Ripensare la disabilità dopo il Covid 19

Uno degli aspetti che più hanno colpito l’opinione pubblica allo scoppio della pandemia da Covid 19 sono stati gli effetti devastanti che la malattia lascia dopo il suo decorso: long-covid è il nome di una condizione che prevede, tra i tanti sintomi, stanchezza cronica, affanno, problemi di concentrazione, stati dell’umore alterati, annebbiamento mentale; nei casi più gravi perdita temporanea o permanente del gusto e dell’olfatto, dolore cronico, acufene, danni alle coronarie e al sistema respiratorio quando la malattia si manifesta sintomatica. Questa condizione può durare mesi, per non poche persone dura dall’inizio della pandemia, quando hanno contratto il virus nel 2020. Al momento non c’è una terapia: si può solo aspettare che anche il long-covid faccia il suo decorso e sperare che non lasci tracce indelebili nell’organismo.

Per quanto ancora in molti e molte li neghino o li sminuiscano, gli effetti devastanti che il Covid-19 ha avuto su milioni di persone non possono permettere di classificarlo come una banale influenza: è stata ed è tuttora una malattia grave, che ha causato e continua a causare una disabilità temporanea o permanente nelle sue vittime. L’uso del termine “disabilità” non è una esagerazione: nel 2021 la rivista Nature ha descritto un quadro desolante in Gran Bretagna, dove 1 paziente su 5 affetto/a da Covid è uscito/a dalla malattia disabile, mentre negli Stati Uniti 1 su 10 dei/lle pazienti non ricoverati/e non ha recuperato la salute dopo più di 12 settimane. A ciò si aggiungono le conseguenze che il lockdown e la difficoltà di accesso agli ospedali hanno avuto sulle persone che disabili lo erano già da prima: la Commissione Europea per i Diritti umani ha dichiarato che, nonostante i buoni propositi, i governi europei hanno sostanzialmente fallito nell’includere nelle loro strategie la sicurezza delle persone disabili sebbene le dichiarazioni manifestassero su questo aspetto la loro priorità. E ciò nonostante le misure del lockdown siano state adottate proprio per salvaguardare le porzioni di popolazione più fragili.

Non solo le misure adottate per difendere chi dicevamo voler difendere si sono rivelate inutili e dannose, ma la smania di tornare “alla normalità” ci sta portando a ignorare che il Covid è ancora presente tra di noi, e i danni che causa all’organismo non solo non sono temporanei ma è probabile avranno conseguenze di lungo periodo man mano che la popolazione invecchierà e che le persone più fragili rimarranno in pericolo. Eppure, molti individui mostrano insofferenza all’idea di mantenere alcune semplici accortezze, gesti che hanno compiuto fino a poco tempo fa come mettere la mascherina sui mezzi pubblici o lavarsi frequentemente le mani, negano che i dati sul long-covid siano reali o abbiano una qualche rilevanza; se poi sviluppano problemi di salute legati alle continue reinfezioni da Covid, preferiscono incolpare il vaccino.

Che cosa sta succedendo? Come sta cambiando la percezione personale e sociale della disabilità alla luce del radicale cambiamento che è stata la pandemia? E perché molti e molte fanno fatica ad accettarlo? Quando pensiamo alla disabilità in genere ciò che immaginiamo è una persona in sedia a rotelle o paralizzata in un letto, oppure affetta da problemi cognitivi che le impediscono di comunicare efficacemente con il prossimo. Tuttavia, la definizione di questa parola è più ampia: è qualunque condizione che causi una ridotta capacità di interazione con l’ambiente sociale e che pertanto non permette di essere autonomi/e nello svolgimento delle attività quotidiane. Spesso le disabilità sono invisibili: una persona può apparire sana senza che nulla faccia intuire che soffra di condizioni come fibromialgia, diabete, epilessia, o malattie mentali; può svolgere normalmente la maggior parte delle attività quotidiane ma deve regolare la sua giornata in base alla propria malattia o condizione, dovendo ricorrere a degli accomodamenti anche quando all’apparenza sembra non “meritarseli” – sulla questione della disabilità e merito tornerò in seguito.

La disabilità si accompagna spesso a una particolare vulnerabilità per le malattie: nel caso del Covid 19 una persona disabile ha più alte probabilità di perdere la vita di un individuo completamente sano per difficoltà di accesso a cure e riabilitazione, sistema immunitario fragile e incapace di reagire e, fattore di non poco conto, la tendenza sociale a pensare alla vita dei/lle disabili come “non abbastanza importante”, “sacrificabile”. L’attivista disabile afroamericana Imani Barbarin lo ha reso ben chiaro in questi anni: #MyDisabilityLifeIsWorthy è l’hashtag che ha lanciato sui suoi social Twitter e Tik Tok in risposta alle parole della direttrice del Centro per il Controllo delle Malattie infettive (Cdc) statunitense Rochelle Walensky la quale affermò in un intervento del novembre del 2021 che le morti da Covid non dovevano destare preoccupazione perché la maggior parte di quelle persone era “già malata”. Barbarin ha accusato apertamente scienziati, media e pubblico di star sminuendo le morti dei più fragili perché disabili, un atteggiamento che non esita ad accostare all’eugenetica; afferma che è inutile agognare un “ritorno alla normalità” quando i sistemi sanitari del mondo sono arrivati al collasso a causa dei ricoveri, e moltissime persone disabili non possono più ricevere le cure necessarie a meno che non mettano a rischio la propria vita a causa della sconsideratezza di quelle “sane”; denuncia inoltre che la politica si è dimostrata quasi sollevata, soprattutto nei Paesi con un sistema sanitario nazionale particolarmente articolato, all’idea di dover investire meno soldi pubblici negli assegni di sostegno e nelle pensioni perché parte dei riceventi sarebbe morta.

Iman Barbarin, attivista per i diritti per le persone disabili

La prova del tempo pare dare ragione alla visione pessimistica di Barbarin: la Commissione Europea ha ammesso un sostanziale fallimento nell’includere le persone disabili nelle strategie anti-Covid 19 nella maggior parte dei Paesi europei già nel 2021. In India più che la malattia in sé è stato il radicale cambiamento nello stile di vita a creare problemi: molte persone disabili hanno avuto un significativo peggioramento della qualità di vita a causa della perdita del lavoro, trovando difficile reperire beni di prima necessità o ricevere assistenza; numerose hanno denunciato l’atteggiamento generalmente sciatto e incurante dei familiari, che arrivavano anche a rifiutarsi di lavarsi le mani solo per partito preso; i continui ricoveri hanno causato scarsità di ambulanze, che ha impedito a chi affetto da problemi di mobilità di recarsi in ospedale per le cure di routine; il lockdown ha acuito l’isolamento in cui parecchi individui disabili, specie i più giovani, sono costretti a vivere a causa di un’edilizia avversa e di un generale disinteresse da parte delle istituzioni; l’isolamento ha inoltre contribuito al soffocamento delle voci di attivisti e attiviste, che hanno avuto più difficoltà a interagire con la politica e sono stati spesso soggetti/e di attacchi da parte dei sostenitori delle teorie del complotto. Condizioni purtroppo assai comuni in tutto il mondo.

Secondo l’Onu all’incirca il 15% della popolazione mondiale – circa 1 miliardo – vive con una o più disabilità, condizione che comporta considerevoli svantaggi a livello educativo e lavorativo anche in contesti di tutela. Sono queste persone che correvano e tuttora corrono i rischi maggiori se esposte a infezioni da Covid 19. Il long-covid sta aumentando le fila di questa porzione di popolazione, anche se ancora si fa fatica a pensarlo come a una condizione debilitante: Barbarin sul suo blog commenta come il desiderio quasi disperato di “ritorno alla normalità” stia mettendo in pericolo non solo le persone disabili, ma anche quelle che continuando a reinfettarsi stanno danneggiando il loro corpo: «Since the beginning of the pandemic, nondisabled people have experienced but a sliver of what disabled people deal with over our lifetimes, institutional failure, feeling disposable, and isolated. Only a few weeks in, they were screaming to have their “freedom” back, debating which lives were worthy or not so they could get back to brunch and, caring more about the life of the economy than the person beside them. […] “Normal” was a lie meant to pacify us and discourage challenging a society built around racism, ableism and white supremacy. Because of these systems, disabled people and communities of color have been devastated all while simultaneously experiencing systemic racism and police violence. And you want normal?». Per Barbarin “tornare alle vecchie abitudini” vuol dire accettare una situazione che vede in netto svantaggio non solo le persone disabili ma anche quelle affette da razzismo e violenza di genere, senza alcuna reale riflessione su queste dinamiche, e significa ignorare tutti quei problemi che hanno reso il Covid un’emergenza come la difficoltà ad accedere a cure, specie in Paesi senza sanità statale. In Europa sono 2.2 milioni le persone diventate disabili a seguito dell’infezione da Covid 19 e, visti i danni all’apparato cardiaco che esso può causare, è molto probabile che negli anni a venire questo numero aumenterà. È quindi importante ripensare la disabilità e le nostre abitudini relative ad essa, in vista sia di un futuro in cui le conseguenze del Covid continueranno a manifestarsi, sia in previsione di altre pandemie.

Nonostante il desiderio di “tornare alla normalità” continui a essere manifestato e reso bandiera politica di fazioni progressiste e conservatrici, è inevitabile che alcuni degli adattamenti che abbiamo acquisito siano rimasti, dall’uso di mascherine in posti affollati anche ora che l’emergenza è rientrata a una maggiore attenzione all’igiene, dalla necessità di rimanere a casa quando si è ammalati per potersi riprendere alla diffusione dello smartworking. Questi cambiamenti hanno coinvolto anche il mondo delle disabilità: l’emergenza ha reso le mascherine più accessibili e normalizzato il loro uso, rendendo meno gravoso per le persone affette da malattie autoimmuni il loro utilizzo; contemporaneamente si è reso necessario trovare una soluzione per le persone sorde o con problemi di udito, che a causa delle mascherine non potevano leggere le labbra del loro interlocutore; la transizione al lavoro e alle lezioni online ha aperto nuove strade a persone che per motivi di salute devono rimanere in casa. Internet è stato fondamentale per impedire il totale isolamento di parecchi individui e per aver permesso l’avvio di una riflessione sul significato di disabilità, specie quando molti lo sono diventati dopo la degenza per Covid, permettendo di trovare una comunità attiva e pronta a dare informazioni e conforto, aiutandoli ad accettare la loro nuova condizione e anche a trovare delle soluzioni.

Questi spiragli di luce in uno scenario desolante devono vedersela con una questione che al momento, a mio parere, rimane latente, e che difficilmente troverà una risposta nel breve periodo: come vivere in una società dove una significativa porzione di essa era ben disposta a sacrificare la vita di disabili e anziane/i se questo voleva dire “tornare alle vecchie abitudini”? Come reintegrare gli elementi più fragili quando la politica ha fatto ben poco per includerli prima, e sta facendo ancora meno adesso quando il loro contributo è più che mai fondamentale per imparare dalla pandemia in vista delle successive? Amanda A. Arcieri fa notare che la necessità di scegliere a quali pazienti dare ossigeno durante il periodo più duro della pandemia, scelta che finiva per favorire giovani e precedentemente in salute, ha influenzato parte della popolazione portandola a ritenere “sacrificabili” anziane/i e disabili. Questa tendenza è riconducibile, per Arcieri, alla cosiddetta Terror managment theory, che descrive lo stato di ansia che scaturisce dal conflitto tra l’inevitabilità della morte e l’istinto di autoconservazione. Questa ansia muta facilmente nella paura della morte, di un destino inevitabile a cui nessuno può sfuggire e che nessuno sa quando possa sopraggiungere; per poter gestire questo stato l’umanità ha usato escapismo misto a credenze culturali per poter rendere più significativo il mero destino biologico. Fuggire dalla morte è un modo per distrarsi dalla futilità di questa fuga, e la paura che genera è una potente arma di manipolazione e motivazionale, specie nella società odierna, che sta in ogni modo cercando di allontanare il pensiero dalla propria fine: ci appare lontana, vista solo attraverso gli schermi della televisione o del computer e che tuttavia a volte, come nei casi di una malattia infettiva che colpisce indiscriminatamente, ci schiaffa in faccia l’inevitabile.

La disabilità è, in questa prospettiva, un costante promemoria: non importa quante medicine prendiamo, quante operazioni estetiche facciamo per sembrare più giovani, quanto sport e quanto mangiamo bene, la morte può sopraggiungere in qualunque momento, e basta “una banale influenza” per distruggere in pochi giorni un corpo sano. Il nostro personale bias cognitivo del mondo giusto ci fa credere che, in fondo, una persona disabile abbia fatto qualcosa per meritarsi la sua condizione, e quando sopraggiunge un evento che ci dimostra la nostra debolezza ci sentiamo sperduti. Il senso di spaesamento e paura della morte guida il nostro attuale, disperato bisogno di “ritorno alla normalità”, portandoci a lasciare indietro i membri più fragili della nostra società e a fare orecchie da mercante verso le loro richieste di partecipazione e maggiore attenzione. “Tornare alle vecchie abitudini” pare più un motto politico che una reale possibilità: il mondo è cambiato dopo la pandemia da Covid 19, e la nostra ostinazione a non voler accettare questa verità, rifugiandoci dietro teorie del complotto o negazione della realtà, ci sta mettendo in una posizione rischiosa per il futuro, specie con la recente rinascita di partiti che si identificano con i valori e le idee di chi nel secolo scorso affermava la necessità dell’eugenetica.

Mai come oggi è necessario ascoltare le persone discriminate, innalzare le loro voci e contestualizzarle nel loro campo. Solo così si potranno attuare politiche di successo.

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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.

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