Sandro e io eravamo gli unici cugini maschi in un esercito di cugine e di zie e di mamme che tenevano banco a suon di tagliatelle, risate e schiaffoni. C’incontravamo a Rimini quando papà aveva le ferie, perché a rigore, come mia madre rimarcava ogni anno, i parenti erano i suoi: la cugina Silvana, che tutti dicevano essere una bella donna, aveva sposato un partigiano diventato poi professore di storia e filosofia, e anche vicesindaco, però sempre comunista. Nessuno poteva disturbarlo nel suo studio pieno di libri, ogni tanto chiamava la Silvana per farsi portare un caffè e spesso se ne andava a cena con la giunta comunale a mangiare pesce in grande allegria. Sandro imparò presto come si vive perché la sorella Susanna gli rifaceva il letto e gli raccattava la biancheria sporca dal pavimento. Anche lui divenne bello e comunista, addirittura senatore, e padre di quattro figli da quattro donne diverse, che a quanto pare l’avevano presa bene.
Finché fummo bambini Sandro e io restammo legatissimi. Spesso, l’estate, mi fermavo un paio di settimane da lui. Ognuno dei due trovava nell’altro il fratello che non aveva mai avuto; a me sarebbe piaciuta anche una sorella, ma lui si sentiva figlio unico come me, perché la Susanna non pareva considerarla umana.
A ogni nuovo incontro passavamo almeno un’ora ad aggiornarci sull’anno appena passato, sui desideri, le aspettative, i giochi. Un giorno mi raccontò i dettagli della recente perdita della verginità a opera di un’olandese o tedesca o scandinava, che a Rimini ne villeggiavano a milioni, e io ci rimasi di sale perché avevamo quattordici anni e il sesso così precoce non l’avevo mai neanche fantasticato. Fosse stato chiunque altro avrei pensato a una fanfaronata, ma Sandro era onesto come suo padre. In quel momento avvertii una piccola crepa: un nonnulla, però si allargava. Non avevo ancora abbandonato i giochi e avevo appena scoperto la musica, lui invece prese a parlare solo di politica – alle medie era già un militante – e di sesso: la prima mi annoiava e sul secondo non sapevo cosa dire, tranne qualche oh caspita e diversi punti esclamativi.
Andavamo in spiaggia insieme, facevamo il bagno e c’era spesso qualche ragazza che ci piaceva, Sandro attaccava bottone e usciva dall’acqua insieme a lei. Io lo seguivo, anche se avrei desiderato sguazzare più a lungo, e lui mi diceva di aspettarlo al bar; se avevo le cinquanta lire mi compravo un ghiacciolo e ascoltavo a sbafo il jukebox, e poi vedevo lui che mi salutava ridendo mentre si allontanava con la ragazza che ci piaceva. Allora me ne restavo un altro po’ accanto al jukebox e me ne tornavo a casa. Alla sera mi raccontava e io mugugnavo, ma non trovavo il coraggio di rimproverargli nulla. Il suo viso era aperto, gli occhi ridevano prima della bocca stringendosi in due fessure che esprimevano sincerità, gioia, disarmante fratellanza. Dopo cena ascoltavamo dischi e una volta che ero più stizzito del solito me ne regalò uno, dei Rokes, che mi piaceva tanto, (gli feci notare che sulla copertina c’era il nome della Susanna, ma lui disse che non era un problema).
Un pomeriggio mi mollò come al solito e io cominciai a pensare che tanto valeva farsene una ragione. Era il tempo dei cambiamenti, me ne stavo accorgendo – il che non significa che li stessi accettando; io stesso da un giorno all’altro non mi riconoscevo. Non avevo voglia di tornare a casa e presi a girare su e giù per il lungomare. Gli stabilimenti balneari che si succedevano si chiamavano Belsito, Miramare, Sabbiadoro, Rivazzurra, ognuno con ombrelloni di colori diversi, che i bagnini cominciavano a chiudere. Dalla battigia mi sentii chiamare. Mi girai e vidi una figura familiare farmi ciao con la mano. Riconobbi la Susanna, seduta sulla sabbia in mezzo ad altre ragazze. La salutai anch’io, lei mi fece segno di avvicinarmi, così lasciai il marciapiede e mi diressi verso il mare. Quando fui a pochi metri notai qualcosa di strano nella sua figura. Era semisdraiata come una Paolina Borghese, le gambe sepolte sotto la sabbia, le amiche le avevano modellato sopra una coda di sirena. La salutai e le chiesi come si fosse conciata, e lei ridendo: «Vedi? Ora conosci il mio segreto». Assunse una posa statuaria molto buffa e apprezzai il profilo del suo naso, che non era banalmente dritto né tantomeno “alla francese”, come si usava dire ed era di moda, ma formava un leggerissimo angolo che dava al suo sguardo una nota orgogliosa di rapace, non minaccioso per me, ma neppure mansueto: come un falco da caccia. Era il naso della Silvana, quello che l’avrebbe mantenuta bella anche in età avanzata, mentre i tratti giovanili e seducenti di Sandro ne avrebbero fatto negli anni una caricatura di bambino invecchiato.
Quella sera la Silvana aveva preparato leccornie in abbondanza come al solito, il vicesindaco impose il silenzio perché doveva sentire il telegiornale, la Susanna stette ben attenta a non far rumore mentre apparecchiava, Sandro commentava le notizie seduto accanto al padre, che però ogni tanto lo zittiva con un gesto. La Susanna andò in cucina per prendere qualcosa, le chiesi se la potevo aiutare e mi fece segno di accompagnarla. Avevo voglia di parlarle, ma tenni per me i pensieri e mi limitai a scherzare sulla sua natura segreta di sirena, sulle cose che non sapevo di lei e che, mi disse, forse un giorno mi avrebbe lasciato conoscere.
Ieri sera mi ha telefonato, pensavo per gli auguri di buon anno, ma mi ha detto: sì, anche, ma volevo dirti che la mia mamma è morta, aveva quasi cent’anni; era ancora bella, ho risposto, con quel naso fiero che nessuna ruga aveva potuto scalfire. E tu?, le ho chiesto poi, come stai? La famiglia? Ti godi la pensione? Sì, ha risposto, tutto bene. «Alla lunga, a noi sirene la vita ci dà ragione».
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Articolo di Mauro Zennaro

Mauro Zennaro, grafico, è stato insegnante di Disegno e Storia dell’arte presso un liceo scientifico. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla grafica e sulla calligrafia. Appassionato di musica, suona l’armonica a bocca e altro in una blues band.
