«[…] Se inizio a sentirmi vittima, mi ammazzo. Non so come dire. Cioè… non me lo posso permettere. Vivo questa situazione [di fuoriuscita dalla violenza messa in atto su di lei dal suo ex marito] come una persona che ha un tumore e che combatte… come un tumore di tipo cronico e combatte perché vuole vivere. Ogni volta che c’ho un momento brutto magari vado molto giù, anche tanto. […] Poi, ecco, ringraziando il cielo, sono dei down che poi mi portano per una serie di cose a stare meglio. Però, vittima, no. […] Se io fossi vittima non avrei neanche la forza».
Sono tante le testimonianze da cui sarei potuta partire; tutte meritevoli di essere messe in primo piano, e, magari, se solo riuscissimo a dire la violenza sulle donne utilizzando le parole giuste — ovvero restituendo voce a coloro che l’hanno subita o la subiscono — di essere stampate a caratteri cubitali sulle prime pagine dei giornali. Ahimè, quest’ultimo obiettivo sembra ancora lontano dall’essere raggiunto ma, per fortuna, a colmare l’inaccettabile silenziamento ci hanno pensato due donne: Flaminia Saccà e Rosalba Belmonte, sociologhe e professoresse presso l’Università La Sapienza di Roma. Infatti, è con l’obiettivo di restituire voce e dignità alle donne vittime di violenza che nasce Sopravvissute: la violenza narrata dalle donne (Castelvecchi, 2022).
A orientare l’idea che sottende e guida il lavoro, vi è la consapevolezza che la violenza maschile contro le donne, in quanto fenomeno sociale legato ai ruoli e alle forme di relazione stabilite socialmente sulla base del genere, non «risiede solamente nell’oggetto di una narrazione, ma anche nella narrazione stessa, che costituisce uno strumento […] fondamentale per attribuire un senso all’azione sociale. […] La pratica sociale e discorsiva costituita dalla narrazione permette, quindi, di costruire la realtà a partire dal punto di vista del soggetto che la racconta e, allo stesso tempo, fa sì che sia quest’ultima a fornire connessioni e schemi interpretativi, riaffermando e ricostruendo così la propria identità e la propria storia». Il processo di riconoscimento e valorizzazione del vissuto esperienziale di queste donne passa anche attraverso l’attribuzione di potere e agentività e si concretizza già a partire dalla scelta lessicale compiuta per il titolo. Il termine sopravvissute, in luogo di vittime — dal latino victĭma: «chi soccombe all’altrui inganno e prepotenza, subendo una sopraffazione, un danno, o venendo comunque perseguitato e oppresso» — è allora impiegato col fine di scardinare la narrazione dominante che relega le donne al ruolo di soggetti passivi, cristallizzando quella che è una condizione temporanea a status permanente, per dare atto della battaglia per la libertà che le donne hanno intrapreso contro la violenza subita e contro colui che l’ha messa in atto (Belmonte, Saccà; 2022).
Sopravvissute è una raccolta di testimonianze di dieci intervistate, donne di diversa estrazione sociale, provenienza ed età, che si sono rivolte all’Associazione Differenza Donna per chiedere aiuto e trovare supporto nel percorso di affrancamento dalla spirale della violenza. Nello specifico, il campione è composto da nove italiane che hanno subito violenza domestica e una donna di origine straniera sopravvissuta alla tratta e alla prostituzione. Attraverso domande inerenti la storia personale, a figlie e figli, all’esperienza della violenza, giudiziaria e con il centro antiviolenza e mediante un confronto sul progetto Step — Stereotipo e pregiudizi. Per un cambiamento culturale nella rappresentazione di genere in ambito giudiziario, nelle forze dell’ordine e nel racconto dei media — vengono investigate cinque principali questioni di interesse: la donna e la sua identità dopo l’esperienza della violenza; l’esperienza della violenza, i condizionamenti che produce nella vita personale e la difficoltà di uscirne; la fuoriuscita dalla violenza e gli attori sociali e istituzionali coinvolti; l’autore della violenza, ovvero le descrizioni che le donne fanno degli uomini che hanno fatto violenza contro di loro; figlie e figli, ossia la funzione limitativa o esortativa che gli stessi possono esercitare sulla decisione della madre di lasciare il padre/partner violento. In merito alla prima area tematica, dalle interviste emerge la tendenza piuttosto comune per cui le donne addossano su di sé, piuttosto che sul carnefice, la colpa dei maltrattamenti subiti: «Mi piegava le mani, me le torceva, mi prendeva il ginocchio, mi storceva il ginocchio. Non lo so… Piegamenti del braccio. Non li individuavo come violenza perché io avevo sempre pensato alla violenza come le percosse e, quando me ne lamentavo, che magari mi faceva male… l’unica cosa che mi sapeva dire è che ero io a provare dolore perché ero marcia. Quindi, ero pure colpevole di questo».
«Una sera come tante tornò, cenò tardi. […] Io mi ricordo che mi alzai perché dovevo allattare e vidi i piatti della cucina lasciati in giro. Gli dico: “Ma tu trovi la casa pulita?! Ma hai mangiato?! Rifai… Sono tre cose che devi togliere”. E lui si arrabbiò tantissimo perché io lo svegliai per dirgli questa cosa. Io mi inalberai in quel momento. […] E lui, lì, a quel punto mi diede tre cazzotti […] sulla testa…! In una maniera talmente forte che io pensai… oddio… credevo di avere avuto un trauma. […] Pensai: “Questo mi può ammazzare. Cioè, facilmente!”. Rimasi sveglia tutta la notte, perché avevo paura di andare a dormire. […] Lui rimase accanto a me, poi, dopo un po’, si rese conto: “Ah sì, scusa… Dove siamo arrivati? Dove mi porti?”. Sempre colpa mia».
Il senso di colpa percepito è una delle conseguenze dell’annientamento di sé che la violenza comporta, insieme al senso di vergogna e al deterioramento cognitivo della vittima. Quest’ultimo è anche il risultato della condizione di confusione che la donna vive nel momento della cosiddetta fase della “luna di miele”, ovvero quando, dopo la “costruzione della tensione” — il riferimento è al momento in cui il maltrattante inizia a esercitare forme di violenza psicologica e di controllo — e “l’esplosione della violenza” fisica, l’uomo violento, apparentemente pentito, assume un comportamento premuroso e affettuoso (Walker; 1989).
«Quando poi ho capito che di fronte a questa violenza che lui aveva perpetrato per un anno con grande tranquillità, io non avevo strumenti… provai a chiamare anche il Numero Rosa, però mi vergognai. […] Andai anche sul sito. Scrissi una mail […]. Io provai a fare, ma mi vergognavo. Non sapevo come fare. Ma, soprattutto, mi sentivo in colpa. Mi dicevo: “Forse è colpa mia”. Mi aveva tolto la sicurezza».
Come si evince dalle testimonianze riportate, nonostante la consapevolezza degli abusi subiti, scegliere di allontanarsi dal proprio carnefice e decidere di iniziare un percorso di fuoriuscita dalla spirale della violenza non è semplice. La paura di un’esacerbazione della violenza, lo scarso sostegno del proprio intorno familiare e amicale, il valore positivo che la donna attribuisce al proprio ruolo di madre, moglie o compagna e la possibile mancanza di indipendenza economica influiscono negativamente sull’iniziativa ad agire. Non di meno, sulla decisione della donna, svolgono un ruolo decisivo anche gli attori sociali e istituzionali. Con specifico riguardo per le forze dell’ordine e il sistema giudiziario, le intervistate riportano esperienze positive per quanto concerne la giustizia penale — fatto salvo per il procedimento civile — e, invece, valutano negativamente l’operato di poliziotti/e e carabinieri/e, soprattutto sul fronte dell’ascolto, dell’accoglimento della denuncia e dell’intervento, colpevoli, molto spesso, di “cecità cognitiva” e di disinformazione rispetto agli strumenti di supporto: «[…] Sono arrivati i carabinieri… e i carabinieri passavano davanti casa ma non si fermavano. Senonché la ragazzina [sua figlia], in ciabattine, ha perso le ciabattine per strada per corrergli dietro per fermarli. Uno dei carabinieri è rimasto in macchina, l’altro maresciallo è sceso. Lui [l’ex marito] gli ha mostrato la carta d’identità [indicante la sua posizione professionale di militare]. Nel frattempo, il carabiniere chiedeva a me chi ero e… lui ha chiamato i suoi legali e ha passato il telefono al maresciallo… Gli avvocati gli dicevano che io fingevo. Io stavo ancora per terra, sporca… E l’unica cosa che ha fatto è stata che ha messo in attesa il telefono e agli avvocati gli ha detto di attendere un attimo. Gli ha chiesto di attendere un attimo, mi ha guardato e mi fa: “Ce la fa ad andare al Pronto Soccorso da sola?”. Perché se avessi chiamato l’ambulanza sarebbe stato un aggravante… Mia figlia mi ha aiutato a mettermi le scarpe e siamo andate, lei è voluta venire con me perché aveva paura che da sola in macchina stavo piegata in due… e siamo andate al Pronto Soccorso».
In riferimento all’autore della violenza, ciò che emerge dalle interviste è la tendenza a considerarlo non come un criminale ma come una persona bisognosa di aiuto e il desiderio di garanzia di protezione e sicurezza per sé stessa piuttosto che di rivalsa e punizione nei confronti del maltrattante: «È un poveraccio!».
La presenza di minori può costituire un deterrente importante all’azione reattiva della donna. In questo caso, a incidere profondamente sono la possibilità di perdere la custodia di figli o figlie o la probabilità che il maltrattante inizi ad attuare violenza anche su di loro. Inoltre, le donne potrebbero rinunciare ad allontanarsi dal loro carnefice per paura che i minori possano subire traumi di natura relazionale e sociale. Allo stesso tempo, la prole può rappresentare un’esortazione alla fuga: «[…] Un giorno trovo il bambino completamente… tumefatto sul viso… Chiedo cos’è successo in modo, insomma, allarmato e mi risponde che era caduto dal carrello al supermercato; […] però il bambino finalmente parla: “Non è vero, sei stato tu”. Quindi io prendo tutto e scappo».
Tutte le intervistate concordano sul ruolo fondamentale che hanno svolto le professioniste di Differenza Donna, associazione nata nel 1989 per rivendicare la nascita dei centri antiviolenza al fine di sostenere le donne nell’uscita definitiva dalla violenza. Attraverso la metodologia della relazione fra donne, le diverse professionalità coinvolte (psicologhe, mediche, assistenti sociali, avvocate, ecc.) si impegnano a supportare le vittime in un percorso di realizzazione di sé, offrendo loro assistenza telefonica, colloqui di accoglienza, consulenze legali di primo livello e, tra le altre, affiancamento nel processo giudiziario e ospitalità nelle case rifugio. In merito, tutte le sopravvissute sono d’accordo sulla necessità di potenziare tali strutture perché consapevoli che, attraverso il percorso offerto in esse, non solo si aiutano ma si salvano le donne!: «Il centro antiviolenza è stata la porta che finalmente si apriva con la luce proprio. Veramente. […] È stato l’àncora di salvezza».
«Con il centro antiviolenza mi hanno aperto un mondo —, io mi sono resa conto, dopo i primi incontri con la psicologa eccetera, che vivevo in bianco e nero. Io ricorderò sempre il giorno che per la prima volta ho visto i colori».
Sopravvissute è un libro che deve essere letto… nessuna eccezione. Serve per rinfrescarsi la memoria tutte quelle volte che neghiamo la brutalità umana e disconosciamo la resilienza femminile. Ascoltare le voci di queste donne, e valorizzarne il vissuto, è un dovere che abbiamo nei loro confronti e in quello di tutte le altre. E, soprattutto, dobbiamo prendere atto della loro forza e determinazione, partendo da qui: non vittime ma sopravvissute.
«Non mi piace definirmi vittima, perché io ce l’ho fatta! […] Io sono viva!».

Flaminia Saccà, Rosalba Belmonte
Sopravvissute: la violenza narrata dalle donne
Castelvecchi, 2022
pp. 316
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Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.
