamo abituate e abituati ad ascoltare questa parola ancora di più con la guerra scoppiata nel cuore del Vecchio continente Europa. La guerra dove si reclamano con forza, quella tra la Russia e l’Ucraina, tra Putin e e Zelenski, tra Putin e la Nato, tra un non troppo ben compreso valore differenziale fra un Oriente e un Occidente con le loro diverse visioni del mondo (soprattutto politiche?). Uno scontro, come un’eterna ripetizione, tra il bene e il male (risuonano in mente le parole del grande russo F. M. Dostoevskij!), probabilmente, tra interessi diversi, e soprattutto tra concetti dannosamente manichei di divisione netta del pianeta.
Gli Usa di Joe Biden non hanno ancora risolto l’enorme problema della liberalizzazione (!?) della vendita e dell’uso delle armi che insanguina da troppi anni l’America. Pressati dalla politica, dalla potente lobby delle armi (Nra) che proprio tra qualche giorno apre l’incontro annuale dei suoi membri e che conta la presenza anche dell’ex presidente americano Roland Trump. Intanto, dopo dieci giorni dalla sparatoria di Buffalo, in cui morirono ammazzate dieci persone sotto la furia di un diciottenne che si è qualificato come suprematista, la strage, le stragi continuano e entrano a scuola, in una classe delle elementari, ancora nel Texas. Muoiono in 21: due insegnanti e 19 tra ragazzine e ragazzini che già pensavano all’estate e ai giochi in libertà. Tutti di origine latino-americana, cosa che da subito ha allontanato l’ipotesi della matrice razzista.
Silenziosa la veglia che si è svolta nella cittadina di Uvalde per le ventuno vittime della scuola texana, la sera stessa, mercoledì scorso 25 maggio. Alla veglia di preghiera è arrivato anche il governatore Greg Abbott, mentre i giornalisti sono stati fatti uscire dalla polizia (sono poi stati fatti rientrare, ma con il divieto di fare interviste) con l’invito, applaudito da tutti i partecipanti, che non c’era nulla da vedere perché quella era una veglia di preghiera! Greg Abbott invece è rimasto. Non si è detta una parola sulla legge che il governatore aveva firmato un anno fa, la legge più estrema in tema di armi di tutti gli States, che permette a chiunque di girare armato/a e senza licenza, non avendo neppure nessuna idea sull’uso di ciò che si è acquistato.
E così un ragazzo, giovanissimo, e con tante difficoltà familiari, sociali e psicologiche, per il giorno del suo diciottesimo compleanno si è regalato due armi da fuoco che posterà sui social, che lo fanno sentire più forte e protetto, ma con le quali distruggerà, come è avvenuto nella Robb Elementary School, diciannove giovanissime vite, di solo una manciata di anni in meno del loro assassino, e quelle di due maestre. Tutto si è svolto, come sempre, in pochi minuti, nei metri quadri di un’aula di quarta elementare. L’ennesimo pluriomicidio in una scuola, il più disastroso dopo quello del 2012 di Sany Hook dove un ventenne uccise 26 persone tra cui venti tra bambini e bambine. Stragi che si sommano ad altre in altri luoghi pubblici. C’è chi parla di quasi 900 episodi! Certo c’è da far riflettere.
La guerra ci riporta alla dispiacente e, secondo me, inutile scelta di esclusione di partecipazione della cultura, dell’arte e anche dello sport in cui sono coinvolti cittadini e cittadine provenienti dalla Russia. È di qualche settimana fa la notizia della sospensione dalla giuria del Premio Strega, poi fortunatamente rientrata, di Evgenij Solonovič, scelto tra i sei italianisti che dopo pochi giorni dalla nomina e dall’invio da parte dell’Istituto di cultura italiano a Mosca (sulla splendida Arbat) dei link per i libri papabili al prestigioso Premio, erano stati diffidati dalla Farnesina. Solonovič a Mosca, tra i giurati dello Strega, è il più noto: noto per le sue poesie e per aver fatto conoscere ai russi Dante, Petrarca, Quasimodo, Montale, ma anche Camilleri, Francesco Piccolo e Gioachino Belli. Oggi il poeta e italianista russo ha 89 anni. In un’intervista, data a un quotidiano italiano, illuminante per tutta questa brutta storia delle sanzioni intellettuali, ha detto: «Che cosa c’entriamo noi intellettuali con questa situazione pazza in Ucraina? Che c’entra Dostoevskij?» – e ricordando l’avviso del loro allontanamento ha riletto le poche righe del messaggio: «Gentili giurati – legge a chi lo intervista – sono spiacente di comunicare che la partecipazione di Mosca, su indicazione del ministero degli Esteri italiano, è sospesa». «Sono rimasto molto male – ha commentato con disappunto Solonovič – Qualche giorno prima era stata cancellata dall’Istituto anche la presentazione dei sonetti di Gioachino Belli che ho appena curato per l’editore Novoe Izdatel’stvo… questo tipo di sanzioni culturali vanno a colpire la classe degli intellettuali, la più contraria a quanto sta accadendo. Né io, né i miei amici appoggiamo l’intervento. In tanti stanno espatriando, di nuovo l’esilio sta diventando una forma di protesta. Hanno lasciato la Russia personaggi famosi come il regista cinematografico e teatrale Kirill Serebrennikov e la cantante Alla Pugačëva. Sapendo dei miei rapporti con l’Italia, i miei amici mi dicono spesso: perché non te ne vai a stare lì?» L’italianista ha deciso di non andare via dalla Russia: «Non me ne sono andato ai tempi dell’Unione sovietica, non lo farò oggi – dice ancora e aggiunge amareggiato – Facebook è stato soppresso, si vuole fare in modo che le persone non leggano notizie scoprendo la verità. Il tema è tabù. Se qualcuno prova a protestare pubblicamente, finisce male».
Una realtà amara spiegata da una persona di alto valore culturale. Che non mette termine, però, alla voglia di defezioni. L’ultima è quella operata dal nostro Roberto Bolle che, durante il recente Salone del libro di Torino, si è detto favorevole all’esclusione della presenza russa nei teatri italiani e ha aggiunto, suscitando non poche polemiche: «Non inviterò al mio spettacolo ballerini russi, non hanno colpe ma è giusto dare un segnale politico. È difficile invitare degli artisti russi che non si sono dissociati dal regime, è difficile e non credo sia giusto invitarli in questo momento. Credo sia giusto avere una voce unica». Parole forti, che hanno suscitato polemiche anche apre (come quella di Steve La Chance), ma contraddicono lo stesso Bolle che qualche tempo fa aveva dichiarato: «Voglio dare dei segnali di bellezza e di unione di fronte al momento particolarmente difficile come quello che stiamo vivendo, di conflitti e contrasti tra Ucraina, Russia e il mondo intero». Radio Montecarlo aveva sottolineato il suo gesto e aveva lanciato con queste parole la performance dell’artista: «Roberto Bolle fa danzare ucraini e russi in una performance memorabile» e «Roberto Bolle danza per la pace».
Ora Bolle rifiuta ballerini e ballerine russe. Eppure la storia artistica del balletto russo è antica e travalica i confini delle posizioni politiche di quello Stato. I confini e le divisioni manichee un po’ vacillano se si pensa alla Russia anche nella sua funzione mediana tra il continente asiatico e il cuore di quello europeo. Con quella sua Finestra aperta sull’Europa come era stata nominata Pietrogrado (la città di Pietro I, suo fondatore nel 1703, con uno sguardo attento al continente), e diventata via via nominalmente San Pietroburgo, di nuovo Pietroburgo e quindi Leningrado (nel 1924, due giorni prima della morte di Lenin), poi confidenzialmente Piter per ritornare, oggi, San Pietroburgo, in onore del santo a cui è intitolata, insieme a san Paolo, la Fortezza creata per ordine di Pietro I dall’architetto italiano Trezzini sull’isola delle Lepri. Il grande slavista russo Ettore Lo Gatto, il maestro, a Roma, di A. M. Ripellino, prende in prestito il termine dall’Algarotti (Viaggio in Russia, 1823) e lo rende immortale, mentre Mosca rimane la Terza Roma, una definizione della città dopo la caduta di Costantinopoli.
Una bella notizia, e anche coraggiosa, visti i tempi di volontà di non uscire mai dal coro, viene dal Friuli Venezia Giulia. La FVG Orchestra ha deciso di non partecipare al Concorso Internazionale di violino Rodolfo Lipizer. Il motivo di questo ritiro è stata la decisione dell’Associazione Lipizer di escludere tre violiniste russe dalla prossima edizione del Concorso. «Ci dispiace molto interrompere la tradizione per cui era proprio la FVG Orchestra ad accompagnare i musicisti internazionali durante la competizione – ha commentato il presidente Paolo Petiziol – ma non possiamo non reagire in modo coeso e determinato ad una decisione che ci sembra del tutto ingiusta. La cultura è una delle poche armi che abbiamo – dice – per sanare ferite, per riavvicinare le persone e i popoli, creando coesione invece di divisioni e rancore».
Proprio per guardare alla cultura, per la bellezza di stampo dostoevskiano e con forza contro la violenza, ho scelto per oggi un poeta, Aleksandr Sergeevič Puškin, nato a Mosca il 6 giugno del 1799 (28 maggio nel calendario giuliano) e morto, da perfetto romantico, in duello, a soli 37 anni, a San Pietroburgo il 10 febbraio 1837, cento e ottantacinque anni fa. Puškin è considerato il padre della lingua letteraria russa. Sono a suo nome gli istituti di lingua russa nel mondo. Tutti e tutte in Russia sanno a memoria più di una sua composizione. Ha rappresentato, con N. N. Gogol’, F. M. Dostoevskij e tanti altri, le miserie e le grandezze di San Pietroburgo. Un’esperienza che si arricchì del suo soggiorno a Odessa, città che tanto purtroppo stiamo sentendo nominare nelle cronache di questa triste guerra, allora luogo molto importante anche per la presenza di numerosissimi intellettuali.
Ricordo quel meraviglioso istante
(Я помню чудное мгновение)
Ricordo quel meraviglioso istante:
tu mi apparisti avanti,
come visione passeggera,
come genio di pura bellezza.
Tra i languori di disperata tristezza,
tra le agitazioni di rumorosa vanità,
a lungo mi sonò la dolce voce
e sognai le care sembianze.
Passaron gli anni. Il soffio tumultuoso degli uragani
disperse i sogni primi,
ed io dimenticai la tua dolce voce,
le tue celesti sembianze.
Nel deserto, nel buio dell’esilio
piano si trascinarono i miei giorni
senza deità, senza ispirazione,
senza lacrime, senza vita, senza amore.
È giunto all’anima il risveglio:
ed ecco sei di nuovo apparsa,
come visione passeggera
come genio di pura bellezza.
E il cuore palpita in ebbrezza,
e son per lui risorte
e deità, ed ispirazione,
e vita, e lacrime e amore.
(Tutte le opere, a cura di Ettore Lo Gatto)
Buona lettura di pace a tutti e a tutte
Per gli articoli di questo numero partiamo da due titoli che si riferiscono alla guerra, che ci accompagna ormai da tre mesi e che affrontano temi cui i media, sdraiati sulla cronaca e impegnati nella descrizione di una specie di Risiko tutto al maschile non riservano lo spazio che meritano. In Stupri di guerra, ancora, l’autrice ci ricorda che «Da sempre i corpi delle donne sono campi di battaglia – non solo metaforici – di cui sono posta, ostaggi e vittime. In un’ancestrale sintassi di genere i corpi degli uomini diventano armi, i corpi delle donne confini simbolici dell’onore nazionale». Ne Il caso Putin. Parte Prima ci si chiede se questa sia la guerra di Putin o la guerra della Russia, attraverso l’esame di alcuni tra i più interessanti articoli, provenienti da culture diverse, della rivista Limes uscita in maggio. Ma lo stupro non è una prerogativa dell’uomo in guerra, è purtroppo il segno di una misoginia di fondo nelle nostre società. Ce ne parla l’articolo «Li denuncerò domani»: tributo a Franca Rame, nell’anniversario della morte della grande attrice e politica italiana, con spunti per un uso didattico del suo racconto sullo stupro, subito quando ancora questo era un reato contro la morale sessuale e non contro la persona. Un’altra grande ed indimenticabile attrice è ricordata in Omaggio a Romy Schneider per i quarant’anni dalla scomparsa. Ma l’anniversario più importante di questa settimana è quello del 2 giugno, data di nascita della Repubblica italiana, in cui per la prima volta le donne votarono per l’Assemblea Costituente, mentre solo pochi mesi prima era stato loro riconosciuto anche il diritto di essere elette. Ce ne parla l’articolo Senza rossetto.
Per Calendaria incontriamo Catharine Van Tussenbroek, medica olandese, prima donna ammessa alla Facoltà di Medicina di Utrecht, ginecologa pioniera di studi molto importanti. Per la Serie La donna nel Rinascimento leggeremo la Parte terza de La presenza femminile nelle arti e nelle scienze, mentre per Viaggiatrici del Grande Nord ci faremo guidare alla scoperta de La Svezia di Elisa Cappelli. La passeggiata meditativa di questa settimana attraversa una delle tante vie intitolate a suore, in Pavia. Via suor Luigia Grassi, o sull’invito al viaggio per combattere l’illanguidimento. In La realtà ri-creata. Clelia Mori. Il corpo che non tace leggeremo la prima di quattro conversazioni con artiste «accomunate dal fatto di aver rappresentato l’essere donne nel mondo e di aver fatto conoscere, con la loro arte – produzioni, attività, mostre – il loro sguardo sulla realtà». La Villa Reale di Marlia amata da Elisa Bonaparte riapre in tutto il suo splendore è il racconto di un luogo bellissimo, «impagabile connubio fra cultura, natura, arte», che ci farà venire la voglia di andarla a visitare.
Estratti di una storia soggettiva, di verità, straordinaria e suggestiva è molto di più di una recensione del libro Riconoscersi partigiane e partigiani. Costruzione di un’appartenenza: è il racconto di un progetto e un’esperienza straordinarie che l’autrice dell’articolo ha voluto divulgare. L’altra recensione di questa settimana riguarda il saggio Voci indigene e saperi sovversivi di Chiara Carbone, un libro che ci porta tra la saggezza delle donne Maori, per cui «Conoscere qualcosa significa considerarlo come parte di un tutto, un ordine cosmico globale, in cui le persone, le comunità e tutte le forme di vita animali, vegetali, minerali, sono in relazione tra loro». Chiudiamo con il racconto Il pane rom, in cui l’autrice, come sempre, mentre ce ne descrive i vari tipi, ha l’occasione di raccontarci «il popolo senza patria ma con una casa da poter liberamente abitare».
SM
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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.