St’la fè stüdià da fa, ch’la gha da spusas?

A tredici anni si deve scegliere la scuola superiore da frequentare dopo le medie. Ora i nomi sono cambiati, ma negli anni ’70 del secolo scorso le scuole erano elementari, medie e superiori, punto. Anzi, per chi viveva nei quartieri più popolari, come me, già erano tanto le medie (e tanti miei amichetti neanche le finivano e seguivano il padre a bottega o in fabbrica) e le superiori quasi non si conoscevano neanche di nome. Le ragazzine, poi, soprattutto se avevano in casa quattro o cinque fratellini o sorelline più piccole da curare, erano più i giorni in cui non erano in classe che gli altri, tanto… se anche andavano male a scuola non interessava poi molto.

Io però non ero vista, nel quartiere e a scuola, come uguale alle altre, non che mi si trattasse male, anzi…, ma sentivo che mi si trattava come diversa, perché avevo un padre terrone, che parlava in italiano e non in dialetto, era ragioniere (in un mondo in cui quel titolo valeva di più di una laurea attuale in economia), era gentile e faceva anche i lavori in casa, aiutando mia madre casalinga, pur sciroppandosi due ore di viaggio la mattina e la sera per andare a lavorare in una ditta di assicurazioni automobilistiche a Milano, come capocontabile.

Quando mia madre si era innamorata di lui, bel carabiniere venuto al nord al seguito dello zio maresciallo, la sua famiglia di fittavoli “fascisti” aveva osteggiato la loro simpatia reciproca in tutti i modi: quasi che fosse un vilipendio legarsi a un poveraccio venuto dal sud. Il loro amore, invece, ha resistito a tante angherie: a chi diceva a mia madre con disprezzo che non sarebbe stato in grado di mantenerla, che l’avrebbe mandata a lavorare, che era attirato solo dai loro soldi… ma quali soldi? Era sì una famiglia di commercianti benestanti, ma dove tutto ruotava intorno ai maschi e le femmine dovevano solo figliare e fare da serve: mia nonna nove ne ha fatti di figli e figlie, sei maschi, tutti fatti studiare e diplomati, e tre femmine, tutte tenute a badare alla casa.

Mia madre avrebbe voluto sia studiare ― diceva sempre che andava bene alle “commerciali”, il massimo che le era stato concesso ― e anche lavorare: non avrebbe mai accettato, però, di far passare mio padre come quello che non riusciva a mantenerla, ma io vedevo come invidiava chi usciva di casa e aveva una sua attività… una sua vita… oltre quella della casa, che tuttavia non disprezzava.

Così, quando dopo le medie, ormai unificate (ma io avevo scelto di fare anche latino), dissi di voler fare il liceo classico, fu anche lei contenta, insieme a mio padre che ci teneva molto! E sapeva anche tener testa ai suoi fratelli che le ripetevano (e io sentivo e incominciavo a capire qualcosa della vita) «St’la fè stüdià da fa, ch’la gha da spusas? (Che cosa serve farla studiare, che poi deve sposarsi?)».

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Articolo di Danila Baldo

Laureata in filosofia teoretica e perfezionata in epistemologia, già docente di filosofia/scienze umane e consigliera di parità provinciale, tiene corsi di formazione, in particolare sui temi delle politiche di genere. Giornalista pubblicista, è vicepresidente dell’associazione Toponomastica femminile e caporedattrice della rivista online Vitamine vaganti.

2 commenti

  1. aver avuto madri aperte e padri non autoritari è stata una fortuna che ha messo le ali alla nostra vita. Grata a mia mamma che sempre mi diceva “mi raccomando, non farti comprare il pane da nessuno” e un papà che mi incoraggiava a leggere e studiare per scegliere sempre la libertà. , forse adesso è più comune ma allora è stato un privilegio. Ciao Danila. “Menu mal che t’e’ studiad”

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    1. Vero, Mariarosa, ma dobbiamo fare in modo che non dipenda dal buon cuore di alcuni genitori, bensì diventi cultura comune… ora, poi, studiano tutte le ragazze, e anche spesso con esiti migliori, ma è quando entrano ne mondo del lavoro che vedranno le discriminazioni ancora imperanti…

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