Ormai quotidianamente siamo chiamate/i a dare il nostro consenso: ci viene chiesto quando accediamo a un nuovo social network, quando una nostra immagine deve essere pubblicata, quando dobbiamo sottoporci a una terapia medica. Siamo più in difficoltà quando il consenso di cui si parla è attinente alla sessualità. Nel corso dell’articolo si parlerà di violenza sessuale e di consenso, in alcuni casi indicando la donna come vittima e l’uomo come aggressore. Questo perché statisticamente sono in maggioranza le donne a subire violenza sessuale da parte di uomini. Ciò non esclude che esistano e siano rilevanti anche i casi in cui la violenza sia perpetrata sugli uomini o quelli in cui le colpevoli siano le donne.
Il concetto di consenso è fondamentale in ambito giuridico, che lo definisce come l’«elemento essenziale del negozio giuridico bilaterale o plurilaterale, consistente nell’incontro delle manifestazioni di volontà di due o più soggetti contrapposti» (consènso, s.d.). La definizione rimanda anche al «consentire a che un atto si compia»: “dare il proprio consenso” vuole dire dare il permesso o l’autorizzazione. In ambito medico e in bioetica si parla di consenso informato per indicare quella partecipazione consapevole del/la paziente alle decisioni in merito al suo trattamento terapeutico, in particolare in previsione degli eventuali rischi. In politica, invece, si intende con consenso il favore che una parte dei gruppi sociali e alcuni individui esprimono nei confronti di determinati esponenti e partiti.
Negli ultimi anni, il concetto di consenso è diventato parte integrante della riflessione e della lotta contro il fenomeno della violenza sessuale. Tuttavia il diritto internazionale non è univoco nel dare una definizione certa, anche se il riferimento più diretto e autorevole è quello della Convenzione di Istanbul, all’art. 36, in cui si fa riferimento alla violenza sessuale come a qualunque atto sessuale compiuto su una persona «senza il suo consenso», che è la «libera manifestazione della volontà della persona», ratificata poi in Italia nel 2014. Secondo Amnesty International, il consenso risponde a una serie di caratteristiche peculiari: il consenso è necessario, altrimenti il rapporto tra due persone non avviene legalmente; deve essere libero, cioè deve essere dato senza manipolazioni e pressioni; è specifico, in quanto dare il consenso per un momento, per una determinata situazione, non vuol dire dare il proprio consenso per sempre e per qualunque situazione.
La violenza contro le donne ha una portata tale, da un punto di vista meramente numerico, da poter essere considerata “endemica”, perché non implica differenze di classe sociale, di ceti economici e di nazionalità. Il motivo di questa diffusione globale e trans-generazionale riporta ai rapporti di forza tradizionalmente e storicamente ineguali tra uomini e donne. La lotta alla violenza di genere nasce negli anni Settanta del XX secolo, mentre in Italia solo alla fine degli anni Novanta iniziarono delle vere e proprie azioni di contrasto al fenomeno, con l’apertura dei primi Centri antiviolenza. È solo da pochi anni – soprattutto dopo il 2005 con l’introduzione del termine “femminicidio” e il 2013 con l’approvazione del provvedimento denominato “Decreto femminicidio” – che la violenza di genere è diventata un argomento al centro del dibattito pubblico e oggetto dell’attenzione dei media. In seguito alla sempre maggiore importanza mediatica e sociale data al tema, si sono sviluppate riflessioni anche sugli elementi più specifici, che fino a quel momento interessavano solo chi faceva attivismo, tra i quali è emerso proprio il consenso. Fin da subito si è rivelato un argomento di difficile comprensione e molto spesso di scontro tra le parti. La difficoltà in questione è legata a una tradizione maschilista e patriarcale di possesso dell’uomo nei confronti della donna. La legge 609-bis e seguenti del Codice Penale disciplinano i casi di violenza sessuale, definendo la ratio sulla base del rispetto della persona umana e della sua libertà personale. Fino al 1996 invece i casi di violenza sessuale erano accorpati al titolo IX del Codice Penale, che disciplina i reati contro la moralità pubblica e il buon costume.
Questo testimonia come la nozione stessa di violenza sessuale sia recente e come pure la legge abbia subìto cambiamenti solo negli ultimi anni. È chiaro tuttavia che modifiche sul piano giuridico non sempre corrispondano anche a evoluzioni in campo sociale e culturale.
In terra anglosassone, per spiegare in modo semplice e diretto il consenso e le modalità con cui è adeguato agire durante un approccio sessuale, la Thames Valley Police, in collaborazione con Rape Crisis England and Wales, Oxfordshire Sexual Abuse and Rape Crisis Centre e Oxford University Student Union, ha pubblicato nel 2015 un sito internet, con una parte testuale e un video chiamato #Consentiseverything. L’obiettivo del video è dimostrare come il “Consenso sia semplice come il tè”: viene infatti proposto un ragionamento che sovrappone il consenso proprio a una tazza di tè. Un paragone di facile comprensione in quanto si immagina un ipotetico scenario, descritto alla seconda persona singolare, in cui una persona chiede a un’altra se gradisca del tè: se dice di sì, allora vuole il tè, se dice di no, tu non devi nemmeno preparare il tè, perché è stata chiara nella sua affermazione; se appare titubante, si può comunque preparare il tè, ma poi non bisogna costringerla a berlo. Lo stesso avviene quando l’altra persona inizialmente comunica di volere il tè, ma poi, una volta preparato, cambia idea e decide di non volerlo più. In quel caso il primo individuo può essere infastidito, perché ci ha messo tempo e impegno per prepararlo, ma anche stavolta non può forzare l’altra persona a berlo. Se l’altra poi è incosciente, è ovvio che non voglia il tè, anche nel caso in cui avesse detto di volerlo prima, quando era ancora in sé.
Si tratta di un video molto diretto, addirittura ironico, presentato attraverso delle figurine stilizzate, che rappresentano l’elementarità e l’immediatezza del messaggio che vuole mandare. Scorrendo il sito internet in cui è stato pubblicato il video, è possibile leggere anche la definizione – molto semplificata – di consenso, dei modi in cui è possibile accertarsi di averlo e delle “regole” che intercorrono tra due persone che hanno un rapporto sessuale. Riporta inoltre i miti e le credenze che di solito caratterizzano il dibattito pubblico, o in altri casi sono pure tra le affermazioni in difesa dell’aggressore, come i tipici “se l’è andata a cercare”, “chissà come era vestita”, “era ubriaca, era in cerca di guai”, “ha denunciato solo per attirare l’attenzione”, e molti altri. In realtà sono tutte difese, giustificazioni, che portano al fenomeno del cosiddetto victim blaming, ovvero addossare parte della colpa, se non tutta, alla vittima, deresponsabilizzando invece il colpevole. Ci troviamo immerse/i, ancora oggi, in una cultura vera e propria della violenza, in cui i media, le norme, le pratiche arrivano a normalizzare, giustificare e addirittura incoraggiare la violenza. Lo testimonia la stessa necessità di progetti di questo tipo, che a molti e molte potrà apparire scontato, se non superfluo. A quanto pare, invece, è ancora necessario e urgente definire delle azioni di educazione al consenso, di insegnamento alla cultura dell’inclusività, del rispetto e della parità. L’obiettivo è quello di superare finalmente l’idea che gli uomini abbiano una sorta di diritto ai rapporti sessuali, che equivale, ma spesso supera, la libertà delle donne di scegliere per i propri corpi.
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Articolo di Elisa Pasqualotto

Laureata in sociologia e attualmente iscritta al secondo anno del corso di Media, comunicazione digitale e giornalismo. Nei suoi studi si occupa di informazione giornalistica e comunicazione politica, relazioni internazionali e media studies. È appassionata di letteratura, fotografia e yoga.

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