L’Alaska, oltre a essere il più esteso degli Stati Uniti, è uno dei Paesi al mondo con più forte carica evocativa: basta il suono del nome per volare con l’immaginazione e iniziare un viaggio tra le bianche distese, passando per la natura incontaminata e alle volte ostile, per poi approdare in qualche pittoresca cittadina o variopinta comunità indigena.
Abitato attualmente da circa 740.000 persone, racchiude tra le lande desolate e i ghiacciai una vitalità particolare, spiegabile soltanto da chi quella magia l’ha vissuta e toccata con mano. A guidarci alla scoperta di tali bellezze Raffaella Milandri, scrittrice e autrice del volume In Alaska, il paese degli uomini liberi che, nel podcast Lovely Planet, ha delineato un percorso ad hoc su e giù per il Paese, aggiungendo qua e là piccoli consigli pratici e avvertenze. Cartina alla mano, la scrittrice edita da Mauna Kea, ci accompagna attraverso la natura, fisica e umana, in un itinerario di circa 10.000 km percorsi in solitaria. Il tutto, quindi, parte come una sfida personale, da affrontare sì con tanto coraggio e altrettanta prudenza, ma tenendo sempre fede allo spirito fanciullesco che sa ancora meravigliarsi e godere di ogni minima esperienza.
Tale spirito è, inoltre, il giusto mezzo per vivere al meglio la particolare dimensione umana dell’Alaska, che accomuna la quasi totalità delle realtà presenti. Infatti, essendo piccole e poco popolose − alcuni villaggi sono composti da poco più di venti persone − si vive in sintonia con gli animali e la natura, all’insegna della solidarietà tra gli esseri umani e della condivisione. Un esempio ci viene donato dall’autrice stessa che, in un suo soggiorno presso la comunità degli Iñupiat1, ha avuto il privilegio di aiutarli in una loro intima pratica: cucinare la carne di balena. Dietro un gesto apparentemente quotidiano e privo di significato, si nasconde una millenaria tradizione di questo popolo indigeno, secondo la quale la balena si dona alla comunità nella stessa misura in cui si dona al capitano della nave al momento di essere pescata. Ed ecco che il cucinare diventa una festa, un rito celebrativo di questo animale, da distribuire poi gratuitamente a ogni partecipante.

Tornando al percorso alla scoperta dell’Alaska, la città da cui partire è sicuramente Anchorage, la più grande e di stampo occidentale dello Stato. Situata nella zona centro-meridionale, è conosciuta per i siti culturali – tra cui l’Alaska Heritage Center – e come punto di partenza per raggiungere angoli di paradiso naturali, come le montagne Chugach e Talkeetna.
Proseguendo verso Sud, si arriva alla Kenai Peninsula, uno dei posti più gettonati dal turismo per la possibilità di vedere le balene e le foche in una delle tipiche crociere organizzate. Il consiglio di Raffaella Milandri è di prediligere piccole imbarcazioni: non hanno il massimo a livello di comodità, ma assicurano un’esperienza immersiva e una dimensione individuale senza paragoni.
Dirigendosi verso Nord, invece, raggiungiamo Fairbanks, seconda città per grandezza e punto di partenza perfetto per noleggiare un’auto o un camper, in modo tale da proseguire il viaggio in autonomia. Nonostante l’Alaska sia ormai attrezzata al turismo, è sempre meglio godere di una propria indipendenza, in quanto spesso le distanze sono molto dilatate e le strutture ricettive possono avere a disposizione pochi posti letto e, di solito, a un costo elevato.

Lasciamo indietro le città e, addentrandoci nei grandi parchi nazionali, il più visitato è il Denali National Park, situato a metà strada tra Fairbanks e Anchorage. A contatto con l’Oceano Artico, a occupare la parte Nord del Paese, vi è il Gates of the Arctic National Park, dove si possono trovare dei biosistemi unici al mondo. Perdendosi nei lunghi e desolati sentieri, dove l’impronta umana è soltanto un ricordo, si può vivere a contatto con la natura, respirarne la forza vitale, assaporarne ogni aspetto. In Alaska si sperimenta un ritorno all’origine, un utilizzo di sensi che nel corso della vita si perdono. Bisogna affinare la vista, l’udito, l’olfatto, cercare di capire un territorio prima di “affrontarlo”. Lungo questi percorsi, infatti, ci si può imbattere persino in esemplari di grizzly; bisogna quindi procedere con prudenza, ricercando tracce sul suolo, captando anche i minimi rumori o addirittura imparando a riconoscerne l’odore tipico. Più che di un ritorno alla natura, quindi, possiamo parlare di un ritorno all’istinto di sopravvivenza, caratteristica innata in ogni essere umano e assopita nella maggior parte dei casi.

Un’altra esperienza immersiva che si può vivere nelle zone tra Anchorage e il Kenai è la corsa coi cani da slitta. Mediante un elicottero si arriva su questi ghiacciai perenni e, cullati dall’immensa distesa bianca, si può godere di una delle esperienze più imperdibili secondo l’autrice. Oltre al colore bianco del ghiaccio, sarà il verde delle vastissime foreste presenti attorno alla zona del Denali e di Fairbanks ad accompagnare turisti e turiste durante il percorso; proseguendo verso Nord, la vegetazione diventa più brulla, caratterizzata principalmente da licheni e bassi arbusti.
A questo punto, concludiamo con qualche piccola chicca su cucina e souvenir, perfetta per chi desidera un’esperienza a 360° alla scoperta delle meraviglie dell’Alaska. Il consiglio dell’autrice è sempre di prediligere la realtà più vera e autoctona, ragion per cui souvenir come piccole opere di artigianato locale, principalmente indigeno, sono la scelta giusta. Vi è, infatti, un duplice valore: oltre ad avere un pezzo unico, senza duplicati e a un prezzo più che ragionevole, è importante l’aiuto che, con questo semplice gesto, arriva alle popolazioni native, vittime di abusi nell’arco dei secoli.
Altro aspetto particolare è la cucina, sicuramente un’esperienza molto più intensa di come siamo abituata a viverla in Occidente. L’Alaska è, infatti, un Paese di cacciatori, dove non è strano trovare nei mercatini tipici carne di alce, di orso o di balena. Il suggerimento è di provare il più possibile, ma sempre nelle piccole realtà, dove gli animali abbattuti sono strettamente legati alla sussistenza della comunità. Naturalmente, per chi volesse sapori meno particolari, si possono trovare molti ristoranti e trattorie a conduzione familiare di cucina orientale, grazie alla vicinanza geografica con l’Asia.
Finisce così il nostro viaggio; per approfondire il tema è consigliata la puntata del podcast Rai Lovely Planet ma attenzione: una volta visitata, l’Alaska può creare dipendenza, parola di Raffaella Milandri.

La puntata integrale del Podcast Lovely Planet di rai Radio 3 è disponibile al seguente link: https://www.raiplaysound.it/audio/2022/11/Lovely-Planet-del-13032021—Lassu-in-fondo-allAlaska-580ce22e-2460-47b2-bba9-1523ca465ff8.html
In copertina: Gates of the Arctic National Park.
- Gli Iñupiat
Gli Iñupiato Iñupiaq sono un gruppo etnico nativo dell’Alaska, appartenente alla più estesa famiglia degli indigeni Inuit, il cui territorio tradizionale si estende all’incirca a nord-est da Norton Sound sul Mare di Bering alla parte più settentrionale del confine tra Canada e Stati Uniti. Le loro comunità attuali includono 34 villaggi in tutta l’Iñupiat Nunaat (terre degli Iñupiat), inclusi sette villaggi dell’Alaska nel Borough di North Slope, affiliati alla Arctic Slope Regional Corporation; undici villaggi nel Borough di Northwest Arctic e sedici villaggi affiliati alla Corporazione regionale dello Stretto di Bering. Il gruppo etnico è suddiviso in quattro sottogruppi proprio in base alla loro appartenenza territoriale: ci sono gli Iñupiat della penisola di Seward, quelli originari dell’entroterra che anticamente migrarono verso la costa (i Nunamiut), gli Iñupiat dell’Artico nord-occidentale (o Malimiut) e gli Iñupiat che abitano la costa dell’Alaska settentrionale (detti anche Taġiuġmiut in lingua inupiaq). L’inupiaq, la loro lingua originale, è un dialetto Inuit della sottofamiglia linguistica eschimo-aleutina.
Insieme ad altri gruppi Inuit, gli Iñupiat provengono dalla cultura Thule, il cui nome deriva da un insediamento in Groenlandia dove furono ritrovati i resti di questo antico popolo. Intorno al 300 a.C., i Thule migrarono dalle isole del Mare di Bering a quella che oggi è l’Alaska. I gruppi Iñupiat, in comune con i gruppi di lingua Inuit, hanno spesso un nome che termina con il suffisso “miut”, che significa “un popolo di”. Un esempio è appunto Nunamiut, un termine generico per i cacciatori di caribù Iñupiaq dell’entroterra.
Gli Iñupiat sono cacciatori-raccoglitori, come la maggior parte dei popoli artici, e infatti continuano a fare molto affidamento sulla caccia e la pesca di sussistenza. A seconda della loro posizione, cacciano trichechi, foche, balene, orsi polari, caribù e pesci. Sia gli Iñupiat dell’entroterra (Nunamiut) che della costa (Taġiuġmiut) dipendono molto dalla pesca, soprattutto la caccia alla balena. La cattura di una balena avvantaggia ogni membro di una comunità Iñupiat, poiché l’animale viene macellato e la sua carne e grasso vengono assegnati secondo una formula tradizionale. Anche i parenti che vivono in città, a migliaia di chilometri di distanza, hanno diritto a una quota di ogni balena uccisa dai cacciatori del loro villaggio ancestrale. Gli Iñupiat dell’entroterra invece cacciano anche caribù, ariete di Dall, orsi grizzly e alci.
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Articolo di Chiara De Luca

Nata a Benevento nel 1999, appassionata di scrittura, arte e viaggi. Laureata in Lettere Moderne, studia attualmente Editoria e scrittura presso La Sapienza per diventare giornalista e dar spazio alle tante storie di discriminazione che affliggono la nostra società. Ama il buon cibo, i tatuaggi e il conoscere ogni giorno qualcosa di nuovo.
