Regole comportamentali

Era il 1966, le strade dell’Oltrarno testimoniavano le ferite dell’alluvione passata da poco, io avevo 8 anni e la mia mamma, nonostante le strade nere di nafta e fango, mi accompagnava a scuola con scarpe col tacco e calze trasparenti. La funzionalità degli abiti era ancora ampiamente subordinata al messaggio che metteva al primo posto la femminilità attraverso la comunicazione di stereotipi che ci venivano trasmessi
fin da piccole.
La mia scuola portava il nome di Maria Gaetana Agnese. Gaetana, nata nel 1718, era stata la prima donna ad avere una cattedra di matematica all’Università di Bologna; avere una scuola con un nome di donna mi piaceva e provavo molta curiosità per questa figura femminile, ma non ricordo che la mia insegnante ci abbia mai parlato di lei, era infatti una insegnante molto rigida che si atteneva strettamente ai programmi scolastici. I confini erano marcati anche tra i sessi e nella mia classe, totalmente femminile non era permesso salutare i maschi neanche nei corridoi o durante i rari eventi scolastici che vedevano riunite le classi maschili e femminili.
Da piccola accettavo queste regole sociali con fiducia, pensavo che ci dovesse essere un motivo, qualcosa di giusto, dietro a queste regole se così mi insegnavano a comportarmi. Accettavo quindi le gonne, le ginocchia rigidamente attaccate sotto il banco e i calzettoni che lasciavano scoperte le coscette infreddolite in ambienti sempre poco riscaldati; i collant di filanca che si trovavano come novità all’inizio degli anni Sessanta erano infatti banditi dalla mia maestra, il confine tra l’abbigliamento maschile e femminile doveva essere netto ma anche all’interno dell’abbigliamento femminile dovevano essere scelti abiti e accessori consoni con l’età e, le calze, i collant erano capi da ragazzina, da non indossare fino all’adolescenza.
Accettavo queste regole scolastiche serenamente fino a quando una mia compagna di classe si ammalò, soffriva di dolori alle gambe che la costringevano a lunghi periodi di malattia tra casa e ospedale. Per stare più calda i medici le avevano detto di indossare i pantaloni, ossia quel capo d’abbigliamento che nessuna osava portare in classe per non subire le angherie della maestra che non li tollerava proprio. Così una mattina, all’entrata a scuola, nel freddo androne vidi la mia compagna con sua mamma che le sfilava i pantaloni da sotto la gonna e il grembiule bianco per assecondare la rigidità della nostra maestra e mi ricordo che provai un senso fortissimo di ingiustizia. Non poteva essere una questione di etichetta, non si trattava di una libera preferenza, si limitava un diritto a stare caldi, la stessa salute sembrava valere meno delle rigide regole a cui una femmina fin da piccola doveva aderire. C’era qualcosa che proprio non mi tornava, che gli adulti mi stessero insegnando qualcosa di ingiusto?
Come era possibile che a una donna si fosse intitolata la scuola perché era riuscita ad affermarsi nel mondo maschile accademico del XVIII secolo e a noi, in quella classe, in una scuola pubblica nel 1966, non fosse concesso di stare con i pantaloni neanche per motivi di salute? Qual era il timore? Quelle regole sembrava che non fossero una protezione ma piuttosto un pericolo, iniziai così a pensare che ci fosse qualcosa
da cambiare.

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Articolo di Susanna Cialdai

Storica dell’arte, collaboratrice della Soprintendenza di Firenze. Mi occupo di tutela, inventari, catalogazione di opere d’arte e stime. Le mie passioni sono la storia del costume, delle arti decorative e dell’artigianato con particolare interesse verso le testimonianze riguardanti il lavoro artistico femminile. Da alcuni anni faccio parte della Commissione Pari opportunità del comune di San Casciano in Val di Pesa.

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