La storia indiana è fatta di leggende; le leggende uniscono il popolo, lo nutrono e lo fanno sognare. Pure io ne sono affascinata ed è per questo, credo, che sono tornata in India. Ricordo il secondo viaggio in India, quello del dicembre 2016 – gennaio 2017, fatto con Viaggi avventure nel mondo, compagnia diventata famosa tra coloro che vivono il viaggio proprio come un’avventura e che si sanno accontentare di sistemazioni semplici. Avevo deciso di tornare in India dopo qualche anno dal primo viaggio, con la stessa compagnia, scegliendo un percorso più impegnativo nell’India Centrale con parecchi spostamenti: data la distanza tra le località in programma, i trasporti erano organizzati sia col pullmino che con treni notturni. Come spesso mi accade non conoscevo nessuno dei/le partecipanti: molti di questi, invece, si erano presentati in qualità di coppie o gruppi di amici, provenienti da Torino, Varzi, Bologna e Roma, compresa la capogruppo. Quest’ultima ci aveva scritto nei giorni precedenti per darci delle informazioni, incluse richieste particolari, come quella di portare dei sacchi della spazzatura neri e una catena con lucchetto (comprendemmo poi sul posto il senso di quelle richieste apparentemente così bizzarre). Il luogo d’incontro era Roma Fiumicino, dove partiva il volo che ci avrebbe portato a Delhi, luogo della nostra prima notte. È una città abitata da 28 milioni di abitanti, la terza più popolosa al mondo. Cosa visitare in un giorno? Qui l’antico e il moderno coesistono fianco a fianco creando un affascinante ambiente culturale. Noi abbiamo visitato il Qutub Minar, il minareto in mattoni più alto al mondo, splendida manifestazione dell’epoca dei sultanati in India nel XII secolo.

Ci siamo poi recati al Forte Rosso, il più grande monumento della vecchia Delhi, costruito alla fine del 1600 per volere dell’Imperatore Shah Jahan. Si tratta di un’opera architettonica maestosa di impareggiabile valore storico, dichiarato Patrimonio mondiale dell’Umanità dall’Unesco: le sue massicce mura di arenaria rossa si estendono per circa 2 chilometri e racchiudono un complesso di palazzi, moschee, giardini e cortili magnificamente decorati. Con il nostro pulmino ci è stato indicato, lungo un viale, un giardino con un monumento al centro: è la piccola edicola che ricorda il punto in cui, il 30 gennaio 1948, Gandhi fu ucciso. È stato solo un attimo breve, ma ugualmente commovente in onore al Mahatma, la grande anima. Ci siamo diretti poi ad Agra, nell’Uttar Pradesh, dove ci attendeva la visita di un altro imponente Forte Rosso, anch’esso patrimonio Unesco: è una costruzione Moghul del XVI secolo, importante dal punto di vista architettonico, ricca, complessa, decisamente maestosa e di rara bellezza.

Il forte ha una pianta semicircolare, con il diametro parallelo al fiume che lo affianca e con mura alte 23 metri, intervallate da enormi bastioni circolari, con merli e feritoie. Il giorno successivo fu la volta di Gwalior, anch’esso per un grande forte nello stato dell’India centrale del Madhya Pradesh, costruito in stile indiano e poi Moghul dal VIII al XV secolo. È noto anche come Shunya, in sanscrito. Questo imponente sito è anche di interesse matematico, grazie a una tavoletta che ne registra la creazione, sulla quale compare l’uso più antico dello zero, in India. Il forte domina la valle e dai camminamenti si hanno viste mozzafiato. Qui, nel negozietto all’uscita, ho voluto comprare un paio di orecchini in argento che mi ricordassero di questo posto e che uso spesso. Abbiamo poi raggiunto, scendendo a sud, Khajuraho: un luogo spettacolare i cui templi, circondati dal verde, sono talmente belli che non ci si stanca di ammirarli. Sono templi medioevali induisti e jainisti, patrimonio dell’umanità, per molto tempo rimasti nascosti dalla vegetazione e riscoperti verso la fine del XIX secolo. In gran parte dedicati a divinità dell’Induismo come Brahmā, Visnù e Shiva nello stile del nord dell’India, sono costruiti con un corpus centrale e quattro santuari minori ai quattro angoli del tempio principale. L’insieme di guglie e pinnacoli, principali e secondari, danno ai templi di Khajuraho il loro aspetto unico, con uno sviluppo graduale in altezza. Questi templi sono noti per le sculture erotiche che li adornano, non situati all’interno degli edifici o vicino alle rappresentazioni delle divinità, bensì presenti solo nella parte esterna.

Molte sono le interpretazioni riguardo alle posizioni di queste sculture erotiche. Potrebbero, ad esempio, rappresentare il fatto che, per giungere al cospetto della divinità, sia necessario abbandonare i propri desideri e le proprie pulsioni sessuali all’esterno del tempio, in quanto l’Atman, il nostro sé autentico e profondo, non è affetto da nessun bisogno del corpo fisico. Solo il 10% delle statue sono a esplicito riferimento sessuale, mentre la restante parte rappresenta persone impegnate nelle attività di tutti i giorni, anch’esse abbandonate prima di entrare in contatto con la divinità.
La nostra avventura di gruppo era giunta al fatidico momento del viaggio notturno in treno, da Khajuraho a Varanasi. La stazione è un luogo caotico con moltissima gente: ricordo che correvo per rimanere accanto al gruppo ed evitare di perdermi. Mi ha colpito che sul muro della stazione fossero stati dipinti gli occhiali di Gandhi, per ricordare ai/alle passanti che è lui il fondatore del Paese e che assicura ancora la sua protezione. I treni sono vecchi, ci hanno detto che sono ancora quelli inglesi. Una volta saliti abbiamo occupato i nostri posti con cuccette a tre piani e qui abbiamo compreso il motivo per cui la nostra coordinatrice ci aveva detto di portare dei sacchi della spazzatura e la catena con un lucchetto. I sacchi avrebbero dovuto chiudere i finestrini perché non hanno quasi mai i vetri e la catena doveva assicurare lo zaino alle sbarre di ferro per prevenire i furti. Le carrozze erano stracolme di gente e i servizi igienici lasciavano a desiderare già dopo la prima ora di viaggio. Al mattino, fermi a una stazione, abbiamo visto salire dei ragazzini e delle ragazzine con in mano dei bollitori: vendevano ai viaggiatori e viaggiatrici il tè al latte, il Chai, bevanda nazionale indiana. Scendevano poi alla stazione successiva in attesa del prossimo treno, dove delle donne davano loro dei contenitori pieni, e così ogni giorno, per guadagnare qualcosa. Arrivare a Varanasi, una delle città più antiche dell’India, rappresentava per tutto il gruppo la tappa più significativa del viaggio, quella ricca di spiritualità. Alla stazione siamo saliti sui tuk- tuk, diretti verso la zona del Gange dove avevamo prenotato delle camere. L’attraversamento della città vecchia mi impressionò molto a causa delle strade strette, molto sporche e piene di gente; ai bordi molti venditori e venditrici di oggetti e di cibo fritto si sporgevano fino a sfiorarci. Abbiamo visto correre degli uomini che trasportavano verso il fiume un morto su una barella avvolto in un lenzuolo bianco. Le camere, assai modeste e dall’incerta possibilità di chiusura, erano al primo piano, ma la finestra dava sui ghat e questo le rendeva prestigiose. La nostra guida indiana era un bramino, appartenente alla prima casta, quella sacerdotale e dell’insegnamento. Ci ha condotto a fare una lunga passeggiata lungo la riva del fiume, dove sono situati molti ghat con i loro gradoni.

Gli uomini e le donne eseguono le lente operazioni di purificazione: c’è chi lava i panni nel Gange, chi si taglia barba e capelli, chi si immerge purificando anima e corpo nelle acque del fiume, c’è chi fuma, chi aggiusta la propria imbarcazione e chi medita, c’è chi aspetta la cerimonia di cremazione del proprio caro defunto e chi aspetta di morire a Varanasi — sì, perché si viene a Varanasi quando la morte si avvicina e la si attende. Il ghat principale è il Manikarnika, uno dei luoghi di cremazione più antichi e sacri di tutto l’induismo; i fedeli credono che morire qui porti alla liberazione, la mokṣa, dal ciclo delle reincarnazioni, il saṃsāra. Il cadavere viene deposto sulla pira con i piedi verso il Gange e la testa orientata verso il tempio di Shiva, con il viso rivolto verso l’alto per facilitare l’ascesa della sua anima al cielo. Per bruciare un corpo occorrono circa 2 ore e mezzo. Noi abbiamo assistito alle cremazioni che non possono essere fotografate. A esse si dedicano soltanto uomini, anche se la salma è di una donna; l’odore è forte e lo spettacolo è da brividi.

Verso sera siamo saliti su una barca per allontanarci dalla riva e poter assistere alla Cerimonia del Gangotri Seva Samiti, nel Dasaswamedh Ghat: si tratta di un rituale induista dedicato alla dea madre Ganga, il fiume Gange, che si svolge tutti i giorni alle ore 19, con fuochi che ardono nelle lampade, danze, tamburi e preghiere. Molta gente assiste a questa cerimonia che è di grande suggestione. Con un’altra avventura sul treno notturno siamo andati da Varanasi a Sanchi, nel Madhya Pradesh, dove ritroviamo il nostro pullmino che ci attende. Da qui abbiamo passato il punto del tropico del cancro, il 23° parallelo, e abbiamo visitato il complesso di Stupa: una delle strutture in pietra più antiche dell’India, del III secolo a.C., un importante monumento dell’architettura indiana buddista col tetto a forma del parasole dell’ombrello che, nell’iconografia religiosa, era simbolo della dignità regale e della potenza.

Sanchi è a 40 chilometri da Bhopal e quando ho visto il cartello indicatore non ho potuto non pensare alla tragedia industriale avvenuta nel 1984, che comportò la fuoriuscita nell’atmosfera di circa 40 tonnellate di vapori di isocianato di metile, un composto estremamente tossico che causa danni irreversibili agli organismi e che provocò circa quindicimila vittime. Si formò una nube che si diffuse sui quartieri della città in un raggio di alcuni chilometri; la storia è ben narrata da Dominique Lapierre in Mezzanotte e cinque a Bhopal. Della tragedia di quella notte rimane l’eroica testimonianza delle donne che diedero i primi aiuti, buddiste e musulmane insieme. La tappa successiva è stata Ellora, nel Maharashtra, le cui grotte sono patrimonio dell’Unesco; si tratta di un complesso di ben 34 grotte adibite a templi e monasteri, realizzate grazie a scavi nella roccia, alle pendici della montagna, che si sviluppano in profondità e non in altezza; si accede a ognuna di esse seguendo un percorso che le collega lungo la costa del monte nella quale sono scavate. La realizzazione di questi templi è dovuta alla capacità indiana di unire le tre importanti religioni: buddista, induista e giainista nel periodo dal V al X secolo d.C.


L’arte scavatoria raggiunse qui il suo apice, le grotte sono di grande imponenza e hanno anche un elevato valore artistico per le sculture e gli affreschi che riproducono storie mitologiche e delle popolazioni locali. Ma eccoci all’ultima tappa del viaggio: Mumbai, una megalopoli sul mar Arabico, salutato dal famoso Gateway of India, un arco di pietra costruito nel 1924, durante l’Impero anglo-indiano.

Lì accanto sorge il Taj Mahal Palace di Mumbai, aperto nel 1903, fiero e imponente. È il più prestigioso hotel indiano e non pensavo che ci avrebbero fatto visitare qualche ala. C’è da rimanere a bocca aperta per lo splendore, per i marmi dei pavimenti e delle decorazioni, sparse qua e là, provenienti dall’Italia, armadi e cassettoni da molte zone dell’India. Ogni oggetto, anche il più piccolo, costituiva un raffinato esempio di arte, cultura e ricerca innovativa. Lungo i corridoi c’erano vetrine di gioiellerie e oggetti preziosi per i ricchi clienti. Questo hotel subì attacchi terroristici islamici che misero sotto assedio Mumbai dal 26 al 29 novembre del 2008. Ore terribili che provocarono 195 vittime, circa 300 feriti. Il film Attacco a Mumbai del 2018, diretto da Anthony Maras con protagonista Dev Patel, ha ricostruito l’attacco terroristico e le vicende umane di coloro che l’hanno vissuto in prima persona. Nei paraggi del famoso hotel si trova anche il famosissimo Leopold cafè, un angolo di bohème nel caos della città: sono tutti europei e si incrociano i loro volti tra gli specchi di questo bar. Abbiamo bevuto anche noi una birra, per poi visitare, per l’ultimo giorno, l’esatto opposto del luogo di lusso appena visto: lo slum Dharavi, una baraccopoli situata in un’area di 2,17 km², considerata una delle più grandi al mondo e la più grande dell’Asia, con una popolazione di quasi due milioni di abitanti.

La coordinatrice del gruppo prese il contatto con una guida locale che ci avrebbe condotti all’interno la mattina successiva. Una linea metropolitana di superficie affollatissima ci ha portato nelle vicinanze dell’ingresso dello slum. Benché fosse gennaio era un giorno caldo e soleggiato, ma qui in effetti le temperature non scendono mai sotto i 25 gradi. Il villaggio è un formicaio di persone che lavorano instancabilmente e riciclano ogni cosa: carta, plastica, stoffa, pelle, producendo svariati oggetti per un giro d’affari di oltre un miliardo di dollari l’anno. Qui vi sono più di ventimila imprenditori, in uno spazio piccolissimo, i lavoratori e le lavoratrici sono giovanissime e velocissime.

C’è una zona definita per eliminare gli scarti, un vero immondezzaio maleodorante che si riversa nel fiume, denotando il confine tra lo slum e il resto della città. Qui vivono anche alcune persone che lavorano in città, spesso professionisti, in quanto gli affitti risultano molto meno cari. Abbiamo visitato anche le scuole, che possono essere sia statali, con classi numerosissime, formate anche da sessanta studenti, sia private, gestite da religiosi. Dal 2010 una legge garantisce un’istruzione primaria a tutti/e, ma sono milioni in India i bambini e le bambine che rimangono fuori dai canali di istruzione ufficiali. Spesso accade che l’abbandono sia dovuto allo scarso rendimento, causato anche dall’altrettanto scarso supporto dei genitori poco istruiti e dediti al lavoro, per garantire la sopravvivenza della famiglia. Abbiamo avuto però la fortuna di conoscere una ragazza di 23 anni che ha potuto studiare, grazie ai suoi genitori che hanno fatto molti sacrifici affinché questo accadesse.
All’uscita abbiamo ricevuto un biglietto da visita con le informazioni per fare ordinazioni online dei loro svariati prodotti. La visita allo slum è stata molto arricchente sul piano umano, più che leggere un libro di sociologia. Con le ultime rupie in tasca abbiamo acquistato spezie che aggiungeranno un po’ di aroma indiano alla nostra cucina italiana.
In copertina: Forte di Gwalior.
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Articolo di Maria Grazia Borla

Laureata in Filosofia, è stata insegnante di scuola dell’infanzia e primaria, e dal 2002 di Scienze Umane e Filosofia. Ha avviato una rassegna di teatro filosofico Con voce di donna, rappresentando diverse figure di donne che hanno operato nei vari campi della cultura, dalla filosofia alla mistica, dalle scienze all’impegno sociale. Realizza attività volte a coniugare natura e cultura, presso l’associazione Il labirinto del dragoncello di Merlino, di cui è vicepresidente.
