Il 1993 fu un anno davvero eccezionale per la cinematografia; uscirono infatti dei film che hanno fatto epoca e che non si dimenticano, quelle pietre miliari entrate nei cuori e nelle menti di chi ama la settima arte.
Proviamo a tracciarne un sintetico elenco che risveglierà ricordi e commossa gratitudine per chi ideò, sceneggiò, diresse, interpretò quei gioielli che hanno arricchito la nostra cultura. Naturalmente ogni scelta è pur sempre arbitraria e risente fortemente dei gusti di chi la compila; quindi perdonerete le inevitabili omissioni.

Mi piace iniziare da un piccolo, grande film italiano: Jona che visse nella balena, probabilmente sfuggito al grande pubblico, pur trattandosi di un’opera preziosa, da presentare in primo luogo nelle classi e da discutere con la gioventù di oggi, accompagnando la visione con la lettura del libro Anni d’infanzia da cui è tratto, dell’olandese Jona Oberski. Roberto Faenza, con mano delicata e sensibilità straordinaria, seppe delineare il dramma della deportazione e del lager filtrandolo attraverso lo sguardo di un bambino, destinato a rinascere, proprio come Giona. Tre David di Donatello, Efebo d’oro, Ciak d’oro al montaggio, premio Unicef. Lo stesso anno uscì una pellicola grandiosa per la regia di Bernardo Bertolucci: Piccolo Buddha, produzione internazionale di notevole risonanza e ambientazioni di enorme suggestione, con Keanu Reeves nel ruolo di Siddhartha.
Il terzo italiano, di cui si sta tornando a parlare anche per il recente restauro e per il settantesimo compleanno del regista (nato il 19 agosto 1953), è Caro diario, girato dal più che promettente Nanni Moretti (reduce da La messa è finita e Palombella rossa), premiato a Cannes l’anno seguente e con molti successivi riconoscimenti. Film in tre episodi, è entrato nel nostro immaginario sia per le corse in Vespa del protagonista-narratore in una Roma deserta sia per alcune frasi che ormai ci appartengono.

Fra le pellicole americane di ambientazione storica vanno citate L’età dell’innocenza, che Martin Scorsese trasse dal romanzo del 1920 di Edith Wharton, premio Oscar per i raffinati costumi alla nostra Gabriella Pescucci, e Schindler’s list, realizzato da Steven Spielberg, al cui successo contribuì non poco il protagonista Liam Neeson. Ispirato a un libro di memorie, è la vera storia di un industriale tedesco che rischiò la propria vita per salvare oltre un migliaio di persone ebree, lavoratori e lavoratrici che inserì fra le maestranze della sua fabbrica. Ebbe ben 12 nomination e vinse sette Oscar, fra cui miglior film e migliore regia; fu girato quasi per intero in bianco e nero, quasi fosse un documentario dell’epoca, ma l’immagine della bambina con il cappotto rosso rimane indelebile nella nostra mente. L’anno precedente il regista aveva girato Jurassic Park, di genere ben diverso, dal romanzo fantascientifico di Crichton, fortissimo incasso al botteghino, con ben cinque sequel; uscì anch’esso nel 1993, dopo che Spielberg era stato interamente preso dal nuovo coinvolgente progetto.

Sono produzioni americane altri film di notevole importanza, sia per le intrinseche qualità sia come quadri sociali di un preciso periodo di fine XX secolo: il primo è certamente America oggi, girato da Robert Altman, Leone d’oro a Venezia, l’altro è Philadelphia. Il grande regista di Kansas City si servì di vari racconti dello scrittore Raymond Carver, impietoso osservatore della realtà, fino alla massima disperazione di persone senza ideali, senza prospettive, in una squallida Los Angeles sorvolata da inquietanti elicotteri che spargono antiparassitari e sconvolta da un terremoto. La pellicola di Jonathan Damme affronta invece con coraggio il dramma del momento: l’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione dell’Aids, ma pure lo stigma dell’omosessualità e dell’ipotetico contagio. Tom Hanks dovette dimagrire non poco per interpretare il giovane avvocato licenziato e discriminato, che solo in fin di vita riesce ad avere un briciolo di giustizia.

Anche Brian De Palma, in quel fatidico anno, realizzò uno dei suoi film più significativi, grazie alla straordinaria coppia Al Pacino-Sean Penn: Carlito’s way, vicenda di azione, di malavita, di violenza, con un tentativo finale di redenzione.
Un’altra redenzione, pur non andata a buon fine, si trova nel film di Clint Eastwood: Un mondo perfetto, in cui il regista ha la parte non secondaria del ranger, mentre Kevin Costner è il vero protagonista, un bandito e rapinatore con il cuore non così tanto indurito dagli eventi.
Un uomo a pezzi, un modesto impiegato dall’aria dimessa e con gli occhiali, in piena crisi familiare e lavorativa, è il ruolo di Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia (Falling down), senz’altro una delle sue migliori interpretazioni. Fuori di testa per le frustrazioni accumulate, nel bel mezzo di un ingorgo, si inoltra a piedi per la città seminando sangue.

Proseguiamo la veloce carrellata con due film “d’autore” che vorrebbero incutere paura, almeno dal titolo, ma in realtà sono decisamente divertenti: Nightmare before Christmas e Misterioso omicidio a Manhattan, scritto, diretto e interpretato da Woody Allen. Due piccoli classici, ognuno nel proprio genere e dallo stile spiccato: Allen qui torna al comico, nonostante la trama gialla, e si riunisce con la partner ideale Diane Keaton in una pellicola raffinata colma di omaggi e di citazioni cinefile. L’altro nasce dalla mente vulcanica di Tim Burton, ma lo realizza Henry Selick; la caratteristica principale consiste nell’essere un film d’animazione con al centro uno scheletro, nominato Re delle Zucche. La vicenda, ricca di personaggi inverosimili e spassosi come l’antagonista “sacco di juta”, è accompagnata da un commento musicale cantato, con un risultato davvero grottesco, a cavallo fra lo spirito di Halloween e quello del Natale.
Fra i film europei merita una segnalazione il primo della trilogia dedicata ai colori della bandiera francese e ispirata ai valori espressi dalla Rivoluzione: Film blu, sceneggiato e diretto dal polacco Krzysztof Kieslowski, premiato con il Leone d’oro e con numerosi riconoscimenti alla eccezionale prova di Juliette Binoche nel ruolo di Julie, moglie e madre duramente colpita da eventi tragici. Film complesso, intimo e malinconico, in cui prevalgono i toni azzurri, esamina il concetto di libertà, la possibilità di scelta dell’essere umano che può lasciarsi andare alla disperazione, oppure prendere in mano la propria esistenza, come accadrà alla protagonista che, in una scena emblematica, risparmia la vita a una nidiata di topolini e riacquista il controllo di sé.


Questa panoramica non può finire senza la perla più preziosa della già splendida collana; dobbiamo lasciare Europa e America e trasferirci agli antipodi, in Australia e Nuova Zelanda per ricordare degnamente Lezioni di piano (The Piano). Della pellicola si è occupata in più occasioni la nostra Paola Malacarne che ne ha sviscerato le tematiche e i risvolti psicologici in riferimento al “silenzio” ― reale o metaforico ― a cui troppo a lungo sono state costrette le donne nella storia, sia all’interno della famiglia sia nei rapporti sociali. Qui ne stiamo considerando soprattutto i meriti artistici che lo rendono un film perfetto, cosa rara davvero e spesso irripetibile, anche se la regista ha dato prova del suo talento in ogni opera realizzata: da Sweetie (1989) fino a Il potere del cane (2021). La neozelandese Jane Campion è stata la prima donna a ottenere, nella 46° edizione del Festival di Cannes, la Palma d’oro; l’anno dopo il film ebbe tre premi Oscar: per la migliore idea e sceneggiatura originale a Campion (altro primato femminile), la migliore attrice protagonista, alla meravigliosa Holly Hunter nel ruolo di Ada, e la migliore attrice non protagonista, ad Anna Paquin allora ragazzina, la figlia Flora. Numerosissimi altri riconoscimenti internazionali anche ai costumi, alla scenografia, al sonoro, alla fotografia, al montaggio, ecc. a dimostrazione del pregevole lavoro collettivo.

A dire la verità non furono da meno i due interpreti uomini, uno è il marito per procura (Sam Neill), burbero, impacciato e impreparato nell’accogliere una sposa muta che vorrebbe avere con sé il pianoforte che testardamente si è trascinata dalla Scozia fino in Nuova Zelanda. Siamo a metà Ottocento e l’ambiente intorno è selvaggio e incontaminato, la passione per la musica non viene compresa, tuttavia entra in scena il secondo uomo, George, in apparenza rozzo e affarista, un affascinante Harvey Keitel al meglio di sé, che stipula un ambiguo patto con la donna. Il film segue questo crescendo di sensualità con una finezza eccezionale, tratto distintivo dello sguardo attento di Campion, fino al violento accesso di gelosia del marito che priva Ada di un dito. La vicenda rischia di finire in tragedia perché, senza poter suonare, la donna si lascia quasi morire, ma il marito non è senza cuore e la lascia libera di andarsene e di scegliere il suo destino. La parte conclusiva è altrettanto necessaria e coinvolgente perché segna la rinascita di Ada accanto a un uomo che la ama e la rispetta, George, si sforza di imparare di nuovo a parlare e si esercita a suonare con un dito di metallo, mentre quel pianoforte tanto caro è finito in fondo al mare, dopo aver rischiato di portarla con sè nell’abisso legata con una fune. Ada ha scelto la vita. In una pellicola in cui la protagonista non parla e deve per forza mostrare una notevole espressività e utilizzare il linguaggio dei segni, la colonna sonora ha un ruolo fondamentale; è opera del musicista inglese Michael Nyman ed è stata inserita fra le 100 migliori di tutti i tempi. Impossibile non rimanere conquistate da una storia tanto sapientemente narrata, che si apprezza e si riscopre a ogni nuova visione. Così dovrebbe essere sempre il grande cinema.

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Articolo di Laura Candiani

Ex insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume Le Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.
