Turkmenistan, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan.
Quando si pensa all’Unione Sovietica raramente ci si ricorda che questi cinque Paesi sono stati un tempo parte delle repubbliche che la formavano. Situati nell’Asia centrale, circondati dalle catene montuose più alte del mondo, ricoperti da deserti sconfinati, per secoli questi territori hanno fatto parte della Via della seta, la rete commerciale che collegava l’Europa alla Cina e all’India; hanno visto popoli di ogni etnia e stirpe attraversarli, da Gengis Khan e la sua orda mongola al governo illuminato di Tamerlano, culla di tradizioni uniche e antichissime. Oggi sono confinanti con grandi potenze come la Russia e la Cina e da vicini instabili come l’Iran e l’Afghanistan, la cui condizione minaccia di far saltare il precario equilibrio che si è instaurato dopo la caduta del comunismo.
Nel suo reportage Sovietistan, Erika Fatland, antropologa e giornalista norvegese, ammette che si è approcciata a questo viaggio senza sapere davvero cosa aspettarsi: armata della sua conoscenza della lingua russa e della storia sovietica, nonché della curiosità tipica della sua professione, Fatland ha attraversato l’Asia centrale per vedere in che condizioni versano questi Paesi a un quarto di secolo dalla caduta dell’Urss, per osservare come la popolazione si sia adattata a cambiamenti così rapidi avvenuti in pochi secoli – non è un’esagerazione dire che siano stati pescati dal Medioevo e gettati nell’era moderna senza troppi preamboli o preparazioni. Lo sguardo di Fatland è privo di preconcetti o giudizi: c’è solo molta voglia di conoscere, imparare e capire i perché si è arrivati alla situazione odierna. Un viaggio non sempre facile: Fatland è una donna occidentale che viaggia da sola in territori dove la condizione femminili non è altrettanto emancipata, anche nelle città più moderne – per maggiore sicurezza si era messa una fede al dito nonostante all’epoca non fosse ancora sposata col compagno; non di rado sia uomini che donne le chiederanno se suo “marito” è d’accordo che giri da sola, o insinueranno che un “vero uomo” non la lascerebbe mai libera di fare esperienze simili, che è strano che ancora non abbia dei figli – nessun accenno a possibili figlie, ovviamente.
Il filo conduttore che emerge dalla lettura di Sovietistan può essere racchiuso nella parola “paradosso”: tutto nei Paesi -stan è un paradosso continuo, tra antiche tradizioni e modernità, tra gli orrori del comunismo e la nostalgia per un sistema che, anche se poco, garantiva un qualcosa per tutte e tutti; tra la ricchezza derivante dalle risorse naturali di cui gode la zona e la povertà estrema in cui versa la maggioranza della popolazione, che spesso tira avanti grazie ai soldi che arrivano dai parenti emigrati in Russia o in Occidente; tra una classe dirigente vetusta e conservatrice e un mondo che va avanti e che minaccia di lasciare indietro loro e i Paesi che governano.

Si inizia dal Turkmenistan, a cui si accede solo attraverso agenzie di viaggio approvate dal governo che preparano un itinerario nei minimi particolari, senza ammettere alcuna deviazione. Dalla sua capitale, Ashgabat, una perla di marmo di Carrara quasi del tutto disabitata, fino ai villaggi nel deserto che ricopre la maggioranza del territorio, passando per i ruderi di città millenarie, ben poco è rimasto delle ricchezze di quello che un tempo era uno dei punti più importanti della Via della seta. Il Paese ha ingenti quantità di risorse naturali, eppure la stragrande maggioranza della popolazione vive di sussistenza, tagliata fuori quasi del tutto dal mondo esterno ancora di più di Paesi isolati come la Corea del Nord. Secondo la martellante propaganda, però, il Turkmenistan è un’isola felice, un fiore nel deserto, grazie al lavoro “instancabile” di Saparmurat Atayewiç Nyýazow, meglio conosciuto come Turkmenbashi (“padre dei Turkmeni”), considerato all’estero uno dei dittatori più bizzarri usciti dalle ex repubbliche sovietiche, fautore di prosperità secondo il culto della personalità da lui instaurato e da quella fetta di popolazione che vuole credere al “buon presidente”. Il suo successore, Gurbanguly Mälikgulyýewiç Berdimuhamedow, dentista di Turkmebanshi, ha ridimensionato molte delle sue eccentriche riforme, come il rinominare i nomi dei mesi con quelli dei suoi parenti o eroi nazionali oppure la chiusura di ospedali e biblioteche al di fuori delle grandi città, ma rimane l’unico depositario del potere in un Paese che vuole presentarsi come meta di lusso sulle coste del Mar Caspio ma che resta sostanzialmente arretrato e isolato.

Il secondo Paese visitato è il Kazakhstan, il nono più grande del mondo e il più grande senza sbocco sul mare. Qui si dice sia nata la mela, esportata poi ovunque. Immenso e ricco di risorse naturali, è sicuramente il più sviluppato della regione grazie ai grossi investimenti nel settore dell’energia. Anche qui c’è un solo uomo al comando, Nursultan Nazarbayev, dal 1991: garante di stabilità economica e di una opprimente dittatura, il Paese oggi fa i conti con l’eredità delle politiche sovietiche ancora più dei suoi vicini: dall’ex poligono nucleare di Semipalatinsk, dove vennero fatte esplodere le prime bombe atomiche dell’Urss e che ha lasciato le città circostanti in miseria e con tassi di mortalità fra i più alti al mondo, a quello che resta del lago d’Aral, della cui triste storia si parlerà successivamente, passando per le deportazioni di massa dei popoli della steppa kazakha, che hanno causato forti tensioni etniche anche nei Paesi vicini. La bellezza e le luci della giovane città Astana, la seconda capitale più fredda del mondo, non riescono a nascondere la delusione nei confronti di un regime repressivo e la disillusione verso il futuro che emerge dai racconti delle persone, che più di tutti gli altri Paesi dell’Asia centrale rimpiangono i tempi del comunismo.

Il terzo Paese è il Tagikistan, il più povero degli -stan e circondato dalle gigantesche montagne della catena del Pamir – che hanno reso alcune zone, come la valle dello Yoghnob, difficili da raggiungere, mantenendo le popolazioni presenti isolate e quasi del tutto furi dal tempo – e da due vicini ingombranti: l’Afghanistan, con cui condivide uno dei confini più caldi al mondo, e la Cina, che da anni vi investe nell’ottica del progetto della Nuova Via della seta, di cui il Tagikistan sarebbe uno degli snodi principali. Il presidente Emomali Rahmon prende il potere dopo una sanguinosa guerra civile contro gruppi di estremisti islamici, i cui segni sono ancora visibili nella forma di forti tensioni etniche e religiose. Molti dei gruppi minoritari, come quello della millenaria cultura sogdiana, sono sul punto di scomparire in assenza di tutele o incentivi a mantenere viva la loro lingua e le loro usanze. Nonostante le critiche condizioni il regime, come negli altri Paesi -stan, ci tiene molto alle apparenze: la capitale Dushanbe è enorme e pulita, ma la luce non funziona tutto il giorno e le macchine che circolano sono per la maggior parte rubate dall’Europa; ospitante il più alto pennone del mondo fino al 2014, ben 165 metri di altezza, e in continua competizione di specchi per le allodole con i suoi vicini centroasiatici, qualunque sfarzo cozza dolorosamente contro le reali condizioni di vita dei locali, che, quando possono, emigrano in Russia.

Il quarto Paese è il Kirghizistan, l’unica democrazia della regione. Anch’esso dalla storia travagliata a seguito dell’indipendenza, il conflitto tra i kirghisi e la numerosa minoranza uzbeka ha portato una guerra civile che ancora oggi genera tensioni e minacce di nuovi conflitti. Seppur fragile e imperfetta, la democrazia regge e tra i giovani c’è molta speranza per il futuro. Progetti che contrastano con il mantenimento di tradizioni come quello del ratto della sposa, l’usanza di rapire ragazze e sposarle in fretta e furia mettendo la famiglia di lei davanti al fatto compiuto; sono poi ampiamenti praticati, non solo a fini turistici, sport tradizionali come l’allevamento di falchi e le acrobazie a cavallo, l’animale più ammirato e amato della regione. Quello in Kirghizistan è forse il viaggio che più fa riflettere, e che pone parecchi quesiti su come sarebbe potuta andare negli altri Paesi dell’Asia centrale qualora il passaggio dalla dittatura sovietica alla democrazia fosse avvenuto.

Il quinto e ultimo Paese visitato è l’Uzbekistan, famoso soprattutto per l’antichissima città di Samarcanda, uno degli snodi più importanti della Via della seta, e per essere una delle dittature più brutali della regione, con una polizia che segue attentamente anche turisti e turiste. Tra le ex-repubbliche sovietiche è quella con i rapporti più stretti con la Russia, che l’aiuta a gestire le richieste di autonomia e indipendenza da parte delle minoranze etniche. La bellezza di città come Samarcanda e Tashkent poco può contro le brutture di un regime oppressivo e le conseguenze disastrose delle politiche sovietiche come quelle verso il lago d’Aral: un tempo il quarto lago più grande del mondo, oggi quasi del tutto prosciugato a causa dell’intensiva coltivazione di cotone, che rimane uno degli export principali del Paese, un disastro ambientale le cui reali proporzioni sono ancora difficili da comprendere e prevedere. I due dittatori che si sono succeduti dopo l’indipendenza, Islom Karimov e Shavkat Mirziyoyev, si sono occupati pochissimo della questione ambientale o di cercare di ridimensionare la dipendenza dal cotone, più impegnati a reprimere nel sangue le rivolte nella regione del Karakalpastan e al confine con Kirghizistan e Tagikistan, e l’intensa attività dell’estremismo islamico, che usa questi luoghi come crocevia per il traffico di armi e droga, nonché a cercare di rendere il Paese una meta turistica appetibile scommettendo sulla millenaria storia di Samarcanda e Khiva, tra le città più antiche del mondo.

“Paradosso”, si è detto, è la parola che più viene a mente scorrendo le pagine di Sovietistan: il paradosso di Paesi che sognavano in grande e si sono ritrovati piccoli per le scelte cieche della classe dirigente, che guarda al passato con orrore e nostalgia assieme, chiusi ma che cercano disperatamente approvazione e investimenti esterni. Mentre seguiamo il viaggio di Fatland tra queste cinque nazioni conosciamo la loro storia e le storie delle persone, che non esitano a ospitare l’autrice nelle loro case e a invitarla ai matrimoni come se fosse un’amica di famiglia, che si confessano con lei e, a volte, esprimono i loro reali pensieri sulla condizione propria e del loro Paese, che sia essa positiva o negativa.
Questa area diventerà con ogni probabilità una delle più importanti del mondo quando il progetto della Nuova Via della seta prenderà vita, assieme alle sue infinite risorse naturali e alla vicinanza con Russia e Afghanistan; se vogliamo comprendere davvero cosa succederà e cosa potrebbe accadere nel futuro, Sovietistan è una lettura imprescindibile per comprendere la storia contemporanea di una regione millenaria.

Erika Fatland
Sovietistan. Un viaggio in Asia Centrale
Marsilio Editore, Padova, 2017
pp. 488
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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.
