Mia figlia, che ben conosce la mia passione per la storia del Novecento, nel prestarmi un libro mi ha detto: di certo ti piacerà! La fabbrica delle ragazze di Ilaria Rossetti, edizioni Bombiani, uscito nel gennaio del 2024, mi è infatti molto piaciuto. Avevo sentito parlare tempo fa di una fabbrica di munizioni a Bollate — saltata per aria nel 1918 — in un’intervista a un uomo la cui madre era una superstite e che aveva pochissimi anni al tempo dell’accaduto. Questo gravissimo incidente sul lavoro è famoso per non essere mai stato sufficientemente nominato. La fabbrica fu poi abbattuta pochi mesi dopo la fine della guerra, nel febbraio 1919, e da quel momento si rimase in attesa che morissero le testimoni e via via anche i loro parenti, perché tutto andasse nell’oblio.
Grazie alla curiosità del parroco che nel 2010 aveva ritrovato nella soffitta della chiesa di Castellazzo di Bollate una targa, posta dalle autorità nel giorno dei funerali con la scritta: Alle lacrimate vittime da improvviso turbine strappate all’affetto della famiglia nell’ore consacrate al lavoro per la grandezza della patria preci e suffragi, sono iniziate delle ricerche. Nel centenario dell’accaduto, quindi nel 2018, vi è stata una commemorazione sul luogo dove sorgeva la fabbrica, oltre a una mostra fotografica allestita dal Comune. A quel punto Ilaria Rossetti decide di scrivere il suo romanzo facendo tesoro degli scarni documenti storici esistenti, sia quelli presso l’archivio del comune di Bollate, sia quelli presso la parrocchia, dove il parroco di allora aveva registrato tutti i nomi delle vittime nel Chronicon. Grazie alla sua straordinaria capacità narrativa possiamo entrare nel 1918, ultimo anno di guerra. Utile le è stato anche l’ottimo servizio fotografico che Luca Comerio fece nel 1917 e che ben documenta la fabbrica nel suo insieme, con i vari reparti dove le donne lavoravano, dove non sorridono, ma guardano il fotografo con i loro grandi occhi e i capelli stretti in una crocchia.


La finalità del libro è quella di denunciare il gravissimo fenomeno delle morti sul lavoro e in particolare quello che fu uno dei più gravi incidenti industriali della storia d’Italia, totalmente e volutamente dimenticato, facendo memoria delle 59 vittime, quasi tutte giovani donne, oltre che delle centinaia di ferite e feriti dell’esplosione del 7 giugno 1918. Lo scoppio avvenuto alle 13,50 fermò la produzione di bombe solo per un giorno; il 9 giugno infatti, giorno dei funerali, la produzione riprese come se nulla fosse accaduto e le casse di legno contenenti le armi continuarono a essere caricate sui vagoni della ferrovia della linea Milano-Saronno che passava accanto alla fabbrica, diretta al fronte: la guerra non si poteva fermare, specie in quell’ultima fase, poco prima della grande offensiva, quella nota come la battaglia del solstizio.
Rendere la dignità alle figure che la storia aveva volutamente dimenticato e che l’autrice sceglie di far vivere narrandone le vicende umane è il grande valore di questo romanzo.

La fabbrica, di proprietà svizzera, Sutter & Thevenét, era sorta nel 1916 in località Fornace Bonelli a Castellazzo di Bollate, a poca distanza da Milano; la fornace produceva i mattoni per la costruzione dei capannoni, mentre la ferrovia era strategicamente utile all’invio al fronte di munizioni, bombe, granate e “petardi” incendiari.
Nel 1917 i reparti di produzione arrivarono a contare 40 edifici e 1300 tra operai e operaie. Lo stabilimento comprendeva reparti di lavorazione, capannoni d’innesto, depositi di stoccaggio, uffici, essiccatoi, polveriere, officina meccanica, laboratorio chimico, falegnameria, uffici della commissione d’Artiglieria collaudo esplosivi, refettorio e lavanderia. A lavorare erano soprattutto donne, per necessità, dal momento che la maggioranza degli uomini si trovava al fronte; venivano, per lo più in bicicletta, da Castellazzo, da Bollate, da Garbagnate; le più giovani avevano solo 13 anni e accanto a loro qualche ragazzino non ancora in età di leva militare. Ma i sorveglianti e i dirigenti quelli no, quelli erano tutti uomini.
Il 7 giugno 1918, un venerdì, un’esplosione devastò lo stabilimento di Castellazzo, il reparto spedizioni fu completamente sventrato. Sul posto arrivarono in decine a soccorrere le vittime.
Ernest Hemingway, allora diciannovenne volontario della Croce Rossa, dove prestava servizio come autista di ambulanze, proprio quel giorno era arrivato in treno da Parigi a Milano. Nel primo pomeriggio fu chiamato immediatamente e inviato sul luogo del disastro per prestare soccorso. La vista dei corpi di donne dilaniati dall’esplosione diventò per Hemingway un ricordo impossibile da dimenticare. Quattordici anni dopo dedicò all’incidente il racconto Una storia naturale dei morti, inserito nel volume I quarantanove racconti, pubblicato per la prima volta a New York nel 1938. Egli scrive: «Quanto al sesso dei defunti, è un dato di fatto che ci si abitua talmente all’idea che tutti i morti siano uomini che la vista di una donna morta risulta davvero sconvolgente. L’improvvisata sala mortuaria sembrava un vero carnaio; alle ore 22 il Parroco si trovava ancora una volta presso tanta desolazione per constatare de visu la morte di qualcuna delle sue giovani parrocchiane. Ricordo che dopo aver frugato molto attentamente dappertutto per trovare i corpi rimasti interi ci mettemmo a raccogliere i brandelli». Nonostante questa testimonianza però, l’incidente venne rimosso dalla memoria collettiva.
Ilaria Rossetti, giovane scrittrice nata a Lodi nel 1987, già vincitrice del premio Campiello e attualmente insegnante alla scuola Holden di Torino, come ha immaginato i fatti di quei giorni? Poiché pochissime sono le notizie sulle protagoniste, l’autrice sceglie un nome, quello di Emilia Minora dall’elenco e costruisce attorno a lei la trama del romanzo che suddivide in quattro parti: la prima è Farnweh, lontano dalla cruda realtà; la seconda è Heimweh, vicino alla realtà; entrambe costruite sulla giornata del 3 novembre 1918. Una terza parte narra i dettagli dell’esplosione e una quarta parla della distruzione della fabbrica; chiudono le note con le ricerche da lei fatte, i nomi delle vittime e le amare conclusioni sulle morti “bianche” sul lavoro che ancora oggi riempiono le cronache.
L’inizio, ovvero Farnweh, vede Martino Minora, padre di Emilia, desideroso di evadere dalle circostanze conosciute per farsi un giro in barca sul fiume Seveso. È il 3 novembre 1918, data significativa per noi che leggiamo, e i fatti si svolgono tra Bollate e Milano dove il fiume raggiungeva allora il centro storico. Lungo il tragitto vi è l’incontro con un disertore che era fuggito dal passo del Tonale, per andare a cercare una donna che gli scriveva e gli mandava pacchi con generi di conforto. Lui desidera sposarla, ma non andranno così le cose. Ogni capitolo è composto da più parti; in contemporanea si seguono le vicende di Emilia, ferita grave e curata all’ospedale Maggiore di Milano e quelle del viaggio di suo padre. È un espediente narrativo che tiene vigile l’attenzione di chi legge e fa partecipare alle vicende su più fronti.
La famiglia di Martino vive in una cascina realmente esistente, la Traversagna, dalla quale in bicicletta Emilia, di vent’anni, si recava in fabbrica; la madre e il padre allevavano animali e lavoravano in campagna e lo stipendio di Emilia rappresentava la loro sopravvivenza. A spingere Emilia in fabbrica era stato il parroco, don Antonio, amico di famiglia e amico di tutte e tutti i paesani. In questa prima parte è descritto il padre, Martino, che è un sognatore, un tenero con il desiderio di evadere per un giorno, e il suo incontro col soldato disertore. Il rapporto fra i due si trasforma e anche quando potrebbe lasciarlo, poiché sono giunti a Milano, gli sta accanto e assiste al suo incontro con la donna che lui dice di amare, ma che altro non è che una madrina, una tra le tante donne che durante la guerra supportavano i soldati al fronte. Martino assiste anche all’arresto del soldato prima di tornare alla sua cascina. La guerra è qui mostrata nel suo ultimo giorno, sta per finire, ma i personaggi non lo sanno, specie il carabiniere che insegue il disertore, detto il Drumedari, che ha un forte desiderio di punirlo. Si rivelerà alla fine il suo gran segreto, che rende grottesco e paradossale il suo comportamento… la guerra è ormai finita, ma lui è tra coloro che non ne desiderano la fine.
Il paesaggio lombardo è descritto benissimo, con le sue nebbie, lo scorrere del fiume e le verdi campagne, così come lo sono le usanze dell’inizio del novecento. Il luogo di ritrovo per tutti è la latteria del paese dove Tina vende il vino, ma serve anche tazze di minestra fumante agli abitanti che si fermano per incontrare gli amici.
Nella seconda parte, ovvero Heimweh, tutto è più realistico e tutto si inverte; Emilia è morta, anzi polverizzata, tanto che di lei non si è trovato nulla. Protagonista è Teresa, sua madre, dal carattere forte e duro che con altre donne cercano di rivendicare i diritti delle loro figlie uccise e dimenticate. Alludono anche alla possibilità che vi sia stato un sabotaggio da parte svizzera contro l’Italia (storicamente le indagini non lo hanno mai dimostrato). Teresa nutre rabbia e invidia nei riguardi di Clementina, sopravvissuta, che si proietta su sua madre, vedova con bambini piccoli da sfamare; è la difficile gestione del dolore. Sarà Clementina a sposare il farmacista, dedito alle sue numerose boccette di vetro dei farmaci di una volta, mentre nella prima parte era stata Emilia. I personaggi escono, uno alla volta con i loro caratteri e alla fine sembra di conoscerli. La Tina con le sue scarpe nuove col nastrino verde segue le vicende di tutti quelli che vengono a bere un sorso di vino da lei. È da lei che la notizia della fine della guerra si trasforma in una grande festa, con molto vino e canti fino a tarda notte.
Nella terza parte ci si addentra nel racconto realistico dell’esplosione e l’autrice lo fa attraverso gli occhi dell’americano giunto dal Michigan a Milano proprio quel giorno ed è ora al volante dell’ambulanza della Red Cross. In quell’immane disperazione lui incrociò per un attimo anche lo sguardo di Teresa Minora. Il prete, don Antonio, che stette molto tempo nel capannone dove erano stati depositati i morti, ebbe anche il compito di riconoscerne alcuni che non avevano ricevuto nessun parente. Molte donne ferite erano state portate all’ospedale a Milano e Martino Minora sperava che anche la sua piscìnina fosse tra queste, ma non era così purtroppo. I giornali minimizzarono il fatto e iniziò il lento cammino dell’oblio a cui le vittime erano destinate. A guerra finita da poco, in tre giorni, la grande fabbrica delle ragazze fu abbattuta, come se non ci fosse mai stata. Rimase in piedi solo la cabina della corrente elettrica che è ancora presente oggi, ma oggi su di essa è stato dipinto un bellissimo murale che mostra il volto di una ragazza che fa volare dei fogli bianchi, uno per ogni donna, bianchi perché di quelle donne non si sa nulla.
Oggi il romanzo di Ilaria Rossetti cerca di dare un volto e una storia a ciascuna di esse.

Ilaria Rossetti
La fabbrica delle ragazze
Bompiani, Torino, 2024
pp. 312
In copertina: il murale sulla cabina rimasta ancora in piedi dopo la distruzione della fabbrica.
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Articolo di Maria Grazia Borla

Laureata in Filosofia, è stata insegnante di scuola dell’infanzia e primaria, e dal 2002 di Scienze Umane e Filosofia. Ha avviato una rassegna di teatro filosofico Con voce di donna, rappresentando diverse figure di donne che hanno operato nei vari campi della cultura, dalla filosofia alla mistica, dalle scienze all’impegno sociale. Realizza attività volte a coniugare natura e cultura, presso l’associazione Il labirinto del dragoncello di Merlino, di cui è vicepresidente.
