Al binario 1 della stazione di Nizza, da dove partivano i treni diretti ai campi di concentramento voluti dal regime nazista, si è svolta una cerimonia commemorativa domenica 16 luglio 2023, come ogni anno in tale data. Un momento di commozione e raccoglimento, fra corone di fiori, foto di bambine e bambini, oltre a persone adulte deportate, lumini accesi per ricordarle, testimonianze di poche/i superstiti ancora in vita, di parenti delle vittime, di rappresentanti di organizzazioni e organi istituzionali. In nome del governo francese è stato letto il messaggio di Patricia Mirallès, Segretaria di Stato presso il Ministero delle Forze armate, responsabile degli Affari dei veterani e della memoria. Mirallès in contemporanea era impegnata a Parigi nell’analoga cerimonia al Vél d’Hiv. Avendo chiesto copia del discorso, posso qui sintetizzarlo nelle parti fondamentali che più mi hanno colpita.

Il 16 e 17 luglio 1942, a Parigi e nei sobborghi, ebrei, donne, uomini e bambine/i vengono arrestati, rinchiusi, picchiati dallo Stato francese, per poi diventare vittime della deportazione nazista. È la retata del Vél d’Hiv, il Velodromo d’inverno. Importante riconoscere il male che è stato fatto, ma anche riconoscere il bene e coloro che lo hanno fatto: tutti i Giusti e le Giuste che, salvando una persona, a volte molte di più, hanno salvato l’Umanità.
Otto decenni dopo in Francia è ancora vivido il ricordo del rastrellamento del Velodromo d’inverno; è nostro dovere tornarci ogni anno. Anzitutto per prendere la misura dell’orrore della Shoah e del collaborazionismo francese. Per prendere atto, inoltre, del fallimento del progetto nazista – lo sterminio della popolazione ebrea d’Europa – e di quello dello Stato francese di allora, cioè la distruzione dei nostri valori repubblicani. La lotta contro l’ideologia che ha sostenuto questi crimini o li ha voluti nascondere non è mai finita.
Quando la mattina del 16 luglio 1942 iniziò il rastrellamento del Vél d’Hiv, erano passati più di due anni da quando Philippe Pétain aveva preso il potere in Francia in seguito alla “strana sconfitta” del giugno 1940 di fronte all’aggressione tedesca. Forse soprattutto una sconfitta dello spirito e della volontà di combattere, la seduzione di una rivoluzione nazionale che il dominio nazista avrebbe consentito. Bisogna riconoscerlo: lo Stato francese fu uno zelante collaboratore della politica antisemita voluta dall’occupante. Un collaboratore determinante e determinato. La collaborazione era un’opportunità per esprimere un antisemitismo storico che ha attraversato una parte delle forze politiche a cominciare dall’affare Dreyfus.
Dal 18 ottobre 1940, per volontà del Capo di Stato francese, l’antisemitismo si diffuse in tutta la Francia, fin nei territori d’oltremare. Così, anche se in Algeria non c’era occupazione nazista, ebree ed ebrei vi furono colpiti come nella Francia continentale. Si espellono gli israeliti francesi dal servizio civile e da molte altre professioni. Si limitano le loro libertà fondamentali e li si spoglia dei loro beni. Il regime di Pétain, cedendo alla “follia criminale dell’occupante” per usare la formula del presidente Chirac, strappa bambine e bambini dalle scuole per poi strappare alla nostra Nazione coloro che vi risiedevano e che in alcuni casi qui avevano trovato rifugio. Per questo, quando alla fine della primavera 1942 a Wannsee i nazisti decisero la Soluzione Finale e si dovettero consegnare alle forze di occupazione ebree ed ebrei da deportare, su istanza di Pierre Laval il governo francese organizzò e mobilitò tutta la sua amministrazione repressiva.
Nella prima mattinata del 16 luglio si bussa alle porte delle case precedentemente identificate in un “fascicolo ebraico”. In due giorni 12.884 uomini, donne e bambine/i sono arrestati da più di 4.500 poliziotti. I single e le coppie senza figli vengono inviate al campo di Drancy. Le famiglie sono confinate all’interno del Vélodrome d’Hiver. Per diversi giorni vi rimangono stipate 8.160 persone in condizioni invivibili. In una sola estate sono deportate 33.000 cittadine/i ebrei. Oltre 70 convogli partono dalla Francia verso i lager, principalmente Auschwitz, ma anche Sobibor, Majdanek, Kaunas. Al momento della Liberazione si contano 2566 superstiti.
Fin dalle prime persecuzioni donne e uomini si alzano per dire no, per rifiutare. Il giorno stesso della retata del Vél d’Hiv il capitano Pierret, Giusto tra le Nazioni, e i vigili del fuoco di Parigi offrono da bere alle vittime. Mentre il rastrellamento è in corso il commissario Gérard Persillon, Giusto tra le Nazioni, fornisce una carta d’identità falsa a Perla Hauszwalb, che a differenza dei genitori riesce così a sfuggire, nascondendosi grazie al suo nullaosta nel collegio di Limoux come pensionante. Lo scandalo morale del Vél d’Hiv segna tutto il Paese e si levano voci che sono quelle dell’umanità universale. Il 23 agosto 1942 l’arcivescovo di Tolosa, Jules Saliège, ricorda che “c’è una morale umana che impone doveri e riconosce diritti. Questi doveri e questi diritti attengono alla natura dell’umanità”.

In quel momento è in gioco il cardine della democrazia, fondata sullo stato di diritto, sul riconoscimento e sulla difesa concreta delle libertà più basilari della nostra Nazione, nonostante la sconfitta, nonostante l’occupazione, nonostante il regime di Vichy. Questa alta consapevolezza di ciò che doveva rimanere viva nella nostra Nazione è quella che ispira anche altri Giusti e Giuste, come Camille Ernst, segretario generale della prefettura dell’Hérault, che nel 1941 mise in sicurezza decine di famiglie ebree, e Marthe Cohn, ebrea francese che nei tremendi anni della Shoah riuscì a penetrare nelle maglie dell’esercito nazista, cambiando identità e diventando una spia di nome Martha Ulrich: uno stratagemma geniale ma ad altissimo rischio. Per il suo valore umano e militare venne premiata nel 2005 con il prestigioso titolo di Cavaliere della Legion d’Onore.
Di fronte al male dell’antisemitismo, che non deve mai prosperare nell’impunità o nella passività, è necessaria una mobilitazione collettiva. Il mirabile esempio della lotta delle/dei sopravvissuti, delle associazioni e delle istituzioni rappresentative ci mostra come l’opposizione ai delitti contro l‘umanità passi anche attraverso il lavoro sulla Storia, attraverso lo sforzo per tramandare la memoria. Questo ci ricorda l’urgenza di ascoltare le ultime e gli ultimi testimoni ed è l’occasione per riaffermare l’importanza dello studio, della conoscenza storica e, in definitiva, della Scuola, che è la forza di ogni nuova generazione, la forza delle e dei nostri giovani di fronte all’antisemitismo e a tutte le forme di razzismo e di xenofobia.

Durante la cerimonia ha poi parlato Catherine Couton-Mazet, nipote di Georges Mazet, medico, che interrogato su ciò che aveva fatto durante la guerra e in particolare nella Resistenza, rispondeva con un gesto della mano: «Tesoro, ho solo fatto il mio dovere». Il nonno aveva scelto di tacere, ma Catherine vuole rompere il suo silenzio, spinta dalle numerose testimonianze di coloro che ha nascosto, aiutato, curato e salvato a rischio della propria vita e di quella della famiglia, che l’ha sempre sostenuto nel suo impegno. Arrivata la guerra, il nonno viene mobilitato nel 1939 come tenente medico e smobilitato come capitano nel 1940. È un forte shock per lui, così orgoglioso, con una idea così grande della Francia, vederla umiliata in quel modo.
L’unica cosa che Georges Mazet raccontava di questo periodo tragico è che aveva potuto ascoltare alla radio la chiamata del generale de Gaulle. Lui, la nonna e la figlia, che sarebbe poi diventata madre di Catherine, piene di speranza erano scese in strada ma, ahimè, si erano ritrovate sole. Suo nonno apparteneva alla rete “Democrazia” ed era anche il medico del gruppo di combattimento Pasteur: pochi ospedalieri all’epoca avevano scelto di diventare partigiani. Alla liberazione di Nizza, nell’agosto del ’44, ebbe un alto riconoscimento in quanto medico nella Resistenza. In continuo contatto con il servizio sociale e sfidando costantemente i peggiori pericoli organizza, in particolare a casa propria e nei suoi ambiti ufficiali presso l’ospedale Pasteur, l’assistenza in tutte le forme a patriote/i e alle loro famiglie e riesce a sottrarre molte/i ebrei ricercati. Raccoglieva informazioni per avvertire coloro che stavano per essere arrestati, per farli spostare, per nasconderli altrove.

Molte sono le testimonianze di coloro che furono così salvati. Catherine ne legge una. «Il 24 agosto 1942, il rastrellamento iniziò alle 6 del mattino; mia madre era a casa con la nonna, la quale non sapeva una parola di francese e stava sempre chiusa dentro. La mamma ebbe appena il tempo di sussurrarle: “Lava i piatti e non dire niente”. Vedendola, i miliziani chiesero: “Chi è questa donna?”. Senza scomporsi la mamma rispose: “È la domestica italiana, non parla francese”. La mamma fu poi portata in caserma e interrogata per tutto il pomeriggio. Nel settembre 1943 la Gestapo arrivò a Nizza intenzionata a deportare tutti i 25.000 profughi ebrei dalla regione. I miei genitori si rifugiarono nella città vecchia, ma furono denunciati… Non sapendo dove nascondersi, contattarono il loro medico, il dottor Mazet, che in seguito ci ospitò per molte settimane. A due passi da casa sua c’era la milizia. Con l’aiuto di monsignor Rémond, vescovo di Nizza, il dottor Mazet aveva organizzato un’intera rete per proteggere i bambini ebrei, cui venivano dati nomi e certificati di battesimo falsi. Il dottor Mazet ci fece accogliere nel convento delle Clarisse di Cimiez. Da quel momento mi chiamai Janine Rondet e mio fratello Raphael Rondet. Risultavamo essere i figli di un medico marsigliese – in realtà ucciso sotto i bombardamenti con tutta la famiglia. Mi ripetevano di continuo, “Ti chiami Janine Rondet. Non sbagliarti, altrimenti morirai”. Non avevo ancora 7 anni e non sapevo cosa fosse la morte, ma capivo che era importante».
Altri aneddoti più leggeri vengono raccontati da Catherine: «Henri Moch e sua moglie Corinne erano fuggiti da Parigi, dove quest’ultima aveva un celebre laboratorio di modisteria in rue Marbeuf che lavorava con i grandi stilisti dell’epoca, in avenue Montaigne. Giunti a Nizza vengono nascosti nell’armadio di un appartamento con l’aiuto di mio nonno… ma ecco che Corinne si ritrova incinta… situazione pessima in quei frangenti… il nonno viene chiamato per aiutarla a partorire… nasce una bimba e lui lo comunica all’amico Henri, dicendogli “Ti lascio perché si annuncia un altro bebè”. infatti ecco arrivare una seconda bambina: immaginate lo stupore, l’angoscia mista a gioia di Henri Moch e lo sguardo scherzoso ma preoccupato di Georges Mazet». E poi «Mia madre, 15 anni, pedala verso il monastero delle Clarisse portando in sella un piccolo biondo Gérard Meyrargue, nipote dell’amico Albert, che sarà poi nascosto nell’entroterra a Saint Dalmas de Tende; suo cugino Claude rimarrà nascosto a lungo dai miei nonni e sua cugina Sylvie è qui presente a dimostrare la loro gratitudine».
Per concludere, cita il filosofo René Rémond: «Capire il proprio tempo è impossibile per chi non sa nulla del passato: essere contemporaneo è anche essere consapevole delle eredità, accettate o persino contestate».
Tra i numerosi discorsi del 16 luglio 2023 ho scelto queste due voci di donna, per affinità con i sentimenti che mi avevano suscitato due occasioni precedenti: il 22 dicembre 2019 avevo visitato il Camp de Drancy e il 20 agosto 2020 ero andata al Camp des Milles con il rimpianto Giovanni Rubino, l’artista che eseguiva frottage delle lapidi e targhe commemorative delle vittime della Shoah e della Resistenza. Lascio parlare le immagini, concludendo che finché perpetueremo la memoria, visitando luoghi ed eventi del ricordo, rimarrà viva la volontà di non ripetere le tragedie del passato. Parafrasando Antonio Gramsci, la Storia è maestra e ci lascia un monito di natura morale: «Chi non conosce la Storia è condannato a ripeterla», per questo noi dobbiamo essere buone allieve e allievi e seguire i suoi insegnamenti.
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Articolo di Nadia Boaretto

Nadia Boaretto, residente fra Milano e Nizza (Francia). Laureata in lingue e letterature straniere all’Università Bocconi. Ex insegnante di inglese, traduttrice, attiva partecipante a testi del teatro di figura, nella fattispecie di una importante compagnia marionettistica. Femminista, socia fondatrice della Casa delle Donne di Milano. È attualmente attiva nel movimento a tutela dell’acqua pubblica, contro la privatizzazione.
