«La parola è semplice, scaturisce dall’abbracciare… L’atto di avvolgere qualcuno o qualcosa con le braccia non sembrerebbe necessariamente un gesto d’affetto. Se stringo qualcuno, se mi ritrovo avviluppato, se qualcuno mi si allaccia o addirittura avvinghia, sempre di questo stiamo parlando. E però l’opzione di significato si fonda su una differenza sostanziale.
L’abbraccio, nel suo riferimento essenziale, fa una scelta di campo netta.
Non c’è modo di esprimere questo gesto con una poesia più asciutta di quella che muove ‘il braccio a’. E non ha campo se non quello affettivo nel senso più lato, dalla stretta affettuosa e filiale fino all’amplesso. La concezione più semplice e immediata del gesto si focalizza sull’affetto. Contiene e non costringe, viene dato e può essere ricevuto allo stesso tempo».
Questo è quanto si dice a proposito del termine abbraccio nel sito “una parola al giorno”. Ma io voglio legare questa parola, così fondamentale per le nostre vite, a un altro termine, «coraggio», che, dal latino, trova il suo significato profondo in «agire con il cuore».
Perché ci vuole coraggio ad abbracciare!
È il coraggio dell’abbraccio di Papa Francesco, il Papa «venuto dalla fine del mondo» e profeta di «un altro mondo possibile». Il suo abbraccio coraggioso non è per la Chiesa in pompa magna, ma per le/gli ultimi, le/gli innocenti in mezzo alle macerie, le/ i vagabondi, le/i perseguitati, le/gli esclusi.
E che dire dell’abbraccio visivo, potente, profondo per colui/colei che non ha braccia, candida vittima delle guerre prepotenti di coloro che soffocano, stritolano, ma non conoscono l’abbraccio del cuore?
Perché l’abbraccio coraggioso, caloroso e sincero è frutto di una visione dell’umanità incentrata sull’amore, la solidarietà, la compassione. Insomma, sulla Pace.
E poi, l’abbraccio è un gesto che supera le barriere linguistiche e culturali, un linguaggio universale che trasmette emozioni senza bisogno di parole. In un abbraccio si riversano sentimenti di affetto, conforto, gioia e anche tristezza. È un gesto che ci connette profondamente con le altre, gli altri, creando un legame empatico che va al di là delle differenze. Ha il potere di rassicurare, di farci sentire comunque accolti/e. È un gesto semplice ma ricco di significato, capace di lasciare un’impronta significativa nel cuore di chi lo riceve e di chi lo dà.
La gratitudine, a sua volta, è un sentimento di affettuosa riconoscenza, di sincera e completa disponibilità a contraccambiare e restituire la cortesia ricevuta. Una manifestazione di affetto verso chi ci ha fatto del bene.
Cosa significa essere grati/e? È difficile esserlo? Evidentemente sì, visto che è stato necessario scegliere il 21 settembre come Giornata Mondiale della Gratitudine. È così difficile perché la gratitudine è aprirsi all’altro/a, offrire la possibilità di fare e ricevere del bene.
Ma il suo significato va molto oltre. Tommaso d’Aquino diceva già che la gratitudine è una realtà umana estremamente complessa, un sentimento che presuppone anche l’azione della persona che lo prova in quel momento, ma soprattutto che richiede un linguaggio per poterlo esprimere correttamente.
Ogni lingua accentua un livello differente della gratitudine. Forse il termine più curioso per dire “grazie” appartiene al portoghese obrigado. Esso è l’unico a racchiudere chiaramente il più profondo livello di gratitudine di cui parla il filosofo e teologo italiano, quello del vincolo (ob-ligatus), obbligo, dovere di restituire il beneficio ricevuto. Eppure, è un’altra la forma più incantevole di gratitudine esistente sulla terra, il giapponese arigatô. Essa porta con sé significati antichi, come ad esempio “rarità”, “eccellenza”, o più precisamente “eccellenza della rarità”. In un mondo in cui la tendenza generale è concentrarsi esclusivamente ed egoisticamente su se stessi/e, eccellenza e rarità divengono subito caratteristiche del favore, del riconoscimento e della volontà di tentare una restituzione della bellezza racchiusa in un gesto d’altruismo.
Ma che si sente quando si è grati? Provare questo amabile sentimento rappresenta l’iniziazione alle relazioni propriamente umane, costituisce un eccezionale incoraggiamento per il benessere sociale. È espressione di umanità profonda che, manifestandosi, suscita dialogo e corrispondenza di cuori. Le persone inclini alla gratitudine si sentono vicine alle altre, agli altri, e ciò costruisce reti di solidarietà essenziali per stare bene. Provare gratitudine sviluppa sia capacità di attenzione che di ascolto. Non dimentichiamo, inoltre, che l’origine prima della radice del gratus è il lodare, il celebrare con il canto il favore imperscrutabile del divino.
Secondo Massimo Recalcati, la gratitudine è uno dei volti della nostalgia. Sì, perché la nostalgia ha due diversi volti: «il primo è quello del rimpianto, il secondo è quello della gratitudine», nel senso che molte cose dei legami forti con chi non c’è più, rimangono dentro di noi e attorno a noi. E allora diventa «una potente risorsa psichica di rinnovamento della vita», una forza dirompente che rende viva e presente «La luce delle stelle morte».
Certo, ha ragione il prof Galimberti, quando, nel rispondere ad una giovane ventiduenne, ribadisce come per essere felici davvero occorra accettare se stessi/e, comprendendo fino in fondo che la perfezione non esiste, ponendo fine ad un’inutile guerra interiore. «Da questa guerra tutta interna a noi stessi che ci divora e non ci fa mai sentire soddisfatti della nostra esistenza si esce rinunciando alla perfezione che ci si è autoimposta, accettando la parte umbratile della nostra personalità, quella di cui non andiamo fieri, quella che vorremmo che nessuno scoprisse, quella che ci fa sentire ‘punti nel vivo’ quando qualcuno ce la svela». Il riconoscimento dei propri limiti, quella che parafrasando Kant chiamiamo «ermeneutica della finitudine», è l’unico presupposto della gratitudine per quello che si è nello spazio condiviso dell’esistere.
Perché la gratitudine è una forza potente, capace di trasformare il modo in cui vediamo il mondo e viviamo la nostra quotidianità. Non è solo un’emozione, ma un vero e proprio atteggiamento mentale che ci permette di apprezzare ciò che abbiamo, invece di concentrarci su ciò che ci manca.
Essere grati/e porta numerosi benefici: migliora il benessere emotivo, rafforza le relazioni, riduce lo stress e aumenta la gioia, anche quando questa è nostalgica. Studi dimostrano che praticare la gratitudine con costanza aiuta a sviluppare una mente più positiva e resiliente. Anche piccoli gesti, come tenere un diario della gratitudine o dire “grazie” con sincerità, possono fare la differenza.
Una parola semplice, dunque, sorgente di significato, con antiche radici popolari, una piantina adatta e resistente. Sarebbe il caso di ritornare al nostro intimo e gioioso «celebrare cantando», a quell’incantata meraviglia che ci fa essere grati e grate delle bellezze del creato e, perché no, anche della nostra umanità.
Un coraggioso abbraccio di Pace, con tanta tanta gratitudine, è quello che auguriamo e ci auguriamo.
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Articolo di Vera Parisi

Insegna Filosofia e Storia al Liceo Scientifico Dell’IIS Matteo Raeli di Noto. È referente dei progetti PTOF Toponomastica femminile – Sulle vie della parità ed Educazione relazionale-affettiva e C.I.C. Parte del gruppo Noto/Avola di T.f, è attualmente interessata alle tematiche relative alla comunicazione relazionale, alla cittadinanza attiva e alle pari opportunità, sulle quali svolge il ruolo di formatrice.
