Racconti di viaggio

Pubblichiamo insieme i due racconti vincitori della sezione C-Narrazioni, del Concorso di Toponomastica femminile per le scuole, dal tema quest’anno Donne in viaggio. In questa edizione abbiamo introdotto una novità, riservando la sezione C a studenti universitari/e, dottorandi/e, borsisti/e, che partecipano a titolo personale. Senza variazioni, invece, la collaborazione con il Premio letterario Italo Calvino: anche quest’anno due scrittrici e due scrittori legati al Premio torinese – le loro opere di narrativa sono state finaliste o vincitrici in una delle passate edizioni del Calvino – hanno ideato per noi quattro incipit da proporre a chi sceglie di scrivere un racconto.
È ispirata al Premio Calvino anche la scelta, inaugurata in questa edizione, di selezionare un certo numero di racconti “finalisti”, tra i quali individuare in seguito il vincitore. Quest’anno i racconti finalisti sono stati otto, su 43 pervenuti, la maggior parte a opera di studenti delle università di Roma e del Lazio. Due i racconti vincitori ex aequo, le cui autrici, Dana Moda e Sara Autiero, sono entrambe iscritte all’Università la Sapienza di Roma: la prima ha scelto l’incipit di Mariapia Veladiano (vincitrice ed. XXIII Calvino), la seconda quello di Antonio G. Bortoluzzi (finalista ed. XXI e XXIII Calvino).
Seguono i giudizi espressi dalla Giuria sui racconti vincitori.
Racconto di Dana Moda: «Originale e ben contestualizzato – evidente e apprezzabile il lavoro di ricerca relativo alla scelta della meta – il racconto è fresco e spontaneo, aderisce al tema ed è del tutto coerente con l’incipit.
Buona la scrittura: limpida, corretta, scorrevole».
Racconto di Sara Autiero: «Il senso dell’incipit è stato perfettamente compreso.
Ne è risultato un racconto ricco, aderente al tema e originale sia nel contenuto sia nello stile, che rivela conoscenza non superficiale del problema affrontato, sensibilità e maturità del pensiero».

Racconto, senza titolo, di Dana Moda
dall’incipit (in corsivo nel testo) di Mariapia Veladiano
«Spostati».
«E perché?».
«Perché questo è il mio posto».
«Ma il bus è vuoto e io ho pagato il biglietto».
«Anch’io. Ho l’abbonamento e questo è il mio posto».
«E perché? È un posto come un altro».
«No. È il mio. Ci ho messo due anni a conquistarlo. Io sono nata qui. Sei tu che non capisci. Si vede che sei una turista».
«Dico, è un autobus! C’è posto per tutti».
«Forse. Ma non per tutte. Se sto qui è perché nessuno mi può infastidire. Tengo le spalle al finestrino. Ho una visuale perfetta. E se si avvicina uno pericoloso io mi preparo».
«Come? Cosa?».
«Ho lo spray al peperoncino. Sono forte di calci. Ho anche uno spillone. Parli bene l’inglese però. Ma sai dove sei?».
«In uno dei posti più belli del mondo».
«Può darsi. E più pericolosi. Da dove vieni?».
«Italia. Anche tu parli bene l’inglese. Sai quanto ho lottato per arrivare qui?».
«Perché?».
«Perché il tuo è un Paese bellissimo. Perché viaggiare è bellissimo. Perché viaggio da sola e tutti avevano da ridire. Chissà che cosa ti succede. Gli uomini. La delinquenza. Adesso sono qui ed è una donna che mi fa difficoltà?».
«Non hai paura?».
«No».

«Se lo dici tu. Io comunque il mio posto non te lo cedo, è chiaro?».
Gaia era stanca di litigare con quella, così si arrese e andò a sedersi in fondo all’autobus. Estrasse dallo zaino il suo walkman e fece partire l’unico cd che si fosse portata. Non ascoltava altro da mesi. «Non vedo l’ora che sia stasera! 18 novembre 1993. Il giorno più bello della mia vita!» pensò mentre faceva partire il disco, incapace di concentrarsi sulle distese di verde che le sfrecciavano davanti.
Venne strappata al suo fantasticare da uno strattone. Si tolse le cuffie.
«Abbassa quel volume. Nessuno vuole sentire quella roba».
«Va bene, va bene! Si può sapere cos’hai contro i Take That? Sono bravissimi!».
«Cos’ho contro degli sporchi inglesi? Ma allora davvero non sai dove sei».
«Certo che lo so, non sono mica stupida!».
«E invece sei proprio stupida. Perché sei venuta fin qui? Cosa ti ha detto la testa?».
«Oddio! Certo che sei proprio antipatica tu! Prima mi fai alzare dal mio posto, poi mi costringi ad abbassare la musica, adesso mi…».
«Dimmi perché sei qui e ti lascio in pace».
«Cavolo, va bene. Sono qui per il concerto dei Take That. Contenta? Ora lasciami in pace!».
E si rimise le cuffie. Ma quella continuava. Sbuffò e se le tolse di nuovo.
«Senti, ti ho detto perché sono qui, che altro vuoi?».
«Davvero i tuoi genitori ti hanno lasciata venire fin qui per un concerto? Ma quanti anni hai?».
«Ne ho diciotto, appena compiuti. E no, i miei genitori non sanno che sono qui».
«Come non lo sanno? Wow, sei davvero stupida allora!».
«Smettila di chiamarmi stupida! Glie l’ho chiesto e loro mi hanno detto che non potevo, che ero pazza a voler venire qui e che…».
«E hanno ragione! Non sai che…».
«E che tanto il tour sarebbe arrivato anche in Italia. Ma io non volevo aspettare fino ad aprile. Ok? Ora basta. Non mi interessa quello che hai da dire».
E si rimise le cuffie. Il cd, nel frattempo, era arrivato alla fine, così lo fece ripartire. Gli edifici di Belfast le passavano davanti agli occhi. Non sapeva molto di quella città. I suoi genitori le avevano detto che era un luogo pericoloso, ma a lei sembrava solo ci fosse molta polizia in giro. Sapeva che qualche mese prima c’era stata una bomba in un posto di cui non ricordava il nome, che erano morti dei bambini e che era stata colpa degli irlandesi. Ma era successo in Inghilterra, e lei era in Irlanda.
Non c’era davvero nulla di cui preoccuparsi.
A breve sarebbe scesa, alla stazione di Balmoral. Controllò di avere tutto: un cambio, i documenti, giusto i soldi necessari per qualche giorno, la mappa della città e, ovviamente, il suo walkman ed Everything Changes, l’album che sperava di farsi autografare.
«Chissà se Robbie è bello come in tv. Ma che dico, lo sarà sicuramente!», pensò, e non riuscendosi a contenere saltellò da seduta.
L’autobus si fermò alla stazione, Gaia si alzò e così fece l’irlandese.
«Speriamo non mi dia ancora fastidio» pensò, ma quella nemmeno si voltò. «Oh bene, finalmente sono arrivata!».
Una volta scesa, si tolse lo zaino, lo poggiò a terra e ne sfilò la mappa. Non riusciva proprio a trovare la strada dell’ostello. Decise di chiedere indicazioni. Fermò una donna che le stava passando davanti. Quella fu molto gentile e le diede subito tutte le informazioni.
«Per fortuna non tutte le irlandesi sono antipatiche come quella là» pensò, e si girò per recuperare lo zaino. Ma lo zaino non c’era. Si voltò più volte, sperando di averlo lasciato in un altro punto, ma lo zaino era sparito. E con lui tutte le sue cose. Nel frattempo, si stava facendo buio.
«E ora che faccio? Dove dormirò? Come farò a tornare a Roma? Oddio, sono spacciata. E nessuno sa dove sono! I miei genitori! Gli verrà un colpo!» pensò, mentre le lacrime iniziavano a rigarle il viso.
I suoi pensieri disperati vennero interrotti da una risata familiare. Pochi metri più in là, la ragazza dell’autobus si stava scompisciando.
«Che hai da ridere tu?» le urlò Gaia con la voce rotta.
«Rido perché avevo ragione!».
«Ok, ok, avevi ragione, ok? Sono stupida, sono un’idiota! Non sarei mai dovuta venire fin qui. Che posto terribile, odio questo posto!».
Allora l’irlandese si fece seria.
«Non ti devi permettere. Questo posto è casa mia. Io per questo posto sto combattendo, hai capito? Io per questo posto darei la vita. Come tanti altri prima di me».
Gaia non le diede ascolto. Continuava a singhiozzare. Non sapeva davvero che altro fare se non disperarsi.
«Ehi, ascolta, smettila di piangere. Si risolve tutto».
«Non è vero, non si risolverà nulla! Non ho soldi. Non ho documenti. Dove dormirò? Come tornerò a casa? Non potrò nemmeno andare al concerto!».
«Dài, calmati! Facciamo così. Per stasera dormi da me. Devi accontentarti del divano però. E domani andiamo al consolato. Vedrai che lì ti daranno una mano».
Gaia sembrò calmarsi. Annuì.
«Comunque piacere, mi chiamo Saoirse».
«Come?».
«Saoirse. Vuol dire libertà».
Gaia annuì una seconda volta.
«E tu come ti chiami?».
«Scusa. Sì. Gaia. Mi chiamo Gaia. Vuol dire allegra».
«Non si direbbe. Dài, sii coerente con il tuo nome. Io lo sono con il mio. Asciugati la faccia e andiamo. Casa mia è vicina. Ti presento le mie amiche, beviamo una birra e ceniamo».
«Ok. Andiamo».
«Ehi Saoirse! Com’è andata al lavoro?».
«Ehi ragazze! Bene, guardate chi vi ho portato!».
L’appartamento era molto piccolo e fitto di fumo di sigaretta. Nel salotto c’erano due poltrone e un divano, occupati da tre ragazze, che guardavano Gaia con espressione sorpresa e curiosa.
«Gaia, loro sono Doireann, Eimear e Aisling».
«Ciao Gaia!».
«Ehi».
«Gaia è italiana. È venuta qui da sola, ci credete?».
«Cosa? Ma davvero?».
«Sì, è qui per…».
«Posso andare al bagno?».
«Certo, è la porta in fondo al corridoio».
Gaia entrò in bagno, si appoggiò alla porta e si portò le mani al viso. Le sembrava di essere in un incubo. Stava andando tutto nel peggiore dei modi. Non sarebbe nemmeno andata al concerto. E doveva pure passare la notte lì. Con quelle. Le sentiva ridacchiare dal salotto. Le loro risatine di scherno le arrivavano addosso come una pioggia di spilli. Piccoli e impietosi spilli. Si vergognava. Ma stare lì era la sua unica opzione. Si sciacquò il viso e guardò i suoi occhi gonfi nello specchio. «Che avranno tanto da ridere? Loro e i loro nomi assurdi». Si fece coraggio e tornò nel salotto.
Le fecero posto sul divano. Una delle ragazze le porse una birra.
«Ti piacciono i Take That eh?».
«Sì».
«Anche a me non dispiacciono».
«Davvero?».
«Sì, davvero. Per essere degli inglesi non sono così male».
«C’è il loro concerto stasera».
«Sì, lo sappiamo. Ce l’ha detto Saoirse».
«Comunque ti rispetto molto» se ne uscì un’altra.
«Ah sì?» rispose incerta Gaia.
«Ma certo! Sei così giovane e viaggi da sola! E poi per venire fin qui ci vuole proprio del fegato!».
«Perché? So che sono una donna e che sono giovane, ma a me non interessa. Non voglio avere paura. Gli uomini non ce l’hanno mai, perché io dovrei?».
Le tre ragazze risero. Saoirse scosse la testa, facendo un mezzo sorriso. Tra le risate, Doireann ribatté: «Ma che c’entra! Anche noi siamo giovani e siamo donne! E facciamo quello ci pare! Facciamo quello che fanno i maschi, anzi, lo facciamo anche meglio! A essere donne, qui, nessuno ti prende sul serio. E allora tu puoi fare cose che gli uomini non possono fare. Nessuno penserà che sei stata tu. Nessuno ti perquisisce. E tu fai come vuoi. E lo fai per bene».
Gaia non capiva di cosa parlassero. Non rispose.
«Hai fegato perché c’è la guerra civile, qui. E va avanti da quasi un secolo. Sai…».
Saoirse la interruppe: «Gaia, te la faccio facile. Gli inglesi ci hanno tolto la terra. Ci hanno messo gli uni contro gli altri. Ci ammazzano come bestie. I cattolici, qui, vengono perseguitati. Non abbiamo diritti, noi. E allora cosa facciamo? Rispondiamo con le armi e con le bombe, ecco cosa facciamo. Questa è Belfast, Gaia. Questa è l’Irlanda del nord. Per questo ti ho dato della stupida. E ora so che sei pure ignorante».
Gaia era allibita. Non sapeva come sentirsi. Forse era davvero stupida. Era stata un’incosciente ad andare fin là. Da sola. Avrebbe dovuto ascoltare i suoi genitori.
«Ma non potete risolverla pacificamente?».
Le ragazze ammutolirono. Poi si misero a discutere animatamente tra loro, ignorandola. Sembrava che Aisling fosse d’accordo con lei. Diceva che erano andati troppo oltre, che i bambini non andavano toccati. Saoirse era in preda alla rabbia.
«Mio padre non è morto a Long Kesh perché io mi arrendessi!».
Gaia, nonostante fosse interessata a capire, non riusciva a non guardare l’orologio. Il concerto sarebbe iniziato nel giro di un’ora e lei non ci sarebbe stata. Si accorse che Eimar la stava guardando. «A che ora è il concerto?».
«Tra un’ora».
«Allora dobbiamo iniziare a prepararci».
«Ma io non ho soldi».
«Vabbè, ce li mettiamo noi quattro. Così questo viaggio non sarà stato un fallimento totale».
«Davvero? Oddio, grazie!» disse Gaia, e abbracciò la ragazza piangendo dalla gioia.
Saoirse, intanto, non si era ancora calmata, e non sembrava voler partecipare.
«Dài, non fare così! Sei sempre la solita».
«Ce l’hai portata tu in casa. Ci devi un favore».
Le ragazze si incamminarono. Gaia saltellava di qua e di là, non riuscendo a contenere l’entusiasmo. Arrivate di fronte al King’s Hall, si girò verso le altre con un balzo.
«Non ci voglio andare da sola. Dovete venire con me!».
«Ma no! Non abbiamo abbastanza soldi, non possiamo proprio».
«Se volete conosco il tizio che sta all’entrata. Magari ci lascia passare» se ne uscì Doireann.
«Oh, sarebbe fantastico!».
«Io non ci vengo lì».
«Dai, Saoirse! Almeno proviamoci!».
Il concerto era un un’esplosione di luci e colori. Baci venivano lanciati verso il pubblico. Le cinque ragazze si fecero strada arrivando quasi fin sotto al palco. Ballarono e cantarono sfrenate. Anche la più cupa di loro, per una sera, si lasciò andare. Gaia la abbracciò. E Saoirse sorrise.

Racconti vincitori ex aequo, Dana Moda, Università la Sapienza di Roma,
incipit di Mariapia Veladiano (vincitrice ed. XXIII Calvino)

Racconto, senza titolo, di Sara Autiero
dall’incipit (in corsivo) di Antonio G. Bortoluzzi
Vide quella donna. Era di un altro Paese, aveva suppergiù la sua stessa età, eppure doveva avere il vissuto di sua madre, anzi, di sua nonna. Pensò l’impossibile: sua nonna e quella ragazza, davanti a una chicchera di caffè, avrebbero avuto cose importanti, cose di donne e di viaggio da raccontarsi…
Sua nonna avrebbe ordinato un orzo, con latte caldo, perché il caffè ormai le era impossibile da buttar giù dopo quel brutto fatto capitato qualche anno prima, ma la vecchiaia gioca anche di questi tiri, e il cardiologo era stato chiaro sull’argomento. E poi, ormai, il caffè non le piaceva più un granché da quando sua nipote le aveva spiegato per filo e per segno quanta sofferenza e sfruttamento potessero racchiudere quei granelli al loro interno. Anche se forse Leonetta proprio tutto non aveva compreso, perché quelle cose non le dicevano alla televisione, non le aveva mai sentite, e alla fine quando Lara le parlava delle sue quotidiane lotte per essere una persona migliore, le piaceva semplicemente ascoltarla, imparare qualcosa di nuovo, e vedere sua nipote felice.
Faith invece avrebbe ordinato un thè caldo, nel tentativo di scaldare il suo corpo malamente coperto di un cappotto a toppe. Leonetta si sarebbe certamente offerta di rammendarlo, raccontandole di come, a soli otto anni, sua madre la mandava ai corsi delle suore per imparare a rammendare, per apprendere e un mestiere: «Non si sa mai cosa succede, bambina, si deve sapersele fare da sole le cose», e Leonetta aveva preso il tutto talmente alla lettera che a undici anni, quando il babbo le aveva detto che non avevano soldi per farla studiare, se ne era andata con la bicicletta a cercare lavoro in fabbrica, a 4km da casa. Con un po’ di amarezza le avrebbe detto che a quei tempi solo i maschi potevano continuare a studiare gratuitamente dopo la scuola elementare, anche se il fratello della Leonetta c’era mica portato per lo studio, e di lavorare non ne aveva voglia.
Anche Faith aveva provato a cucire, glielo aveva insegnato sua madre quando aveva a malapena l’età per allacciarsi le scarpe da sola, ma poi se lo era dimenticato col tempo, e nessuno le aveva più messo un filo e un ago in mano negli ultimi quindici anni; le suore la occupavano già di preghiere, lezioni di grammatica e servizi alle signore. Quindi si era arrangiata, e aveva accettato l’offerta della sua amica Samia di farsi aggiustare il giaccone da lei, ma mica lo sapeva che Samia non era proprio capace a cucire. Entrambe venivano dalla Somalia, ma Samia una mamma sapeva di averla ancora, anche se non la vedeva da molto, perché era stata mandata dalle suore a lavorare al nord, e le mandava dei soldi di tanto in tanto perché Samia potesse andarsene quanto prima, anche se lei alcuni se li spendeva per comprarsi quelle barrette di cioccolata Ritter con i biscotti sbriciolati dentro, che le facevano diventare i denti tutti neri. Prima di arrivare in Italia, nessuna delle due aveva mai assaggiato il cioccolato bianco.
Leonetta neppure lo aveva mangiato spesso il cioccolato prima del matrimonio, solo di tanto in tanto, quando si teneva qualche moneta dalla paga della fabbrica, mentre il resto lo dava alla mamma per comprarci da mangiare per tutti. Però si ricordava di una storia che sua mamma le aveva raccontato ogni tanto, di quando i soldati erano venuti a sgomberarle la casa prima dei bombardamenti e le avevano preso la capretta, e allora, visto che non la smetteva di piangere, le avevano dato un pezzo di cioccolata che sua mamma diceva venisse dall’America, ma forse nemmeno si rendeva conto di quanto lontano stesse, neppure lei. «La conosco la vostra guerra», avrebbe detto Faith. «Me l’hanno fatta studiare a scuola. La professoressa mi ha detto che però qui nessuno conosce la mia, quella per cui mia mamma mi ha portato via. All’inizio lo credevo impossibile: davvero a nessuno importava di sapere? Ma poi, quando a Storia abbiamo studiato tutte quelle guerre, che la professoressa enumerava all’interno del programma ministeriale come un elenco di cose spuntare, forse mi sono resa conto che la mia aveva poco di speciale, e quel pensiero mi ha fatto sentire in colpa, perché per colpa di quella guerra papà era restato, la mamma era scappata, era morta, ed io ero rimasta sola». Faith però quella guerra in cui era nata non se la ricordava, e nemmeno il viaggio che aveva fatto per arrivare in Italia. Aveva solo degli sprazzi di ricordi della madre sulla barca, ormai già moribonda, che avrebbe voluto rimuovere; era colpa degli uomini, le aveva detto, ma non aveva capito finché non aveva letto online, quando era più grande, quello che facevano alle donne che viaggiavano sole per arrivare fino a qui. Le era venuta la nausea, e aveva capito quella frase che aveva pronunciato sua madre, ormai oltre un decennio prima.
E allora Leonetta le avrebbe raccontato – l’orzo era ancora tiepido – che anche lei si era dovuta prendere cura dei suoi figli sola, per lungo tempo, proprio come la madre di Faith. La Leonetta, quando aveva l’età di Faith, aveva già avuto la prima bambina. Un giorno, mentre la allattava, le era capitato di vedere alla televisione il programma Non è mai troppo tardi, e poi su quel titolo ci aveva riflettuto perché l’aveva fatta sentire piena di speranza, mica per imparare a leggere soltanto, ma per sé stessa. Suo marito, la televisione, l’aveva comprata perché, secondo la Leonetta, gli piaceva pavoneggiarsi. Ma quando era tornato a casa con 150mila lire in meno, si era fatta sentire. Poi però, da quando aveva iniziato a studiare, aveva provato un senso di gratitudine, non verso il marito, ma verso quell’apparecchio. Oggi sua nipote le avrebbe detto che era per merito del boom economico, ma lei avrebbe risposto che no, era solo perché suo marito era un cocciuto, che però finalmente era diventata alfabeta, e chi lo immaginava che vent’anni dopo avrebbe insegnato lei a sua nipote a leggere, mentre sbatteva la testa sulle proposizioni da imparare a memoria che le aveva assegnato la maestra?
La madre di Faith l’importanza delle parole la conosceva bene, per questo si era comprata un libriccino di traduzione dall’inglese all’italiano, che si teneva stretto come un talismano. Lo aveva perso nel viaggio, ma a Faith era rimasta impressa l’immagine della madre, spossata dalla stanchezza del lavoro, che leggeva e ripeteva quelle parole fino ad addormentarsi. Per questo, quando le suore se l’erano presa con sé, si era impegnata ad acquisire quanto prima quel livello di italiano necessario perché la lasciassero entrare alle scuole elementari. Aveva fatto più fatica di tutti i suoi compagni, lo sapeva bene, ma quando all’esame di maturità aveva parlato del rapporto tra donne e migrazioni, e il presidente della commissione l’aveva guardata per venticinque minuti di colloquio con quel paternalismo di chi ha soltanto da insegnarti qualcosa, gli aveva vomitato addosso la frustrazione di essere sempre e soltanto la minoranza da compatire, ancor prima di essere un’adolescente fin troppo consapevole. E ancora, quando aveva lavorato l’anno prima come cameriera in un bar del quartiere per pagarsi i libri dell’università, e il suo capo le aveva messo “in confidenza” una mano sulla coscia mentre beveva un caffè, aveva lasciato il lavoro e se ne era andata dai sindacati, anche se alla fine aveva dovuto spiegare per un’ora anche a loro cosa significasse la parola consenso, con scarsi risultati. Anche quando la Leonetta aveva provato a lavorare aveva trovato una sfilza di maschi all’opposizione, famiglia in prima fila, «perché a quei tempi lavorare per le donne era l’eccezione, e non la regola». Lei, però, con sorriso beffardo avrebbe raccontato che invece, di nascosto, se ne andava dalle donne del quartiere a prendere i lavori su commissione, e sentiva un fremito ogni volta che metteva furtivamente quel pugno di lire nell’armadietto della cucina, «tanto figurarsi se le trovava Serafino, che in cucina non ci aveva mai messo piede». Le sue figlie le ripetevano sempre che, se fosse nata oggi, sarebbe stata un’ingegnera, e questo la faceva sentire orgogliosa, anche se non lo sarebbe mai diventata, delle lacune rattoppate da sola con fatica.
Faith, con rammarico, le avrebbe raccontato di quando, pochi mesi prima, aveva rilasciato un’intervista come testimone del proprio viaggio «per educare, per rendere consapevoli chi non conosce le storie come la tua», le avevano detto. Quando aveva letto il titolo dell’articolo, però, aveva provato solo rabbia: Dalla Somalia all’Italia: la rivalsa di Faith. Per giorni si era rifiutata di leggerlo. Si era chiesta a quale rivalsa ci si potesse riferire, a quale fenomenale storia di fortuna si potesse alludere, per una bambina che aveva perso entrambi i genitori a soli otto anni, che aveva faticato come nessuno dei bambini della classe per andare a scuola, per avere un diploma, per poter lavorare come una qualsiasi altra persona. «Qual è la mia fortuna? Non essere morta in mare?» si era chiesta. Poi aveva letto l’articolo e aveva chiesto di non pubblicarlo. Non voleva passare come un modello di vita, perché non lo era, voleva soltanto essere una testimonianza per conoscere quella realtà che a scuola la professoressa diceva che non insegnavano.
L’orzo si sarebbe raffreddato, e allora, con dolcezza, Leonetta le avrebbe detto che no, una ragazza della sua età non lo avrebbe dovuto sapere cosa volesse dire vivere la privazione. «Alla fine – avrebbe detto Faith – sembra che far parte di una minoranza e barcamenarsi per vivere diversamente sia un gesto eroico. Abbiamo solo vissuto all’interno di un modello cercando di distaccarci dall’immagine che volevano darci, per me è sopravvivere, come può rappresentare un privilegio? Io credo che noi, a sessant’anni di distanza, abbiamo solo provato a crearci un’identità, in un mondo che sembra te la costruisca su misura nel momento in cui entri nel gioco».

Racconti vincitori ex aequo, Sara Autiero, Università la Sapienza di Roma,
incipit di Antonio G. Bortoluzzi (finalista ed. XXI e XXIII Calvino)

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Articolo di Loretta Junck

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Già docente di lettere nei licei, fa parte del “Comitato dei lettori” del Premio letterario Italo Calvino ed è referente di Toponomastica femminile per il Piemonte. Nel 2014 ha organizzato il III Convegno di Toponomastica femminile, curandone gli atti. Ha collaborato alla stesura di Le Mille. I primati delle donne e scritto per diverse testate (L’Indice dei libri del mese, Noi Donne, Dol’s ecc.).

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