Maria Giudice. Una pasionaria socialista 

«La donna è nel suo diritto quando prende parte alla lotta della scheda» scrive Maria Giudice, socialista intransigente, maestra, scrittrice e giornalista lombarda di fine Ottocento, in uno dei suoi primi articoli, pubblicato nel 1902, sul quindicinale socialista La parola dei lavoratori. Prossimi alle celebrazioni dell’ottantesimo anniversario del riconoscimento del diritto di voto alle donne in Italia, il libro di Maria Rosa Cutrufelli, Maria Giudice. Vita folle e generosa di una pasionaria socialista, edito da Neri Pozza nel 2024, si trasforma in un doveroso tributo a una «militante infaticabile, una missionaria del socialismo» quale è stata appunto Maria Giudice. 
Otto fotografie «senza cornice» — tanti i capitoli del libro bastano all’autrice per delineare «uno spirito eclettico e in anticipo sul suo tempo»; otto immagini — una per capitolo — per tentare, attraverso la narrazione delle avventure di una donna che si sottopose a una disciplina ferrea, un affresco delle donne che, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, si sottrassero al ruolo di mogli e di madri, custodi del focolare domestico, e si lanciarono nel mondo della politica. 

Maria Giudice di Cutrufelli è una biografia che si svolge a mo’ di racconto, in cui il dato storico biografico viene inserito all’interno di una cronaca dalla leggerezza giornalistica di ascendenza calviniana. Il testo è un susseguirsi di nuclei narrativi affrescati sullo sfondo — l’assassinio di Muzio Mussi e i soldati di Bava Beccaris che sparano a cannonate sulla folla, a esempio — sui quali si stagliano netti quelli che riguardano Maria Giudice, quelli che sembra taglino la Storia italiana, fra XIX e XX secolo, con un fendente, lo stesso attraverso il quale Maria svolta di continuo nella sua vita, un vero e proprio «apostolato frenetico» in cui ogni gesto, dominato dal mito personale della volontà, converge «verso il popolo», in suo favore. 
Frasi nominali e stile prevalentemente paratattico riproducono, dal punto di vista sonoro, il ritmo delle azioni da colpo di sciabola di questa donna che «quando parla […] con gli uomini, [ha] una voce forte», che disdegna la cavalleria — chiara restituzione dello stato di inferiorità femminile — e che rimprovera ai socialisti di essere “poco socialisti” quando si parla di donne. Alla fine di ogni pagina, si è quasi presi dal turbamento che Giudice, certa della redenzione della miseria morale oltre che materiale e convinta dell’amore come fatto intimo che non necessita di forme esteriori, sia sul punto di soccombere e che il resto della storia non riguardi più lei; si è portati a pensare che quella profezia di Anna Kuliscioff a proposito di questa donna «fuori dalla logica comune» — «credo che finirà in manicomio» — stia per avverarsi a ogni punto fermo, alla fine di ogni paragrafo. E, invece, Maria torna sempre, sfogliando pagina dopo pagina, come quando, contrariamente a ogni aspettativa, supera l’esame di ammissione per frequentare la Scuola Normale e si apre la via all’insegnamento, o come, ogni volta che la vita sembra portarla lontano dalla politica, lei evita la deriva perché la politica è una «chiave di accesso al mondo» e vivere senza politica «è un tempo soffocante», privo di senso. 

È scrupolosa Cutrufelli nel rispettare la verità del dato storico e nello stabilire tutta la distanza fra questo e il romanzo: da «profana» della storia, quale si definisce, ricorre ai rapporti dei prefetti per illuminare «certi lati oscuri della militanza di Maria»; si interroga sul senso dell’espressione «storia dal basso» e su quanto Maria Giudice, in base a essa, sia un «personaggio singolare»; chiama in causa gli storici e quelli che si sono occupati di Giudice in particolare, come Vittorio Poma, autore del libro Una maestra fra i socialisti, edito da Laterza nel 1991; non fa mistero dei lati oscuri che ancora avvolgono la vicenda umana di Maria e che ne fanno una biografia leggendaria, come l’impossibilità di stabilire in che modo lasci il carcere per esiliare in Svizzera o il motivo per il quale non fa più ritorno a Codevilla, il suo luogo natale o, ancora, le circostanze per le quali raggiunge la Sicilia dopo la fine della Grande guerra; esprime dubbi e lascia aperto il terreno delle possibilità (Carlo Civardi, primo compagno di Maria Giudice, può essere considerato o meno eroe di guerra?); ricorre ai virgolettati delle testimonianze dirette senza intaccare la levità del romanzo biografico; attinge dai quotidiani come Il Corriere della Sera; non tralascia l’aneddotica storica, come quando riferisce dell’esperienza di Dario Papa il quale è andato a New York a studiare i giornali e ha notato che, mentre i giornalisti italiani sono una «truppa di professori», quelli americani, invece, una «truppa di soldati». 
È una storia in cui l’autrice rivendica uno spazio di intervento tutto suo; presenzia alla scrittura con vere e proprie “incursioni espressive”: «… capisco molto bene, lasciatemelo dire»; «Se è come penso…»; «E qui magari vale la pena di ricordare…», quando richiama l’attenzione sul tema dell’autorizzazione maritale; «A me sembra…» se, invece, vuole disquisire sul grado di eccentricità della vita di Maria; «E io non ho altro da aggiungere», l’espressione con la quale vuole chiudere la partita sul valore che assumono alcune azioni compiute da Maria e che lascia intravedere quasi quanto la stesura di questa biografia sia la risposta a una sua esigenza di indagine personale piuttosto che una restituzione al lettore di quanto si è arrivati ad apprendere. 

Il procedimento narrativo è quello dalla foto a tutto campo, dalla panoramica fino ad arrivare al dettaglio: dalla Pavia degli ultimi anni dell’Ottocento, a esempio, alle scuole, alla scuola intitolata ad Adelaide Cairoli, alla scuola che ha frequentato Maria. E tale strategia espositiva produce un ribaltamento di piani nel lettore che, a sua volta, dal particolare — la vita di Giudice — può ampliare lo sguardo su una serie di temi che investono tutto il mondo femminile del tempo e moltiplicare lo spazio della riflessione. Così, dalla scuola che frequenta Maria, il lettore può tornare al problema dell’istruzione per le bambine dopo le scuole primarie: una vera e propria voragine legislativa di quegli anni, che preclude all’universo femminile ogni possibilità di istruzione superiore. Ed è con questa tecnica che Cutrufelli scrive contemporaneamente la storia di Maria Giudice e insieme di tutte le donne della sua epoca. 
Il gioco caleidoscopico, che trasferisce continuamente il racconto dal generale al particolare e produce riflessioni dal particolare al generale, viene spesso interrotto da ampie parentesi a carattere divulgativo, sempre fedeli all’agilità del dettato. È quanto accade nelle pagine in cui si parla di Angelica Balabanoff, anch’ella un’anima inquieta e sempre alla ricerca di una nuova battaglia, anch’ella riluttante ad accettare di essere definita “femminista” o quando ci si attarda sulla realtà politica e sociale della Sicilia che la vede compagna di Peppino Speranza. 
Ne viene fuori un ritratto monolitico di Maria, di donna abituata a una disciplina ferrea: una pacifista intransigente, al punto da mandare all’aria la sua prima unione e di essere arrestata e condannata a tre mesi di carcere per propaganda antibellica nel 1916; una socialista tanto riformista quanto rivoluzionaria perché, a suo dire, le riforme possono essere rivoluzionarie così come le rivoluzioni, quando vanno a segno, sono sempre riformiste; una «che si getta nella mischia politica con lo stesso ardore di un uomo» e che, per questo, agli occhi del mondo sembra sparire come madre. Maria che, da sua madre eredita la passione per la lettura e la scrittura e da suo padre, un ateo che porta al collo il fiocco nero dei repubblicani, il senso morale dell’azione politica, è, inaspettatamente, “una madre”. Inaspettatamente perché, come appunto ha notato lo storico Poma, le idee progressiste di una militante come Maria Giudice mal si conciliano con l’immagine di donna prolifica e custode del focolare domestico. Al pari di Poma, Cutrufelli intravede nell’«ingordigia di maternità» di Maria, che genera dieci figli in tutto tra morti e sopravvissuti, un segno di indipendenza di Giudice dal Socialismo. Eppure, la giustificazione a questa “ingordigia”, in chiave quasi ossimorica, potrebbe essere in quell’aggettivo del sottotitolo del libro, “generosa”: le azioni di Maria sono sempre in favore del popolo, degli altri e, fra gli altri, ci sono i suoi figli che Maria è convinta non le appartengono perché «i genitori non hanno alcun diritto d’imporsi sui figli e menomarne l’individualità». Partorire, per Giudice, potrebbe essere, come quando agisce, un atto di generosità, l’elargizione del dono più prezioso: la vita. Del resto, in Sicilia, è nota come la «Samaritana» che disseta gli altri col vino della propaganda. Maria è una donna dal pensiero radicale e non estremista: al processo in cui deve difendersi dall’accusa di insurrezione contro i poteri dello stato, prendono le sue difese i compagni socialisti e lo stesso Gramsci il quale rassicura il collegio giudicante che l’accusata non ha mai fatto parte della fazione degli estremisti e non ama le azioni violente; al Congresso di Livorno, sebbene non ami la posizione di Turati, non è convinta neppure delle posizioni estremiste degli scissionisti. In tal senso, la vita di Maria Giudice apre a significative valutazioni anche su quanto accade nel mondo contemporaneo: la confusione che si produce tra pensiero radicale — quello di cui è espressione Maria — e atteggiamenti estremisti — quelli di cui ingiustamente è accusata Maria nel 1922 (istigazione a delinquere e odio di classe) — genera un timore immotivato verso chi propugna scelte di vita coerenti e viene perseguitato e, invece, noncuranza pericolosa nei confronti di chi agisce ricorrendo alla violenza fisica e verbale e circola inopinatamente a piede libero. 

C’è spazio, in questo romanzo biografico, anche per le parole atte a distruggere il mito di questa donna «contraddittoria ed esagerata e proprio in virtù dei suoi eccessi tanto più affascinante» secondo l’opinione di Sandra Petrignani. Esse sono affidate a Goliarda Speranza, figlia di Maria e dell’avvocato siciliano, Giuseppe, detto Peppino. È nel segno di Goliarda che si apre e chiude il libro: una poesia dedicata alla madre in apertura (A mia madre); l’esternazione di Goliarda, attraverso le parole di Cutrufelli, del desiderio di essere sua madre e del bisogno di non esserlo, in chiusura. Perché madri dalla forte personalità sono anche eredità morali difficili da gestire, sostenere, testimoniare e tramandare senza correre il rischio di esserne schiacciate dal peso. Il rigore ateo di Maria e di Peppino, è stato, per Goliarda, una cosa terribile; la mancanza di ironia, espressione di un certo fanatismo, ha impedito loro di combattere il fascismo con armi diverse dalla retorica e dal tono stentoreo tipici del regime stesso. E quando le teorie «rigide, protestanti» di Maria, non hanno più trovato «gli strumenti per trasformare quel principio astratto in un percorso ideale di libertà», a lei non è rimasto altro che un ricovero in clinica per malattie mentali, un funerale con bandiere rosse e un mare di garofani. 

Maria Rosa Cutrufelli
Maria Giudice. Vita folle e generosa di una pasionaria socialista
Neri Pozza, 2024
pp. 140

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Articolo di Sara Carbone

Laureata in Storia, è docente di Discipline letterarie. Traduttrice e mediatrice linguistica, è Consigliera dell’Associazione di Storia Contemporanea di Senigallia e componente del Centro studi sul Teatro napoletano, meridionale ed europeo di Napoli. Collabora a diverse riviste, quali Il materiale contemporaneo; è autrice di saggi sul fenomeno migratorio.

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