Quando le comuniste mangiavano i bambini

In tempi di guerra fredda, nel passaggio dalla quinta che allora si chiamava elementare alla prima media — la scuola con tanti libri e tanti insegnanti diversi a cui non vedevo l’ora di iscrivermi, — dovetti scegliere quale lingua straniera studiare. I miei genitori mi consigliarono l’inglese, allora considerata la lingua del futuro. Nella città della provincia milanese in cui ci eravamo trasferiti c’erano solo due sezioni “British” la L, tutta femminile, e una parte della I, maschile. Scegliemmo insieme la lingua inglese e il primo giorno di scuola eravamo moltissime. Non solo due mie carissime amiche che avrei poi frequentato per tutta la vita, Anna e Gigliola, ma nuove compagne di diverse estrazioni sociali, soprattutto benestanti.
Si presentarono le nuove docenti, tutte donne. Per italiano storia e geografia avremmo avuto un’insegnante piccola e magrissima, tutta energia, frizzante, ironica, che mi piacque subito. Col tempo avrei imparato ad apprezzarla e ora, dopo circa 40 anni di lavoro come docente, posso tranquillamente affermare che quella piccola grande donna è stata uno dei modelli a cui ispirare il mio stile educativo e professionale. L’unico neo della prof. in questione era la sua appartenenza alla Sezione locale del Partito comunista italiano, dove ricopriva incarichi importanti, che allora non conoscevo. La sezione del Pci era vicina a casa mia. Allora non sapevo che cosa fosse, ma ero in grado di distinguerla dall’insegna, diversa da quella dei negozi.
Mio padre Alberto, allora cristiano-sociale, ricevette alcune strane telefonate dai genitori di alcune compagne di classe. Non capii molto, allora.
Lo avrei capito il secondo giorno di scuola: una delegazione di bambine era stata trasferita in una sezione in cui si studiava il francese. Quella “pericolosa comunista” ci avrebbe sicuramente “strumentalizzate” o quanto meno «ci avrebbe scaldato la testa». Meglio starne lontane.
Tornai a casa e raccontai tutto a mio padre il quale disse saggiamente come non fosse il caso di cambiare sezione e rinunciare all’inglese, tanto «l’avremmo tenuta d’occhio» e mi raccontò che se fossimo stati in Unione Sovietica, dove i comunisti erano al potere, ci avrebbero requisito la casa e ci avrebbero imposto la coabitazione. La nonna di cui porto il nome, che allora viveva con noi, disse invece che non era vero. Il suo ragionamento era molto semplice: se nessuno era scappato dalla “Russia” a lamentarsi voleva dire che stavano tutti benissimo (sic!).
Da brava bambina ascoltai tutto e un po’ guardinga seguii con piacere le lezioni di questa donna interessante e colta. Le ore con lei volavano e quando parlava di epica e storia rimanevo incantata.
Erano quelli gli anni della mia infatuazione per la figura di Gesù Cristo, che infilavo in ogni tema. Quell’esempio di onestà intellettuale non mi censurò mai per i contenuti dei temi.
Nello stesso anno in cui ci fu la secessione dalla classe, il parroco della ridente cittadina condusse una battaglia feroce verso un’altra donna, “rea” di insegnare “educazione sessuale a scuola”. Quella donna, che sarebbe in seguito diventata un’intellettuale, scrittrice e Maestra per tante di noi, fu allontanata dalla scuola. C’erano anche altri due docenti nel gruppo degli insegnati cosiddetti alternativi, la campagna mediatica di odio fu rivolta solo verso di lei.
Nell’arco di un anno, avevo assistito a due discriminazioni violente verso modelli di donne coraggiose. Doppie discriminazioni: di genere e politiche. Le prime di una lunga serie che avrei imparato a riconoscere.
Concluso il ciclo della scuola media, avrei frequentato un liceo classico di provincia, selettivo e severo. Più volte avrei dovuto constatare un atteggiamento molto diverso da quello della mia docente preferita nei confronti delle idee che esprimevo nei temi storici. Il docente di italiano e latino del triennio, che era un uomo e non era iscritto al Partito Comunista, spesso censurava le mie posizioni, diverse dalle sue, fortemente conservatrici. Ma nessun genitore se ne preoccupò.

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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la “e” minuscola e una Camminatrice con la “C” maiuscola. Eterna apprendente, le piace divulgare quello che sa. Procuratrice legale per caso, docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.

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