Il Campino dei Preti

Anni ‘70 del secolo scorso. San Gimignano. Un borgo toscano ancora lontano dall’essere iscritto dall’Unesco nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità e dal diventare meta di milioni di turisti ogni anno.
Un intreccio di vicoli e piazze dove era possibile giocare tutti insieme, femmine e maschi, con i soldatini o le bambole, a nascondino o con la bici, per strada, sotto l’occhio vigile degli adulti, fossero i nonni, le nonne o le persone vicine di casa.
Ogni spazio era frequentabile, anche per noi bambine, ogni spazio tranne uno: il “Campino dei Preti”.
Un rettangolo chiuso tra la Rocca e le case, impossibile da vedere dalla strada.
Un luogo, anzi, il “Luogo” perfetto dove giocare a pallone in totale ed assoluta libertà.
Il campo non aveva erba ma terra, non c’erano tribune, linee disegnate, panchine. Rappresentava però la possibilità di potervi trascorrere interi pomeriggi senza il controllo visivo costante degli adulti, perché quello era un luogo considerato sicuro, protetto, quasi magico ma che solo i maschi potevano frequentare.
Impensabile che noi femmine potessimo trascorrere i nostri momenti di gioco in uno spazio da sempre deputato ad accogliere solo il sesso forte. Era permesso giocare insieme per strada, al catechismo, in casa dell’una o dell’altro ma al Campino no, lì si andava solo per giocare a calcio e quindi le “brave bambine” non dovevano neanche avvicinarsi, sennò chissà la gente cos’avrebbe pensato e detto. Infamia e vergogna.
La conseguenza era che io, insieme ad alcune amiche, stavamo ore su un terrazzino seminascosto che si affacciava sull’agognato Campino, a guardare i maschi fortunati e privilegiati che avevano la libertà di poter godere di uno spazio/tempo tutto loro, esclusivo, a noi precluso.
E già allora questo mi sembrava totalmente e assurdamente ingiusto.
Una limitazione di genere basata soltanto su un ipotetico giudizio morale della gente.
Ed oggi, a più di quaranta anni di distanza, mi rendo conto che ci sono ancora troppi “Campini dei Preti”, una moltitudine di spazi sia materiali che immateriali che le bambine non possono e non devono frequentare, per volere della cultura familiare o sociale, per evitare un marchio, o semplicemente perché è sempre stato così.

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Articolo di Marta Razzi

Educatrice professionale, lavoro da oltre 30 anni in un servizio pubblico di Salute mentale adulti. L’impegno per la tutela dei diritti e la lotta allo stigma legati alla malattia psichica si associa da sempre all’interesse per la Piccola storia e per la cultura popolare, in particolare dal punto di vista femminile.

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