C’era una volta una bambina che conservava i colori nella propria memoria: il verde della casa in rovina, il giallo dei fiori, il rosso intenso delle angurie tagliate a fette, il nero della notte che sembrava così profondo.
Questa bambina camminava per le strade di un piccolo paese chiamato Cojutepeque, in El Salvador; aveva poco da fare e molto da osservare o immaginare.
Si chiamava Julia Diaz, ed era nata nel 1917.
Poté iscriversi alla scuola primaria come i suoi fratelli maschi, ma purtroppo per problemi economici la sua famiglia non fu in grado di garantirne l’iscrizione alla secondaria.
Julita non si scoraggiò, continuando a osservare le forme, le immagini, le ombre, i movimenti e le luci che la circondavano; sua madre le garantì quaderno e pastelli colorati per continuare a coltivare la sua passione: la pittura.
E così, quando si diffuse la notizia di un programma di borse di studio, garantite dal governo salvadoregno, per studiare nell’accademia creata dal pittore spagnolo Valero Lecha, Julia non ebbe alcun dubbio: spalleggiata dalla famiglia si iscrisse.
Nel 1938, ad appena ventun anni anni, Julia poté accedere all’accademia, avendo vinto la borsa di studio.

Nella scuola di Valero Lecha, considerato il mentore dell’arte pittorica salvadoregna del secolo scorso, accanto a Julia Diaz, studiarono anche Mario Araujo Rajo, Raúl Reyes e Noé Canjura.
Mario Areaujo diventò famoso per i suoi acquarelli; Raúl Reyes predilesse come soggetto principale dei suoi quadri la natura e la vita dei pescatori; Noé Canjura, influenzato prima da Diego Rivera, poi da Gauguin, scelse la Francia come sua patria artistica di adozione.
Julia Diaz fu l’unica donna del gruppo di giovani artisti individuati di Valero Lecha a godere della borsa di studio, iniziando un percorso di formazione e realizzazione come pittrice che la porterà ai livelli più alti dell’arte.
A quei tempi, in El Salvador, le accademie di pittura erano poche: la prima era stata la Escuela de Artes Aplicadas di Carlos Alberto Imery, un talentuoso giovane inviato dal governo salvadoregno a studiare in Europa; Imery, al suo rientro, fondò la scuola, dove si imparavano pittura e scultura, ma pochi giovani vi parteciparono.
Nei villaggi si continuava il sistema di apprendimento basato sul rapporto tra maestro e discepolo; a Santa Ana alcune donne avevano imparato a dipingere come allieve degli artisti che decorarono il Teatro Nazionale; a Ahuachapán, Sonsonate e San Vicente, altre ragazze impararono a restaurare santi o a dipingere scene pietose per le Via Crucis o per le grandi case padronali. Altre ancora dipingevano ritratti o paesaggi per abbellire le proprie case, ma non erano veramente delle artiste con la libertà di pensare e quindi di realizzare in autonomia le proprie opere.

Lo farà invece Julia Diaz, dopo aver trascorso quattro anni di formazione in Europa.
Quando tornò in El Salvador, dopo aver visitato Belgio, Olanda, Germania e Francia, dopo essersi accostata ai grandi dell’arte, visitato città e musei, assaporato gli odori egli stimoli di caffè e librerie, il 23 maggio del 1958, a 41 anni, riuscì ad aprire nella Calle Darío, la Galería Forma, la sua galleria.
Così, per anni, nella sua galleria d’arte si realizzarono esposizioni, conferenze, riunioni di artisti e artiste, provenienti da tutto il mondo. Quando poteva, Diaz comprava dei quadri, per arricchire la propria collezione. Ma senza dimenticare la realtà in cui viveva.
Tutti i giorni, percorrendo la Calle Darío, incontrava Chabelita, una bambina di appena otto anni, che aiutava la mamma nella cura dei suoi fratelli, mentre svolgeva il suo lavoro di venditrice ambulante nel centro della città. Chabelita, con il fratellino più piccolo sempre in braccio, si occupava dei pasti, del cambio dei pannolini, dei loro giochi e della loro sopravvivenza.
Un giorno la pittrice chiese alla mamma di Chabelita il permesso di dipingere la bambina, garantendo alla famiglia il corrispondente di un giorno di lavoro; si offrì anche di insegnarle a leggere e a scrivere.

Il quadro Chabela y sus hermanos rimase uno dei preferiti di Diaz, posto in bella mostra nella vetrina della Galleria, perché chi passava non si dimenticasse della realtà. Una realtà in cui troppe bambine e bambini erano senza attenzione, troppe donne erano ragazze madri senza futuro, sfruttate e cariche soltanto di dolore e tristezza.
Il 3 maggio del 1965, pochi giorni prima del suo compleanno, un tremendo terremoto distrusse San Salvador; da quelle rovine, Julia Diaz estrasse ciò che poté salvare e si portò tutto a casa.
Non si arrese: nel marzo del 1983, quando la guerra civile era già scoppiata, riuscì a inaugurare il Museo Forma, il primo museo d’arte in El Salvador.
Molto le era costato realizzare il suo sogno, il sogno di tutta una vita. Fin da quando era piccola, sapeva che il suo destino era dipingere. Da giovane, decise che avrebbe vissuto di pittura e di arte e come adulta lottò per riuscire a costruire il primo museo di El Salvador.
Morirà nel 1999, a ottantadue anni.
Il suo museo, che nel 2023 ha festeggiato i quaranta anni della propria esistenza, ha cambiato diverse sedi, trasformandosi per un periodo anche in un museo itinerante. Le opere della sua collezione permanente sono patrimonio culturale, rappresentando la vita di El Salvador.
Tutto grazie alla tenacia di Julia Diaz, la bambina che conservava i colori nella propria memoria.

Le immagini sono illustrazioni di Soffi Flores, presenti nel libro di Elena Salamanca, Siemprevivas, mujeres extraordinarias en la historia de El Salvador, San Salvador El Salvador, Editorial Kalina 2022.
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Articolo di Maria Teresa Messidoro

Classe 1954, insegnante di fisica, da quarant’anni vicina alla realtà latinoamericana, in particolare a El Salvador, e con un occhio di genere, è attualmente vicepresidente dell’Associazione Lisangà culture in movimento; è scrittrice per diletto ma con impegno e spirito solidario.
