A febbraio di quest’anno mio marito ha acquistato una jeep Mitsubishi Pajero del 1989, per mesi ha cercato di revisionarla e, per provarla mi ha proposto un viaggio, anche abbastanza impegnativo, vista la forza e la robustezza di questa vettura, che forse le auto di oggi non hanno. Ho immaginato un viaggio nei Balcani, nel mese di giugno, ho prenotato i biglietti per le navi e gli alloggi per le notti di un percorso ad anello che da Ancona ci avrebbe portato a Spalato in Croazia, a Mostar e a Sarajevo in Bosnia Erzegovina, in Montenegro, in Albania e da qui all’ isola di Corfù, infine a Bari per il rientro.
Spalato è una bella città sul mare, la Dalmazia veneziana di un tempo, la Croazia di oggi. Proprio sul mare è visitabile quel che resta del palazzo dell’imperatore Diocleziano a forma quadrangolare e patrimonio dell’umanità.

L’imperatore fu un grande persecutore dei cristiani, prima che Costantino venisse a cambiare il corso della storia. Lasciata Split ci dirigiamo verso Mostar in territorio bosniaco. L’interesse di tutti i turisti e anche nostro non può che essere il famoso ponte in pietra ad arco che unisce due parti della città divisa dal fiume Neretva, dall’acqua color smeraldo. Mentre mi trovavo in cima al ponte alcuni giovani hanno fatto calare la bandiera della Palestina e poi uno dei ragazzi si è tuffato nel fiume, come è uso fare dalle loro parti.

Il ponte è un forte simbolo di unità e questa città è stata testimone di una crudele lotta per mantenere l’unione tra le diverse etnie che convivevano da molto tempo, ma che il nazionalismo serbo aveva tentato di distruggere. Il ponte è stato infatti distrutto nel 1993, ma poi ricostruito identico all’originale del XVI secolo. Siamo poi ripartiti in direzione Sarajevo, dove avevamo una prenotazione per la notte. Il paesaggio tra le due città è leggermente montuoso e molto verdeggiante. Ero emozionata di giungere a Sarajevo di cui mi erano rimasti impressi, nel periodo della guerra, i reportage dell’inviato del Tg1 Ennio Remondino. Ricordavo del lungo assedio, ma volevo conoscere meglio la situazione. Per questo avevamo prenotato una guida per il giorno dopo. L’ingresso in città mostrava palazzi con ancora i segni dei proiettili e colpi di mortaio, li aveva anche il palazzo dove c’era il nostro appartamento al terzo piano. L’atmosfera della città mi è subito piaciuta, molto vivace, piena di murales, bar, edifici antichi del periodo austriaco accanto a palazzi recenti del periodo socialista, chiese cristiane ortodosse, ma anche cattoliche accanto a svelti minareti di moschee musulmane; un vero esempio di convivenza tra differenti etnie. Fu proprio questo aspetto a essere stato minato pesantemente quando, all’indomani della proclamazione della Bosnia Erzegovina come Stato autonomo, i serbi hanno avviato una pulizia etnica al fine di ricostruire la Grande Serbia. È iniziato così l’assedio alla città che fu il più lungo della storia recente, più di quello di Leningrado e di Stalingrado; 1425 giorni in cui la città rimase quasi senza acqua, senza cibo, senza energia elettrica, senza gas, senza medicinali e continuamente sotto gli attacchi di mortai e dei cecchini che dalle postazioni dei rilievi circostanti potevano colpire la città; dai piani alti dei palazzi i sarajevesi rispondevano al fuoco.

Vedrino, la guida che parla italiano, ci ha spiegato bene la situazione che lui ricorda, poiché aveva 21 anni quando la guerra iniziò. Ci ha accompagnato con la sua auto nei punti strategici per comprendere i fatti. Abbiamo percorso il lungo viale dei cecchini dove corre un tram che unisce i due estremi della città lungo il fiume, la Miljacka, in direzione dell’aeroporto perché è proprio lì che si trovava il tunnel che ha salvato la città. Sotto alla pista dell’aeroporto fu possibile scavare poiché era zona protetta delle forze Onu; si scavò per quattro mesi nel 1993, così che nel luglio di quell’anno due uomini sotto terra poterono stringersi la mano. Da quel giorno passarono a senso unico alternato persone con cibo, medicinali e generi di prima necessità, soldati, armi, nafta, sigarette; mediamente 4000 persone al giorno con 50 kg di materiale a testa, ma spesso con l’acqua alle caviglie che difficilmente si poteva prosciugare.

Questo tunnel, della lunghezza di 800 metri, ha avuto un’importanza vitale per la città poiché era un collegamento con una zona non serba. Con la firma a Dayton, negli Stati Uniti, del novembre 1995 la guerra a Sarajevo ebbe fine. Vedrino ci disse che un grave problema durante la guerra fu quello di trovare posto in città per i cadaveri, considerando il fatto che loro lasciano il monumento funebre per sempre.

Infatti in Sarajevo si trovano molti cimiteri con stele bianca per i musulmani, in marmo nero per gli ortodossi e in marmo bianco per i croati cattolici. La nostra guida ci disse che fu sacrificata una zona sportiva della città, quella che era stata teatro di olimpiadi invernali, nel 1984. Ci portò, prima di salutarci, nel punto simbolico della sua città, la fontana di legno a cui tutti possono abbeverarsi, perché l’acqua è per tutti e tutte. Da quella fontana inizia una zona ottomana ricca di negozi, di ristoranti tipici dove abbiamo ammirato il lavoro di alcuni anziani fabbri che costruiscono con le loro mani quei bei servizi da caffè in rame.

Vedrino ci ha consigliato la visita al memoriale del genocidio di Srebrenica, proprio nell’anno del suo trentennale avvenne, dal giorno 11 luglio e seguenti del 1995, un massacro di 7000 uomini musulmani e lo stupro di migliaia di donne che si credevano protetti dai caschi Blu dell’Onu e che invece furono ingannati e condotti a morire. Nel memoriale ci sono molte foto, dei video, dei poster che l’auto guida in italiano ha consentito di comprendere fino in fondo. I due giorni a Sarajevo rimarranno indimenticabili nel cuore. Ora ci dovevamo dirigere in Montenegro, terra dal paesaggio meraviglioso fatto di alture, canyon con fiumi sul fondo, alberi in fiore e tanti punti di vendita di miele e liquori fatti in casa dagli abitanti.

Abbiamo raggiunto con una impegnativa serpentina un altopiano, il parco nazionale del Durmitor, di una bellezza sconvolgente, dove ancora non c’è traccia di turismo. Si trova a 2000 metri, con poche casette sparse di anziani che vendono miele, liquori e formaggio e con molti cespugli di rosa canina in fiore lungo il sentiero. Piano piano, scesi dal passo, siamo arrivati ai villaggi con zone turistiche costituite da casette recenti, tutte uguali con tetto spiovente; proprio una di quelle sarebbe stata la nostra dimora per la notte.

A gestire l’accoglienza turistica c’erano due ragazze, gemelle, felicissime di incontrare gli italiani. Ci hanno servito la cena e la colazione con i prodotti biologici della loro fattoria che ha l’orto, gli animali e il servizio ristoro per la stagione estiva, il tutto a prezzi modici per noi italiane/i. Il giorno dopo avevamo in programma la visita al monastero ortodosso di Ostrog del XVII secolo, incastonato verticalmente nella roccia a picco sulla pianura. Molti pellegrini salgono per accendere quelle candele sottili al santo, san Basilio di Ostrog che visse in queste zone.

Il piccolo monastero è decorato con affreschi e mosaici relativi a fatti biblici. Si ridiscende per raggiungere le bocche di Kotor, sul mare che sono meravigliose. Le montagne che circondano la baia creano uno scenario davvero unico con fiordi visitati da molte imbarcazioni. Il centro della città è preso d’assalto dai turisti e dalle turiste, comprese quelle che scendono dalla nave crociera e che ripartiranno poco dopo. L’atmosfera è quella delle città veneziane, a una porta d’ingresso ci saluta, infatti, immancabile il leone di San Marco.

Molto bella la cattedrale di San Trifone, di rito cattolico, inaugurata nel 1166. È in stile romanico con elementi bizantini, possiede uno dei rari ciborii tempietti sopra l’altare destinato a proteggere la pisside, ma vi è anche, sul pavimento, un labirinto policromo in marmo, elemento medioevale, simbolo archetipico del cammino della vita. È anche possibile salire nel matroneo e avvicinarsi al rosone.

L’uscita dalla città comporta una salita molto panoramica con tornanti impegnativi che conducono al confine con l’Albania e quindi alla nostra successiva meta: Theth, sulle alpi albanesi.
A Theth avevamo una prenotazione per due notti per poter godere del fresco della zona che offre belle passeggiate. Ottima sistemazione, molto cordiali i gestori, buono il cibo: una vera sorpresa per chi, come noi, non aveva mai visitato l’Albania. Io, in realtà ci avevo provato nell’agosto del 1980, ma la dittatura ne impediva categoricamente l’accesso; grande è stata quindi la mia gioia nello scoprire questa terra che ho trovato molto ospitale. Con una passeggiata, a pochi chilometri dall’albergo, mi sono trovata in fondo valle dove si può visitare una chiesetta con copertura in legno della fine dell’Ottocento, che reca una lapide a ricordo di un prete che nel 1917 avviò una scuola per gli abitanti della zona.

Seppi poi che l’Albania del nord ha avuto influenze cattoliche, mentre l’Albania del sud quelle ortodosse. Ma ecco giunto il giorno di lasciare Theth alla volta di Scutari. Nel guardare la mappa la cosa può apparire normale, ma l’indicazione che nostro figlio ci aveva consegnato riservava una vera sorpresa: si trattava di un sentiero sterrato, impervio e molto lungo che conduceva a valle, fattibile solo con jeep 4×4. Alle mie inutili proteste non restava altro da fare che avviarci verso l’ignoto, un meraviglioso e al contempo pauroso ignoto! 70 chilometri tra dirupi, ghiaia e silenzi profondi, senza protezioni. La strada affiancava un fiume dall’acqua purissima, sulle cui rive c’erano fiori che non credo d’aver mai visto, ai lati montagne verdi senza nessuna abitazione.

Appena le vertigini mi davano tregua facevo delle foto ma i tornanti erano così stretti che obbligavano mio marito a sforzi disumani; non conoscendo di preciso la durata del percorso, esso ci sembrava infinito finché un’insegna di un rifugio contadino ci apparve come un miraggio. Un ragazzino e sua madre gestivano il locale, ci hanno preparato un caffè e, con mia grande meraviglia ci hanno raccontato di clienti che vengono anche in inverno lì da loro dormendo per terra, per percorrere quella strada così rischiosa e gustare della natura incontaminata. Ci attendeva ancora un’ora di off-road prima di raggiungere la civiltà della zona pianeggiante; non avevamo incontrato nessuno in più di due ore, se non alla fine due motociclisti che facevano il percorso al contrario. Chi ama l’avventura si augura che questa strada non venga mai asfaltata, perché mantenga il suo fascino senza tempo.
Da Scutari ci siamo diretti verso le ultime due tappe albanesi, Berat e Argirocastro che sono due cittadine antiche. La prima è molto antica e di formazione ottomana, inserita nel patrimonio mondiale dell’Unesco per il suo centro storico ben conservato, chiamato “dalle mille finestre” sovrapposte che, illuminandosi alla sera, creano veramente un bel fascino. Anche qui si nota l’accostamento di chiese ortodosse e moschee e, parlando con la gente, ci hanno confermato che la differenza religiosa, spesso presente anche nelle singole famiglie, non è motivo di discordia.

La sera un viale illuminato pieno di gente che passeggia e che si ferma a bere o mangiare qualcosa rende la città piacevole e vivace. Qui ho potuto acquistare un berretto in lana bianca tipico dell’Albania, il plis, che me la farà ricordare. Ci attendeva l’ultima tappa del nostro viaggio nei Balcani, Argirocastro, verso il sud del paese. Anch’esso patrimonio dell’umanità per le sue antiche origini greche, romane, bizantine, turche e poi albanesi. I tetti della città vecchia sono in pietra; essi hanno vissuto le molte vicissitudini storiche recenti. In Albania quasi tutte le persone parlano in italiano e questo mi ha permesso di chiedere loro qualche ricordo. Un uomo di quarant’anni mi ha parlato di suo nonno che aveva subito l’occupazione italiana nel’39, poi quella delle truppe greche e, in seguito all’8 settembre ’43, la dominazione tedesca e infine la dittatura di cinquant’anni. All’inizio degli anni ’90, appena liberati, moltissimi avevano lasciato il paese andando o in Italia o in Grecia a cercare lavoro. Mi ha raccontato che suo padre andando in Grecia si era trovato così spaesato da non conoscere cosa fosse una banana, perché in Albania, chiusa a tutto e a tutti, dovevano vivere solo di ciò che produceva il territorio. Nella sua Guest Hause abbiamo dormito al fresco, ma soprattutto abbiamo cenato meglio che in un ristorante: tutto cibo di loro produzione, totalmente biologico.
Il viaggio nei Balcani si andava concludendo; una sosta a Corfù e un ritorno da Bari avrebbe completato il giro; la vecchia jeep Pajero ha resistito più di una giovincella e ci ha permesso di gustare territori di cui porterò la dolcezza nel cuore.
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Articolo di Maria Grazia Borla

Laureata in Filosofia, è stata insegnante di scuola dell’infanzia e primaria, e dal 2002 di Scienze Umane e Filosofia. Ha avviato una rassegna di teatro filosofico Con voce di donna, rappresentando diverse figure di donne che hanno operato nei vari campi della cultura, dalla filosofia alla mistica, dalle scienze all’impegno sociale. Realizza attività volte a coniugare natura e cultura, presso l’associazione Il labirinto del dragoncello di Merlino, di cui è vicepresidente.
