Economia di guerra nell’area dell’Asia Pacifico. Parte seconda

Continuiamo a commentare il saggio del Gruppo di Insegnanti di Geografia Autorganizzati, per aumentare la consapevolezza sui fiumi di denaro che si celano dietro le spese militari, aumentate esponenzialmente in questi ultimi anni. Partiamo da Taiwan, che, dopo la visita della Speaker Nancy Pelosi nell’agosto 2022, è diventata l’oggetto del contendere tra Usa e Cina. Anche Taiwan si è riarmata, con pesanti revisioni al rialzo del budget e un forte stanziamento per l’acquisto di nuovi caccia. Le spese militari sono destinate a pesare fortemente sulle casse dello Stato, arrivando ad assorbire presumibilmente il 14,6% del bilancio del 2023.
Oltre al Quad, di cui abbiamo scritto nel precedente approfondimento, l’altra alleanza militare, istituita nel 2021 dagli Usa, l’Aukusha caratteristiche imperialistiche più marcate, raccogliendo tre dei Five eyes: oltre a Stati Uniti e Gran Bretagna, anche l’Australia, unica potenza a trovarsi nella macroregione dell’Asia Pacifico. I Five eyes, o “Cinque Occhi”, come sa chi segue le nostre “recensioni divulgative” della rivista di geopolitica Limes, costituiscono un’alleanza di sorveglianza che comprende Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti. Questi Paesi hanno sottoscritto l’accordo di cooperazione congiunta in materia di intelligence dei segnali, denominato Ukusa. Il programma di questa alleanza mira ad ammodernare la flotta australiana di sottomarini con mezzi strategici a propulsione nucleare per rafforzare il contenimento anticinese e mantenere l’ordine internazionale unipolare a guida Usa. Dopo la costituzione dell‘Aukus l’Australia ha fatto un clamoroso dietrofront con la Francia. Pur avendo già sottoscritto con l’Eliseo contratti di fornitura di sommergibili a propulsione diesel-elettrico, vi ha improvvisamente rinunciato scegliendo i più potenti e tecnologicamente avanzati mezzi statunitensi. Questa mossa ha avuto come reazione da parte della Francia il richiamo a Parigi degli ambasciatori a Washington e Canberra “per consultazioni”.

Da molto tempo l’Australia si stava riarmando: nel decennio 2013-22 l’incremento delle spese militari è risultato il terzo più elevato nella Top15 mondiale col +47%, a poca distanza da un altro Five eyes, il Canada (+49%), e a qualche lunghezza dalla Cina che detiene il triste primato con +63%, senza considerare il particolare caso dell’Ucraina (+1.661%), che da un decennio investe massicciamente in armi. L’Australia, quindi, si sta configurando come una potenza strategica nell’area Asia-Pacifico e all’interno dell’Oceania è certamente la potenza egemone, dal momento che nel 2022 da sola ha rappresentato il 91,5% delle spese militari totali dell’Oceania (35,2 miliardi di $).

    Immagine contenuta nel dossier Giga Le nuove alleanze militari di Washington nell’area Asia-Pacifico.
Pubblicata dalla Fondazione PER (Progetto Europa Riforme)

Che significato ha allora l’adesione al Quad dell’India, Paese da sempre non allineato? L’India, secondo Vento «è, tuttavia, riluttante a sposare la linea dura del contenimento cinese, attuata da Washington e alleati, e, fedele alla propria tradizione di Paese “non allineato”, non intende deteriorare, nonostante vari fronti di attrito e di scontro, i rapporti con Pechino. Il governo nazionalista indù di Narendra Modi seppur interessato a cooperare con i Paesi occidentali su tecnologia, armamenti e mantenimento dello statusquo nell’Indo-Pacifico, non sembra intenzionato ad elevare il livello dello scontro con la Cina in quanto New Delhi, nell’attuale scenario geopolitico in fase di trasformazione, è riuscita a conseguire una rendita di posizione internazionale che le consente di avere mano libera per tessere la tela su più fronti».
Nei primi 9 mesi del 2023 New Delhi è diventata il secondo fornitore di prodotti petroliferi raffinati all’Unione Europea, secondo solo all’Arabia Saudita. Ma sarà utile ricordare che il 40% del petrolio raffinato dall’India e venduto all’Ue proviene dalla Russia, «con buona pace delle sanzioni e delle sue ricadute negative sui committenti europei». Da perfetto “battitore libero” l’India aderisce sia al Quad che allo Sco. Non si tratta di semplice doppiogiochismo. Bharat, come ama definire il suo Paese Narendra Modi, ha dato il suo sostegno all’allargamento dei Brics ad altri 6 Paesi e dopo il febbraio 2022 ha incrementato le relazioni commerciali con la Russia. La sua posizione geopolitica, economica e militare ne è uscita rafforzata e le sue alleanze con Cina e Brasile hanno chiaramente messo in luce il suo orientamento favorevole alla realizzazione di un ordine internazionale multipolare, che prima o poi dovrà sostituire quello a guida statunitense e superare la struttura economico-finanziaria nata a Bretton Woods e incentrata sul dollaro.
Inoltre la storica ostilità tra India e Pakistan, entrambi in possesso di ordigni nucleari, ha reso necessario un aumento delle spese militari. Oggi Bharat è al quarto posto nella graduatoria mondiale dietro a Usa, Cina e Russia. Nel 2022 le uscite indiane per la difesa sono state di 81,4 miliardi di $, pari al 2,4% del Pil, quando erano solo 14,7 miliardi di $ nel 2002.

È ormai chiaro, come si evince dai vari documenti annuali dell’Agenzia di Sicurezza Nazionale (Nsa), che la scelta strategica degli Usa sia quella di perseguire a oltranza la strada del contenimento di Russia e Cina, adottando l’opzione militarista che sta aumentando le tensioni internazionali e creando focolai di scontro e addirittura di guerra, come in Ucraina. Nell’ultimo decennio le spese militari a livello globale sono aumentate del 19%, alimentando venti di guerra e sottraendo ai bilanci degli Stati risorse per scuola, sanità, assistenza sociale e investimenti produttivi. Il tutto amplificato dagli effetti boomerang sulle economie europee dell’ennesimo pacchetto di sanzioni alla Russia, dall’aumento delle quotazioni delle materie prime, dall’inflazione e dal rialzo dei tassi.

Il professor Vento conclude così l’VIII parte del Dossier Economia di guerra, a proposito delle tensioni nell’Indo- Pacifico e della politica di riarmo innescata dagli Usa e dai loro alleati, a cui le potenze emergenti hanno reagito in forma massiccia: «Una politica scellerata che sta avendo pesanti ripercussioni sia nel ciclo economico che nelle condizioni sociali, già gravemente deterioratesi negli ultimi decenni di dominio del dogma neoliberista. Fase storica contrassegnata da crisi economiche cicliche dalle quali la ristrutturazione capitalistica in atto cerca di uscire rilanciando la finanziarizzazione, i conflitti e l’economia di guerra. Come interrompere la spirale liberismo – spese militari – guerre rappresenta l’ineludibile questione che tutti noi dovremmo affrontare». Se solo si considerassero le opinioni dei popoli, che della guerra non ne vogliono sapere, anziché quelle delle elites più inadeguate della storia dell’umanità.

In questi giorni la più autorevole Ong di aiuti umanitari, l’International Rescue Committee di New York, ha pubblicato un Report su tutte le tensioni nel mondo che nel corso di quest’anno potrebbero trasformarsi in conflitti. Come ha ricordato Alfredo Somoza nella trasmissione Esteri di Radiopopolare del 26 gennaio scorso, nel 2023 nei Paesi in cui si sono verificati colpi di Stato le vittime sono state migliaia: 7800 in Burkina Faso, 4100 in Mali, 1000 in Niger. Escludendo i due conflitti al centro dell’attenzione mondiale, quello russo-ucraino e quello israelo-palestinese, assistiamo a una “Terza guerra mondiale a pezzi”. I conflitti quest’anno potrebbero coinvolgere il 10% dell’umanità, cioè una persona ogni dieci. 

I focolai si trovano soprattutto nell’Africa subsahariana, nella fascia del Sahel ma anche nella regione del Nilo, con il Sudan e il Sud Sudan ad alto rischio, e in Africa centrale, in particolare nella Repubblica Democratica del Congo, e nel Corno d’Africa, in Etiopia, Eritrea e Somalia. Anche in Medio Oriente il conflitto israelo-palestinese si potrebbe allargare a Libano, Siria, Giordania, Iran, Yemen e Iraq, fino al Pakistan. In Afghanistan i talebani si stanno scontrando con forze affiliate all’Isis, e in Myanmar la situazione si sta aggravando dopo il colpo di Stato del 2021. In America Latina Haiti è in mano a bande criminali mentre in Ecuador è in atto uno scontro tra narcotrafficanti e Stato. In Europa orientale, oltre a quello russo-ucraino esistono focolai di guerra nei Balcani e in Transnistria. Come raccontato qui, in Estremo Oriente la situazione intorno a Taiwan è instabile, così come la frontiera tra le due Coree; nel Maghreb la Libia e la Tunisia sono a rischio.

Di fronte a questa situazione incendiaria, come la definisce Somoza, la politica conta molto poco. Quella multilaterale è bloccata dai veti incrociati dei Paesi permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu e a livello bilaterale le cose non vanno meglio. Benché oggi tutti gli attori globali condividano una stessa visione di un mondo fondato sul mercato e non ci siano più i condizionamenti reciproci della Guerra fredda «sembra che non ci sia più nessuno in grado di fermare davvero le aspirazioni di chi punta le sue armi contro qualcun altro. Che si tratti del premier israeliano, del capo di Hezbollah, del presidente della Federazione Russa oppure di quello degli Stati Uniti».

A questo link è possibile ascoltare la seconda trasmissione della nuova rubrica di geopolitica “Parola al Vento” curata dal prof. Andrea Vento.

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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la maiuscola. Eterna apprendente, le piace divulgare quello che sa. Docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.

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