Le strade della giustizia

La prima giornata del convegno nazionale di Toponomastica femminile si apre con la moderazione di Fosca Pizzaroni e gli interventi di Enzo Battarra e Maria Pia Ercolini come già riassunti qui.

La seconda parte di interventi è moderata da Lidia Luberto e contiene gli interventi di Graziella Priulla, ex professoressa di sociologia; Francesco Menditto, magistrato; Rita Raucci, docente e interprete che ha proiettato il suo cortometraggio Io vivo per te; Gabriella Maria Casella, magistrata presidente del tribunale di Santa Maria Capua Vetere; e Tiziana Maffei, dirigente del Mic-Reggia di Caserta.

Io vivo per te è un cortometraggio che mostra una forma di violenza subdola e difficile da riconoscere, quella del gaslighting: il nome viene dall’omonimo film del 1944 – in Italia uscito col titolo di Angoscia – che è a sua volta trasposizione di un’opera teatrale degli anni Trenta, e consiste nel far dubitare la vittima della sua percezione della realtà tramite una fitta rete di bugie e mezze verità; l’obiettivo a lungo termine è abbatterne le difese e renderla più facilmente manipolabile e dipendente dal o dalla carnefice. Il gaslighting è, come già detto, una violenza subdola, perché non ovvia: non ci sono lividi o ferite che la segnalano, solo un lento decadimento psicologico che spesso non viene colto dalle persone attorno la vittima perché mancanti delle conoscenze e dei mezzi per riconoscerlo. Raucci racconta di come lo studio del gaslighting l’abbia portata a fare una analisi approfondita degli stereotipi sia maschili che femminili, per comprendere le radici di quel rifiuto tutto culturale di vedere la donna vittima di violenza anche quando ha segni tangibili sul suo corpo, figurarsi quando è “solo” aggredita psicologicamente. Questi stereotipi sono il vero ostacolo alla parità di genere, e solo una buona educazione può permettere di prendere consapevolezza di queste situazioni, aiutando nella sua prevenzione o risoluzione.

Da sinistra: Rita Raucci, Francesco Menditto, Graziella Priulla, Lidia Luberto, Gabriella Maria Casella. Foto di Nadia Marra

Prende poi la parola Gabriella Maria Casella. Parlare di violenza di genere è complicato in quanto è un fenomeno che presenta vari profili di analisi che toccano le corde di molteplici figure professionali. Caserta è un territorio dove la condizione delle donne è drammatica: c’è un crescendo di richieste di aiuto come mostrano i dati della cooperativa Eva con cui la magistrata collabora, l’età varia da giovanissime alle più anziane, segno che anche le vecchie generazioni stanno prendendo coscienza di quanto certi comportamenti siano sbagliati, superando un’educazione che li vedeva invece come normali; tuttavia, poche denunciano. La violenza psicologica è più diffusa di quella fisica, la quale rimane comunque particolarmente efferata quando avviene, segno della presenza di una sottocultura difficile da estirpare. I dati mostrano poi che i carnefici sono in maggioranza italiani, sono in genere il partner o un familiare; sfatano il mito della malattia mentale o dell’abuso di sostanze stupefacenti come causa del comportamento violento, mentre appare una correlazione con l’avere dei precedenti e la reiterazione di reati simili. C’è assoluto bisogno di una maggiore consapevolezza di questo genere di situazioni a tutti i livelli, da quando una donna si rivolge al centro antiviolenza, e riceve assistenza psicologica, alla magistratura che si occuperà del caso qualora ci sia una denuncia. La cooperativa ha in tal proposito ideato il progetto Luana, che nasce per formare e sensibilizzare operatori e operatrici sociali a Caserta ed è arrivato fino ai tribunali, per far vedere anche a magistrate e magistrati le realtà problematiche del territorio. È ancora presto per tirare le somme, ma l’idea è stata molto ben accolta ed è ripetibile anche in altre zone che hanno una situazione simile a quella di Caserta. Da notare, inoltre, che di recente la Cassazione ha riconosciuto la parzialità mostrata da alcune e alcuni giudici nelle loro sentenze, sottolineando quanto il loro bagaglio culturale abbia influenzato le motivazioni e abbia loro impedito di mostrarsi equi ed eque, influenzate dai propri pregiudizi invece di attenersi ai fatti. Questo è segno che qualcosa si sta muovendo e sta a noi impedire che tutto torni nell’immobilismo.

Graziella Priulla interviene sottolineando come parola e linguaggio siano in un rapporto biunivoco, e per questo lo studio del linguaggio e dei modi di comunicare è particolarmente importante quando si affrontano le tematiche di genere, specie oggi che i social media hanno radicalmente modificato il modo in cui ci relazioniamo con altre persone. Se da un lato essi sono fondamentali per la diffusione di idee e l’organizzazione che porta poi ad azioni concrete, dall’altro hanno ampliato la misoginia e normalizzato alcuni comportamenti discriminatori, soprattutto presso le fasce di età più giovani a cui viene spesso dato in mano un telefono per tenerle impegnate senza però supervisionare i contenuti che consumano. Tramite un bombardamento costante di parole e di immagini e senza il filtro del genitore, cadono i freni inibitori: di fronte a una tastiera e a uno schermo che garantiscono l’anonimato e quindi l’assenza di un giudizio sociale, non c’è più alcun interdetto che impedisca alla persona di insultare anche in modo veemente un’altra – non a caso, quando sono identificate queste persone subito cercano di smarcarsi in ogni modo possibile dalle loro colpe o di nascondersi. Oggi l’insulto è stato normalizzato, un comportamento amplificato dal conformismo sociale: nel 2018 Zingarelli aggiunse all’interno dei suoi dizionari il termine hater l’odiatore di professione – e qualche anno dopo arrivò bystender – coloro che assistono a un comportamento scorretto senza intervenire – riconoscendo così un fenomeno ormai dilagante. Le donne sono il capro espiatorio perfetto, l’impronta per diverse forme di espressioni d’odio: chiunque sia appena più visibile del solito diventa un bersaglio da lapidare con le parole; da Greta Thumberg a Liliana Segre, non conta l’età, l’etnia, la classe sociale: tutto può diventare oggetto di ingiuria, anche se quella preferita rimane quella verso il sesso di appartenenza; l’insulto estetico è quello più frequente, senza dimenticare le minacce di violenza e di morte. Se a essere preso di mira è un uomo, invece, spesso l’odio viene dirottato sulle donne della sua famiglia, augurando loro ogni male possibile. Questo dimostra quanto la misoginia sia insita nella nostra cultura, quanto faccia parte dell’ossatura che tollera e giustifica la violenza maschile sulle donne, dalla molestia al femminicidio che è solo la punta di un iceberg di soprusi che rimane in gran parte sommerso. Oggi assistiamo a una fragilità maschile spaventosa, una mascolinità tossica che ha radici antichissime e che per essere smantellata ha bisogno del lavoro della società tutta. Il linguaggio è ciò che fa vedere in modo plateale ciò che viene nascosto o volutamente ignorato: nel lessico si contano più di 90 insulti verso una donna la cui unica “colpa” è essere sessualmente libera – e da questo numero sono esclusi i dialetti; già ai più piccoli si insegna a insultare le compagne in modi irripetibili, normalizzando comportamenti violenti; il maschile universale che molti e molte si ostinano a difendere continua a nascondere la presenza femminile, a dare il maschile per scontato. Le donne interiorizzano tutto questo, arrivando anche a pensare che la violenza sia un evento inevitabile, un fatto naturale invece che culturale, che è determinato dalla conscia volontà individuale. L’uomo non è un mostro incapace di controllarsi e la donna non ha alcuna colpa della violenza subita: questi sono discorsi che vanno fatti in ogni campo e a ogni livello, specie oggi che perfino la parola “consenso” ha assunto una sfumatura problematica quando immersa nel contesto delle relazioni tra uomo e donna, e la stessa lingua italiana non ha termini che descrivano i rapporti sessuali che non implichino l’imposizione di un corpo su un altro.
Ci sono gruppi che hanno interessa a impedire la discussione di questi temi, ma non dobbiamo farci frenare.

Prende poi la parola Francesco Menditto. La tendenza ad annullare le donne e a non valorizzare i loro contributi è ormai comprovata. Tanto è andato perso a causa della mancata valorizzazione del femminile, una verità che Menditto vive tutti i giorni tramite il suo mestiere. Collaborando con Toponomastica femminile ha abbellito la sua procura tramite i pannelli della mostra L’altra metà dell’arte, dal titolo eloquente, dedicata ai più rilevanti nomi femminili dell’arte contemporanea, contributi che andrebbero altrimenti perduti se non ci fosse l’impegno di realtà come Tf. Menditto poi raccomanda ai ragazzi in sala di non girarsi dall’altra parte davanti gli atti di violenza perché è anche loro responsabilità contribuire alla lotta per la parità. Il suo compito come procuratore della repubblica è di individuare i responsabili dei reati; nel caso della criminalità di genere, un fenomeno diffusissimo, spesso si deve far fronte al pregiudizio: all’interno delle stesse forze dell’ordine spesso si sminuisce la gravità degli atti di violenza e si è reticenti a chiamare “criminali” gli uomini che si macchiano di queste azioni. All’interno della propria procura Menditto ha creato un gruppo di magistrati e magistrate che si occupa specificatamente di questo fenomeno, creando una rete diffusa sul territorio che coinvolge la polizia, i carabinieri, i centri antiviolenza e il supporto psicologico che accoglie le donne che scappano e denunciano; un lavoro necessario per guadagnarsi la loro fiducia e che ha permesso in poco tempo di raddoppiare le denunce. Parlarsi e capirsi, e non trincerarsi dietro la carenza di agganci o dietrologie: se c’è una visione comune c’è modo di agire e speranza di migliorare.

Tiziana Maffei nell’intervento successivo parla del museo come servizio alla società e dello studio come mezzo per ottenere la libertà: il patrimonio culturale è l’arma più grande a nostra disposizione, che permette di combattere un sistema che vuole le donne il più ignoranti possibile, impedendo loro di realizzare il loro potenziale e di cercare aiuto in caso di bisogno. Cultura e istituzioni devono andare di pari passo perché sono gli unici che possono determinare un vero cambiamento. La Reggia di Caserta e il complesso del Belvedere di San Leucio sono il risultato della visione illuminista di un uomo, Carlo di Borbone, e soprattutto di una donna, la regina Amalia, che come tante prima di lei è stata una figura fondamentale per la circolazione delle idee che hanno contribuito a costruire una cultura europea. Eppure spesso si preferisce fare gossip su di loro invece che parlare delle loro capacità: spesso le guide parlano dei presunti amanti di Carolina e non del circolo internazionale di intellettuali riunito attorno a lei, che parlava fluentemente cinque lingue, o del suo governo in vece del marito o della sua evidente influenza nella stesura dello Statuto di San Leucio, una raccolta di leggi che regolamentava la vita della Real Colonia di San Leucio e dei suoi abitanti, tutte e tutti impiegati nell’industria della seta che tanto rese famoso il piccolo borgo. Lo Statuto è uno dei più squisiti esempi di dispotismo illuminato e della volontà di raggiungere uguaglianza sociale ed economica e, per la prima volta nella cultura occidentale, sancisce l’uguaglianza della donna con gli uomini. È in onore di questa eredità che nasce il progetto Marmellata della regina: collaborando con la cooperativa Eva, le donne ospitate nel centro antiviolenza – che spesso fuggono da contesti malavitosi – raccolgono le arance che crescono nei giardini della Reggia e ne fanno vari prodotti, da marmellate a profumi. Come già Carlo e Amalia di Borbone, sovrani illuminati, avevano intuito, l’autonomia economica è fondamentale per poter godere della libertà; e come loro crearono lavoro e produttività nella Real Colonia, così oggi la Reggia riprende questo esempio e contribuisce a creare una realtà che unisce lo spirito dello Statuto leuciano alle moderne istanze ecologiste, potendo così aiutare tante donne a rifarsi una vita.

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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.

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