Bugie e regole

Continuiamo a pubblicare i racconti premiati al Concorso Sulle vie della parità, X Edizione, della Sezione B, Narrazioni. Ricordiamo che il tema proposto era Superare gli stereotipi di genere.

Il Premio per la composizione di gruppo Classi Quinte è stato assegnato al racconto Una bugia rivelatrice, che si sviluppa a partire dall’incipit n. 4, di Mariapia Veladiano, e ci è stato spedito dalle professoresse Santina Fortuna e Venera Parisi. L’hanno ideato le/gli studenti Lorenzo Di Mauro, Maristella Landogna, Luciano Masini e Sebastiano Piccione, della V A del Liceo Scientifico Matteo Raeli di Noto.

Un momento della premiazione. Foto di Nicole Rana

Questo il giudizio espresso dalla Giuria: «Il racconto inquadra correttamente e in modo originale la tematica proposta. L’incipit è stato ben compreso e sviluppato. Molto buona la resa linguistica e meritevole il lavoro di ricerca che sta dietro l’elaborazione del testo».

Incipit: «Lo faccio da sempre quando i miei hanno ospiti a cena. Chiudo bene la porta della camera, se non lo facessi di là parlerebbero più piano e non potrei sentire, poi prendo il cuscino del letto, mi distendo sul parquet, appoggio la testa sul cuscino e incollo l’orecchio alla porta. Poi ascolto. I discorsi che i grandi fanno dopo una cena con gli amici, quando pensano di non essere sentiti dai figli, sono i più interessanti. È così che ho saputo cosa è successo al barboncino dei vicini che un giorno ha smesso di abbaiare ed erano stati tutti gli altri, compresi i miei genitori, a chiamare i vigili e Luc era finito al canile. Quella volta non ho parlato per una settimana dalla rabbia e però non potevo dire perché. Quando con gli amici parlavano di politica mi addormentavo, ma capitava poche volte. Quella sera parlavano di maschi e femmine, interessante. “Oggi c’è una bella libertà”, dice Clara, l’amica della mamma. “I figli possono scegliere strade che una volta erano impossibili. Ci sono donne magistrate, uomini baby sitter…“I manny”, dice la mamma. “Sì, e nessuno si stupisce più”, conclude Clara. “Beh, c’è un limite”, è mio padre a parlare. “Te la immagini una donna camionista?” “Ma ci sono. Ne abbiamo una in azienda, bravissima”, lo interrompe Clara. “Sì, ma dài, che lavoro è per una donna?” Io seguivo senza respirare la discussione. Mi chiedevo che cosa sarebbe successo, quando tra qualche giorno gli avrei detto quello che volevo davvero fare nella vita».

Racconto: «“La motociclista? Stai scherzando, Elisabetta?”
Quando mia mamma mi chiamava con il nome per intero, allora sapevo che ero nei guai.
“Guarda la figlia di Clara, lei si è iscritta a Scienze della formazione, vuole fare la maestra. Quello sì che è un vero lavoro. Come puoi solo pensare di fare la motociclista? E poi sentire gli uomini blaterare con malignità che la donna al volante è un pericolo costante!”
Rimasi in silenzio, aspettando un intervento di mio padre, ma lui non mi degnava nemmeno di uno sguardo. Sinceramente non capivo perché fossero così stupiti, conoscevano bene la mia passione per i veicoli motorizzati, come se non avessi trascorso l’infanzia rubando le macchine e i motori giocattolo di mio fratello Riccardo. O se non fossi sempre stata ipnotizzata davanti alla TV mentre mio padre guardava il Gran Premio!
“Veramente, Elisa, non so proprio che fare con te…”, sospirò mia madre coprendosi il volto con le mani. Sembrava davvero delusa e questo mi faceva molto male. Non potevo mica immaginare che se la sarebbero presa tanto. Non si erano arrabbiati in questo modo nemmeno quando mio fratello era stato sospeso per tre giorni da scuola per una lite, anche se mi stava proteggendo da un bullo.
“Va bene, mamma, allora cosa vuoi che faccia?” Le chiesi seccata, alzando gli occhi al cielo.
“Hai passato ore e ore a studiare pianoforte, perché non prosegui questa strada? Hai molto orecchio, potresti fare la pianista”.
Certo, come se non mi avesse costretto lei a imparare a suonare il pianoforte. Lei avrebbe voluto “progettarmi” secondo i suoi gusti. Ma questo non glielo potevo mica urlare in faccia. Così voltai i tacchi e mi chiusi in camera. Quella sera a cena non parlai nemmeno e, subito dopo aver finito di mangiare quel cibo che mi andò di traverso, me ne tornai nella mia tana. Ero infuriata, ma nello stesso tempo inquieta, dubbiosa. Non volevo deludere i miei ma non volevo nemmeno rinunciare al mio sogno. Ero intrappolata nel circolo vizioso dei miei pensieri, quando qualcuno bussò alla mia porta.
“Che c’è?”, chiesi seccata, nascondendomi sotto il piumone. Chiunque avesse bussato non si era degnato di rispondermi e aveva direttamente aperto la porta.
“Posso?”, domandò una voce che conoscevo bene. Era Riccardo, mio fratello. Ero troppo orgogliosa per rispondergli, ma lui senza pensarci due volte entrò e si sedette sul bordo del letto.
“Mamma e papà ti hanno già detto tutto, vero?” dissi trattenendo a fatica le lacrime.
“Puoi uscire da là sotto?”. Non potevo vederlo, ma sapevo già che stava sorridendo. Era da sempre il mio punto di riferimento. Pensavo di aver deluso pure lui con questa mia “estrosa e inusuale” scelta.
“Hai intenzione di uscire da sotto le coperte?”, chiese prima di iniziare a farmi il solletico. Uscii dalle coperte e subito venni investita da un grande abbraccio. Lui mi capiva! Potevo finalmente confidarmi con qualcuno, qualcuno che era pronto ad ascoltarmi davvero e con cui potevo parlare sempre.
“Loro proprio non capiscono,” – cominciai – “tu sai che ho sempre avuto questa passione, sai che ho sempre ammirato Ana Carrasco o Beryl Swain, ho sempre desiderato essere come loro. Sapessi quante volte ho letto e riletto la storia di Vittorina Sambri, che già un secolo fa aveva dimostrato a tutti come le donne possono essere anche più brave degli uomini a guidare la moto. E pensa che in quei tempi bui e discriminanti per le donne, ha sfidato ogni convenzione sociale, ogni frustrante paradigma femminile per seguire la sua passione, disposta persino a travestirsi da uomo pur di inforcare la sua moto e lanciarsi sulla strada per gareggiare. Anch’io voglio fare quello sport definito “troppo pericoloso” per le donne, sentire l’adrenalina scorrermi nel sangue mentre taglio il vento a una velocità inimmaginabile”.
Guardai mio fratello in faccia per scrutarne la possibile reazione e mi accorsi che aveva un’espressione sorprendentemente compiaciuta come se fosse orgoglioso di me, del mio coraggio e della mia determinazione. Non mi aveva mai guardata in quel modo e quasi sottovoce, abbozzando un sorrisetto d’intesa e strizzandomi l’occhio, mi disse: “Se a loro non piace, basta non farglielo sapere, se ci tieni davvero fai il possibile per raggiungere il tuo obiettivo”.
“Cioè? Dovrei partecipare a qualche gara clandestina?”
“Ma no, no, non esagerare! Perché invece non provi a mettere qualche risparmio da parte per prendere la patente? Se vuoi gareggiare in pista, devi prima saper guidare una moto”.
Quella sera fu decisiva per il mio futuro, ascoltai i consigli di mio fratello, aveva riacceso in me la speranza e la voglia di lottare per quello che avevo sempre desiderato fare. Restava un lato dolente che avrebbe alimentato in me non pochi scrupoli: mentire ai miei genitori. Tacitando nel profondo del cuore le tante remore, dissi loro che avrei fatto la pianista come si aspettavano da me e, con i soldi che mi davano per le lezioni di piano, pagai l’iscrizione e gli allenamenti alla Junior Motor School.
Avevo talento e ben presto gli altri ragazzi, i maschi, mi guardarono con ammirazione. In poco tempo divenni per loro una fonte di ispirazione, per la naturale facilità con cui apprendevo le tecniche, per la padronanza del controllo del mezzo, per il rispetto assoluto delle norme, per la fantasia e la prudenza, caratteristiche, queste ultime, diciamocelo, tipicamente femminili. Questa sensazione accresceva la mia autostima, mi faceva stare bene, ma nulla era paragonabile all’ebbrezza, al senso di libertà che provavo guidando la moto.
Un giorno, mentre mi preparavo a salire in moto, il mio allenatore mi chiamò e mi disse: “Che ne dici di una gara?”. A quelle parole rimasi esterrefatta, non vedevo l’ora di dimostrare ai miei genitori, ma che dico, a tutti, a tutte, che anche io sapevo guidare, che anche io potevo essere una pilota, certo non si parlava del gran premio di MotoGP, ma era comunque un inizio, un eccitante inizio.
Era passato un mese dall’iscrizione alla gara. Il grande giorno era arrivato, una giornata che non avrei mai scordato in vita mia. Non sapevo se avrei vinto, se sarei arrivata ultima, sapevo solo una cosa: ero lì grazie ai miei sacrifici e dovevo mettercela tutta per dimostrare quanto valessi. Così, quando arrivò il momento, molto emozionata, indossai il casco come se fosse una corona, allacciai i guanti, accesi il motore, avvolsi la mano attorno all’acceleratore e al via partii, dimenticandomi di tutto, per pensare solo alla strada e al calcolo della velocità. Ma arrivata alla prima curva, le mie sicurezze si trasformarono in ansie: non sapevo il perché, ma tutta la fiducia che mi aveva accompagnato sembrava svanita. Avevo fatto quella curva centinaia di volte, sapevo con quale velocità entrare, quale angolo di piega assumere e quando staccare la frenata, ma la mia mente era completamente sconnessa dal corpo, mi sentivo impotente, forse mia mamma aveva ragione.
A ridosso della curva, il mio corpo fece tutto da solo, vi entrai in modo impeccabile e riuscii addirittura a sorpassare i due ragazzi che mi precedevano in pole position. Ritrovai la fiducia, le mie preoccupazioni erano svanite, ora era tempo di pensare alla gara a mente fredda. E una curva dopo l’altra, riuscii a difendere il primo posto per tutti i ventuno giri. Ero prima! Vedevo il traguardo. Ero così eccitata, così piena di adrenalina quando il motore cominciò a sbacchettare in modo frenetico. Non sapevo come uscire da quella situazione, provai a controllare il manubrio con la forza, ma niente. Ripensai ai consigli dell’allenatore, accompagnai delicatamente il manubrio e finalmente ripresi il controllo della moto. I commissari di gara guardavano stupiti mentre tagliavo il traguardo, non so se perché l’unica ragazza della gara aveva appena vinto, oppure perché ero riuscita a evitare di schiantarmi al suolo.
Non riesco a spiegare ciò che accadde dopo, come se la premiazione fosse stata soltanto un sogno febbrile. Ma ero lì, in cima al podio, i telecronisti annunciavano il mio nome come vincitrice. Era proprio vero, io, l’unica ragazza in gara, avevo vinto. Sorridevo e piangevo di soddisfazione mentre mi consegnavano il trofeo e una bottiglia di spumante che aprii in preda all’euforia. Sentivo che quello era il primo di una lunga serie di successi, e lo sguardo orgoglioso del mio allenatore mi diceva che avevo ragione, la mia carriera era pronta al decollo. Quando poi posai gli occhi sulla telecamera che aveva ripreso tutta la gara, si affacciò in me un inquietante dubbio: chissà se i miei genitori mi avevano vista. Una parte di me lo sperava, magari avrebbero capito la mia aspirazione, ma dall’altra cominciai a temere una brusca reazione che trasudasse profonda delusione e tanta rabbia per la mia bugia.
Tornai a casa a passi lenti, avvolta in queste preoccupanti aspettative. Ma, aperta la porta d’ingresso, restai di stucco: mia madre era in piedi davanti a me, in fondo al corridoio, con il volto segnato dalle lacrime e gli occhi rossi e gonfi. Avevano visto tutto, ne ero certa. Ero terrorizzata, la mia più grande paura era ancora il giudizio dei miei genitori. Ma volevo superarla. Iniziai ad abbozzare mentalmente un discorso di autodifesa dalle accuse che mi sarebbero piovute addosso. Prima ancora che potessi aprire bocca, mia mamma mi corse incontro stringendomi forte tra le braccia, singhiozzando. Mi sentii trafitta dal senso di colpa. Poi lei mormorò qualcosa che non riuscii a sentire.
“C-Cosa?” le domandai balbettando.
“Ci dispiace, per tutto…” sussurrò.
In quel momento mio padre si era alzato dal divano per venirmi incontro. Aveva gli occhi lucidi, ed era strano, lui non piangeva mai, ma soprattutto mi stupì di più quel suo sorriso sotto i baffi.
“Siamo orgogliosi di te, Elisabetta” disse unendosi all’abbraccio.
Mi colse un pianto liberatorio, avevo abbattuto l’ostacolo più grande, avevo vinto l’orgoglio dei miei genitori e ne avevo conquistato la comprensione e il rispetto. Ora sapevo che nulla poteva fermarmi perché, con loro al mio fianco, avrei scalato qualsiasi vetta.
Quella stessa sera, come ero solita fare, mi chiusi in camera, presi il cuscino del letto, mi distesi sul parquet, appoggiai la testa sul cuscino e incollai l’orecchio alla porta per ascoltare i discorsi dei miei genitori con amiche e amici. Parlavano di me! Si rammaricavano del fatto che avrebbero voluto imporre altre direzioni alla mia vita mortificando i miei sogni. Ora erano orgogliosi di questa figlia determinata, capace di raggiungere il suo obiettivo e non fermarsi davanti agli ostacoli.
Adesso sì, sono felice. Nulla mi può fermare».

***

Ancora dal Liceo Scientifico Matteo Raeli di Noto, inviatoci dalle docenti Santina Fortuna e Venera Parisi, ci è giunto il racconto vincitore del Primo Premio per la composizione di gruppo Classi Quarte.

Si intitola La “naturale” anomalia della regola, e le autrici sono Ludovica Consiglio, Irene Quartararo e Ludovica Zavattieri, che hanno scelto l’incipit n. 1, di Simona Baldelli.

Un momento della premiazione. Foto di Nicole Rana

Ecco il giudizio della giuria: «Il breve racconto declina uno degli stereotipi più sentititi, subiti e attuali. Pur con una non massima originalità, il testo è scritto bene e ha un buono sviluppo di trama e di finale. Il titolo è sicuramente degno di nota».

Incipit: «Lei qui non può entrare» gli ripeté per la decima volta. Fece un lungo respiro appellandosi al briciolo di pazienza che gli era rimasta. «Gentile signora» disse, cercando di mantenere un tono cortese, «ho bisogno di entrare. Anzi, ne ha bisogno lui». E indicò con un cenno del capo il bambino nel marsupio allacciato sul petto. Dal pannolino esalava un odore pestilenziale, andava cambiato al più presto. La donna sollevò un dito sulla targhetta del bagno pubblico. Le immagini erano inconfondibili: una figura femminile stilizzata e, accanto, quella di un fasciatoio per bebè».

Racconto: «“Non vorrei essere scortese, cara signora, ma, come vede e come può ben percepire nell’aria, devo entrare urgentemente proprio lì, in quel bagno dotato di fasciatoio, per poter finalmente cambiare il mio bambino! Non credo ci sia qualcosa di sbagliato in questo, ciò che non va è quell’icona che lei mi indica così prepotentemente: è solo un disegno incompleto e riduttivo, la realtà dice altro…”.
La presunta arroganza dell’avventore stuzzicò il perbenismo della signora, disposta a perorare la causa del rispetto delle regole di convivenza civile, così la sua risposta non si fece attendere: “Senta – ribatté con il piglio infastidito di chi sta per appellarsi all’opportunità di chiamare la sicurezza – le piaccia o no, in questo bagno lei, in quanto uomo, non può entrare. Il bambino avrà sicuramente una madre, una zia, una nonna… Non mi dica che riesce a fare tutto da solo…”.
L’osservazione irritò parecchio l’uomo, preoccupato peraltro dal continuo dimenarsi del piccolo per il disagio dell’attesa. Riuscì comunque a mantenere un saldo controllo sforzandosi di abbozzare un sorriso: “Mi dispiace deluderla, ma è proprio così, faccio tutto da solo! Il mio bambino ha certamente zie, nonne, cugine ed anche zii, nonni, cugini… la sua mamma non c’è e non credo sia importante sapere se sia morta o sparita, se io sia il padre biologico oppure solo il padre, un padre qualunque, ma di sicuro sono un padre che reclama un diritto elementare e necessario: poter cambiare il proprio bambino in un luogo creato appositamente per questo! In ogni caso, stia tranquilla, soddisferò la sua evidente, spiccata curiosità: mi prendo cura del mio bambino per la maggior parte del tempo nell’arco della routine quotidiana, semplicemente perché il mio lavoro mi permette di farlo, mentre la sua mamma è impegnata a salvare vite e, se non le bastasse, questo non è solo il suo lavoro ma la sua missione, perché si prodiga con tutta sé stessa anche per un’importante Ong e spesso è in giro per il mondo”.
L’uomo aggiunse con orgoglio che era fiero di sua moglie, del suo spendersi per la vita altrui e che anche il loro bambino, un giorno, lo sarebbe stato e che, secondo lui, una famiglia è tale se, al suo interno, ognuno collabora al benessere della stessa secondo le proprie possibilità e modalità, non secondo presunti ruoli specifici e circoscritti.
La signora ebbe all’inizio un sussulto ma, subito dopo, si sciolse e distese i lineamenti del volto irrigiditi dall’idea fissa che le intorpidiva la mente. “Non avevo riflettuto – disse balbettando – sono mortificata! Le devo confessare che non mi era mai capitata una situazione di questo tipo e non avevo pensato che dietro ad un bisogno così semplice e ordinario potesse esserci una storia complessa e così interessante”.
“Nessuna storia complessa – la trasse lui dall’imbarazzo – semplicemente mio figlio ha un padre che vorrebbe cambiarlo, mentre le esalazioni “profumate” sicuramente sono poco gradite al mio bimbo. Fino a quando non avrà l’autonomia di andare da solo in bagno, avrà bisogno della mia presenza. Io ho sempre pensato di dover essere sempre pronto a supportarlo, dargli dei consigli, riprenderlo ove necessario, prestargli una spalla su cui piangere, abbracciarlo e ridere insieme, ascoltare le sue confidenze, vedere i suoi lucciconi per amore o le prime delusioni… ma mai avrei pensato di dovere reclamare con forza, nella toilette di un grande centro commerciale, il diritto di cambiargli semplicemente il pannolino. Sicuramente altre saranno le sfide che, insieme alla mamma, dovremo affrontare, ma questo proprio no, non mi sembra valga la pena spendere delle energie per “vincere” tale battaglia. O forse sì? Che ne pensa?”
La donna sembrò per un attimo raccogliersi in sé, poi, dialogando quasi con sé stessa, rispose: “Lavoro da vent’anni e poi… mi fermo davanti a un’icona in cui si vede la sagoma di una donna e di un bambino sul fasciatoio, sulla porta di un bagno, e un padre davanti a me che non corrisponderebbe a quella sagoma ma che, legittimamente, reclama di entrarvi”.
La signora rimase in silenzio a fissare la targa, poi improvvisamente s’illuminò, guardò l’uomo, lo prese per mano e lo trascinò, con delicata prepotenza, all’interno del bagno, facendogli cenno di fare in fretta perché già da troppo tempo il bambino stava aspettando.
L’uomo sorrise compiaciuto, si avviò a compiere la “solenne” operazione con la maestria di chi è abituato a farlo quotidianamente, risistemò il marsupio con molta cautela e si avviò; avrebbe voluto ringraziare la signora, la cercò con lo sguardo, ma non la vide. Stava per allontanarsi, quando intravide la figura della signora che gesticolava in maniera convulsa verso di lui. Lo raggiunse, lo prese per mano, lo riportò davanti alla famigerata targhetta e gli disse: “Allora cosa facciamo? Mi vuole aiutare o devo fare tutto da sola, proprio come lei?” facendogli l’occhiolino. Insieme staccarono quella banale targhetta e applicarono un approssimativo e rudimentale foglio di carta con il disegno delle sagome nette di un uomo e di una donna accanto ad un bebè sul fasciatoio.
Poi disse: “Questo è solo un prototipo ma, glielo assicuro, la prossima volta che si troverà a passare da qui troverà la targhetta definitiva ben fissata alla porta. Grazie per la sua lezione: non la dimenticherò”.
L’uomo le strinse calorosamente la mano, sorrise e si allontanò accarezzando teneramente la testa del suo bambino con una nuova luce negli occhi».

***

Articolo di Loretta Junck

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Già docente di lettere nei licei, fa parte del “Comitato dei lettori” del Premio letterario Italo Calvino ed è referente di Toponomastica femminile per il Piemonte. Nel 2014 ha organizzato il III Convegno di Toponomastica femminile, curandone gli atti. Ha collaborato alla stesura di Le Mille. I primati delle donne e scritto per diverse testate (L’Indice dei libri del mese, Noi Donne, Dol’s ecc.)

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