Una gita a Kashan, la città delle rose

La primavera comincia presto in Iran. A gennaio, quando ero arrivata, il clima non era molto diverso dall’Italia; a febbraio alcune nevicate avevano complicato il già caotico traffico di Teheran, paralizzando la città. In breve tempo però le giornate si erano fatte miti e ci avevano permesso di approfittare delle vacanze di Nowruz, il Capodanno persiano che coincide con l’equinozio di primavera e prevede una chiusura di tutte le scuole (e di molte altre attività) per un paio di settimane. Riposto il cappotto, che all’inizio aveva opportunamente nascosto il mio abbigliamento ancora inadeguato, avevo cominciato a indossare questo rupush, o manteau, che copriva abiti più leggeri e si accompagnava, come prescritto dalla legge, con l’indispensabile foulard o con una sciarpa per coprire i capelli.

Foto di classe

Al rientro dalle vacanze di Nowruz le studenti avevano subito cominciato a parlare di questa gita organizzata dall’università: per molte di loro si trattava di un evento eccezionale. Chi frequenta è di estrazione sociale molto diversa, perciò, mentre c’è chi proviene da famiglie facoltose e viaggia anche fuori dall’Iran, per la maggior parte, in particolare per le ragazze, è quasi impossibile muoversi al di fuori della cerchia familiare, per cui le rare uscite scolastiche rappresentano le prime occasioni di autonomia.
Le mie allieve continuavano a invitarmi insistentemente a partecipare: ero contagiata da tanto entusiasmo e non potevo certo rinunciare a una simile opportunità, perché da una parte era molto raro che le studenti (l’uscita era riservata alle ragazze) avessero occasione di svolgere un’attività diversa da quella di studio, dall’altra l’università non incoraggiava rapporti amichevoli fra docenti e studenti, sostenendo piuttosto la necessità di mantenere una rispettosa distanza verso chi occupa posizioni di responsabilità educativa.
A parte l’accompagnatore ufficiale, responsabile del buon andamento dell’uscita (e rigorosamente uomo) io sarei stata l’unica insegnante: era l’occasione migliore per superare le barriere che ci separavano nelle aule.

Casa storica. Giardino

Il pullman partiva la mattina presto per Kashan, una città di circa 250 mila abitanti situata in un’oasi verso sud, a circa 250 km. da Teheran. Tappa obbligata per le carovane al margine del grande deserto che occupa l’Iran centrale, Kashan è stata in passato un luogo di villeggiatura per nobili e shah; perciò vi si trovano ancora molte case storiche, divenute oggi musei: Khāneh (casa) Borujerdihā, Khāneh Ṭabāṭabā’ihā, Khāneh ʿĀmerihā, Khāneh ʿAbbāsiha. La città è però famosa soprattutto per il Bagh-e Fin, il giardino progettato da Shah Abbas nel XVI secolo, frequentato e ammodernato dai sovrani qajari fino a quando, nel 1852, fu teatro di un assassinio: proprio per ordine dello Shah Nasser al-Din vi fu ucciso il primo ministro Amir Kabir. Dopo questo episodio tutta la zona conobbe un lungo periodo di abbandono, finché nel 1935 Shah Reza Palhavi (il padre del più noto Mohammad Reza, destituito nel 1979 durante la rivoluzione guidata dall’Ayatollah Khomeini) proclamò la città bene nazionale iraniano; infine, dal 2012 Bagh-e Fin è entrato a far parte del patrimonio dell’umanità dell’UNESCO.

Casa storica. Interno

Come sempre quando si esce dalle città iraniane il viaggio inizia attraverso una vasta zona disabitata: solo il nastro d’asfalto che collega la capitale a Esfahan testimonia la presenza umana, in un ambiente che altrimenti è rimasto identico a quello desertico del passato, quando le carovane di cammelli attraversavano il continente eurasiatico. Sembra impossibile, passando accanto al lago bianco di sale e alle colline sabbiose, sullo sfondo di aride montagne rocciose, di poter raggiungere una città circondata da coltivazioni verdi, che in questo periodo si accendono del colore intenso delle rose damascene.

Casa storica. Giardino

Scopo della nostra uscita non era tanto la visita alle dimore storiche della città (ne visiteremo soltanto una), quanto l’osservazione della lavorazione dei fiori, che avviene ancora in maniera tradizionale da circa 2500 anni. Le rose damascene, spiegano le mie allieve, non provengono dalla Siria, come vorrebbe l’aggettivo con cui sono note in Europa, ma dagli altipiani centroasiatici attraverso il loro Paese – come per i tulipani, dunque, anche per queste rose le ragazze rivendicano con orgoglio il ruolo iraniano.

Rose nel calderone

Sono fiori dal profumo delicato ma persistente, coltivate in tutta la zona, dove forniscono la materia prima per la produzione di olio essenziale e di acqua, famosissimi da secoli in tutto il Paese e all’estero. In Iran l’acqua di rose rappresenta una specie di panacea, usata per ogni problema di salute: in persiano si chiama infatti Gol-ab-Mohammadi, dove gol significa rosa, ab acqua e Mohammadi del profeta Maometto. Perciò a questo fiore dal valore quasi sacro sono attribuiti molteplici valori curativi, sia per uso interno sia esterno: serve per rinfrescarsi e detergere la pelle, ma si può anche berne una quantità illimitata per favorire la digestione e il buon funzionamento del fegato. La dettagliata etichetta – quasi un bugiardino – sulla banale bottiglietta di plastica che un’allieva prontamente mi traduce recita tutte le sue qualità: è antivirale e antibatterica, antispasmodica, antisettica; inoltre, il profumo ha un potere sedativo e antidepressivo, perché sollecita la produzione di endorfine. L’acqua di rose viene utilizzata anche in cucina nella preparazione di tisane, marmellate, pasticcini; inoltre, rientra fra gli ingredienti del bastani, un gelato molto particolare che prevede, oltre a questi fiori, zafferano e pistacchi, tutti ingredienti tipici iraniani; infine, trova il suo impiego anche nelle moschee, per la pulizia di luoghi e oggetti sacri.
La produzione si sviluppa attraverso fasi diverse: prevede innanzitutto la raccolta manuale dei fiori, che inizia molto presto al mattino, dato il clima già caldo; uomini, donne, ragazzi e ragazze anche molto giovani sono impegnati in questa attività nei campi, irrigati attraverso un sistema complesso, che è rimasto inalterato nei secoli; più che di campi, si tratta di giardini tipici persiani, dove accanto alle piante di rosa crescono melograni, fichi, mandorli, albicocchi. Chi raccoglie ha grandi sacchi di plastica o di stoffa, legati in vita o al collo, perché le rose devono rimanere allargate, senza schiacciarsi.

Bollitura delle rose

I fiori vengono portati alla pesatura e quindi bolliti negli apparecchi di distillazione tradizionali, formati da enormi calderoni di rame posti sul fuoco a legna all’aperto, in costruzioni in muratura; i calderoni sono provvisti di tubicini, che raccolgono il vapore emanato dalla bollitura e lo convogliano in appositi contenitori, dove arriva una quantità dimezzata di prodotto.
Il lavoro di distillazione viene svolto solo dagli uomini, che provvedono a caricare i calderoni con le proporzioni corrette – circa 30 kg. di fiori per 70-80 litri d’acqua; solo loro conoscono i tempi corretti di cottura e di evaporazione del liquido, che poi si ri-condensa per trasformarsi nel prodotto finale e viene, infine, imbottigliato per il trasporto e la vendita sul mercato.

Noi spettatrici ovviamente non possiamo toccare nulla, ma i nostri sensi godono della presenza dei fiori: siamo avvolte dal profumo intenso delle rose, gustiamo il sapore delicato dell’acqua, i nostri occhi gioiscono dell’intenso colore rosa degli innumerevoli petali messi a cuocere; non ultimo, possiamo conversare senza restrizioni, anche se gli argomenti restano limitati: la lingua non sempre aiuta, l’italiano è faticoso, scivoliamo spesso nell’inglese, le ragazze mi insegnano qualche termine persiano e qualche frase, confermando il loro entusiasmo per il viaggio e per le qualità di questi prodotti.

Il tramonto ha segnato la fine di una giornata davvero diversa, in cui non solo eravamo uscite insieme, docente e studenti; avevamo familiarizzato e (non meno importante!) avevamo acquistato una gran quantità di acqua salutare. Un ultimo aspetto aveva valorizzato la visita a Kashan: il nostro rapporto si era capovolto, quel giorno erano state le ragazze a darmi spiegazioni e rispondere alle mie domande, mostrandomi uno spaccato di vita tradizionale e poco conosciuto della loro cultura. L’orgoglio e la fierezza dei loro discorsi metteva in luce il loro rapporto contraddittorio con un Paese che amavano, del quale riconoscevano il ricco patrimonio storico e culturale, ma che tuttavia non cessava di opprimerle con la rigidità delle sue regole.

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Articolo di Rossella Perugi

Laureata in lingue a Genova, dottora in studi umanistici a Turku (FI), sono stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ho curato mostre e attività culturali. Ora insegno italiano alle persone migranti, collaboro con diverse riviste in Italia e all’estero e faccio parte di Dariah-Women Writers in History. Mi piace viaggiare, leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.

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