Babbo Natale è stato sempre generoso. Con me, intendo, perché con Anna non tanto. Le nostre madri erano amiche d’infanzia e, di conseguenza, noi pure. Suo padre possedeva una segheria piuttosto tetra in quella che allora era l’estrema periferia, un capannone circondato da un terreno selvatico, pieno di sorci e di lucertole che prendevano il sole e facevano i loro traffici fra cataste di tronchi. Lì, col bel tempo, le nostre famiglie passavano insieme le domeniche, le madri portavano un pranzo rustico e saporito, mangiavamo insieme e poi i grandi parlavano dei fatti loro. Anna e io, che non amavamo le chiacchiere, preferivamo esplorare.
Quell’anno a Natale ricevetti un fantastico fucile ad aria compressa. Era un’arma vera, seppure difficilmente letale, e mio padre aveva dovuto addirittura denunciarlo alla polizia. Ho ancora quella carta bollata, ogni tanto la rileggo e penso a lui. Ho anche il fucile, da qualche parte, e ben oliato, ma non lo tocco da decenni. Anche Anna aveva chiesto un fucile nella sua letterina, ma si vede che ci aveva messo poca fede, perché il fucile non era arrivato.
Quel Natale avevamo fatto la vigilia a casa nostra, mia madre aveva passato due giorni in cucina e sfoderato tutto il repertorio, che ancora ne sento i sapori. L’albero decorato, alto fino al soffitto, risplendeva di lucine e le palle di vetro ci riflettevano e ci moltiplicavano a colori. Sotto l’albero pacchi e pacchetti, dalle cui forme cercavamo di indovinare i contenuti. Quell’anno lo capii subito, il pacco era stretto e lungo. Ma così ce n’era solo uno, anche Anna capì e conservò un’espressione disillusa per tutta la cena. L’attesa dei regali venne tirata in lungo come al solito, giocando a mercante in fiera e a sette e mezzo. Quando Anna e io non ne potemmo proprio più, i grandi ci diedero il permesso di avventarci sui pacchi colorati. Io lasciai per ultimo quello lungo e scartai l’altro, quello della famiglia di Anna, che era sempre qualcosa di poco memorabile. Anna aprì un pacco di taglia media ma quasi quadrata. A essere ottimisti poteva starci dentro una pistola ad aria compressa, come quella con cui sparavo alle mosche d’estate, ma sapevamo bene tutt’e due che non c’era da sperarci. Infatti Anna non strappò la carta con impazienza ma sciolse il nastro con molta calma, aprì la scatola con una delicatezza che fu apprezzata dalle mamme (ma che, sapevo bene, era noia e delusione) ed estrasse una macchina di cucire di plastica. Rosa. L’ago di plastica si muoveva pure. Che bella, disse senza punti esclamativi. Negli anni precedenti aveva ricevuto un ferretto da stiro lilla, una batteria di pentole di latta con le maniglie colorate, un aspirapolverino turchese che ronzava ma non aspirava nulla. Io, invece, un treno elettrico, un meccano e soprattutto archi, frecce e revolver. Adoravo le armi, e Anna pure.
Nelle fotografie che ci ritraggono fino ai dodici anni, Anna e io siamo uguali. Non tanto per la somiglianza fisica, ma perché sembriamo maschietti tutt’e due: lei con i capelli corti («è più pratico», diceva), le nostre ginocchia sbucciate sempre in vista, io con i pantaloncini e lei con gonne a tinta unita. Forse per questo andavamo d’accordo: per me lei era un fratello.
Dopo quel Natale presi a portare sempre il fucile alla segheria. Siccome eravamo fratelli mi sembrava giusto dividercelo. Allineammo barattoli e pezzetti di legno su una catasta di travi, ci allontanammo di una decina di passi e sparammo. Anna centrò tutti i bersagli, io più o meno la metà. Collocammo altri bersagli su una trave, ci allontanammo di altri dieci passi, prima io e poi lei prendemmo al mira e sparammo: i suoi piombini andarono tutti a segno, i miei non proprio.
Vidi una lucertola che prendeva il sole su un tronco e le sparai. Le mozzai di netto la coda e quella scappò. Anna disse «Bravo» e si guardò in giro, vide un’altra lucertola, prese il fucile e la inchiodò al tronco. «Brava!», le dissi io. Scoprimmo che ci piaceva ammazzare. All’epoca nessuno ci trovava niente di male, perché l’idea dei diritti degli animali era di là da venire. Pensai che forse potevamo beccare qualche sorcio, così ci mettemmo in attesa, in silenzio e immobili come gatti. Un topo apparve tra il legname, il suo naso si muoveva, annusava qualcosa. Presi la mira ma lo mancai e lui si rintanò. Aspettammo a lungo, immobili, finché non riapparve. Era il turno di Anna: caricò il fucile in perfetto silenzio, prese la mira e staccò di netto la testa al topo. Le feci i miei complimenti. Credo che quello sia stato il momento di maggior vicinanza tra noi.
Una domenica di pioggia andammo al cinema dei preti, davano sempre film molto eccitanti, storie di vampiri, di guerra, soprattutto western. Quella domenica c’era Anna prendi il fucile, il titolo ci piaceva, a lei soprattutto. Alla fine rimasi deluso perché era uno di quei musical in cui ogni tre per due c’è qualcuno che canta. Era proprio una cosa che non capivo: durante una scena d’amore, o una bella sparatoria, all’improvviso l’eroe e la sua bella si mettono a cantare una canzonetta idiota che non finisce più. La storia non era male, parlava di una ragazzotta che sparava da dio e vinceva a una sfida un belloccio piuttosto antipatico, noto per essere un grande tiratore. Lei è abbastanza carina, ma poi s’innamora del belloccio e diventa un po’ scema. Pure lui s’innamora e andrebbe tutto bene, se non fosse che questa Anna del film, per salvare l’amore, decide di lasciar vincere il belloccio, che trionfa e quindi l’ama un sacco. Quando uscimmo dissi ad Anna che secondo me il film era una boiata infame, ma lei non rispose. Sembrava intenta a pensare qualcosa.
Diventava ogni domenica più brava, io sempre così così, e tutte le volte che andavamo alla segheria facevamo una strage. Nel frattempo, volenti o nolenti, crescevamo e ci veniva voglia di allontanarci dai genitori. Una domenica mi propose di andare al luna park. Porto un amico, mi disse. Io non trovai niente da ridire, solo l’avvertii che sulle montagne russe non ci sarei salito, quando l’avevo fatto avevo vomitato. Tranquillo, mi rispose. Arrivò all’appuntamento puntuale, con il suo amico. Notai che era vestita tutta curata, perfino truccata, e puzzava di profumo. Non ero felice di quella nuova compagnia. Non ero esattamente geloso, però un po’ sì: lei ed io eravamo fratelli e quello sconosciuto mi sembrava volersi frapporre tra noi. Era molto gentile con lei, non particolarmente sveglio, anzi un tantino rimbambito, ma faceva il galante. Gli avrei sparato. Arrivammo a un baracchino del tiro a segno, io lo trovai umiliante perché si tirava a palloncini da due metri e si vincevano ridicoli peluche da bambini. L’amico le chiese: vuoi sparare? E Anna rispose educatamente sì, se ti fa piacere, e arrossì. Il gestore le porse il fucile, lei si schermì: «Non è che sono tanto brava, eh». C’era una fila di gessetti che Anna avrebbe polverizzato a occhi chiusi, ma niente. Non ne colpì nemmeno uno. L’avrei presa a sberle ma lei mi lanciò un’occhiataccia. L’amico prese il fucile, le sorrise e colpì circa un quarto dei gessetti, al che Anna gli disse che era un genio. Mi veniva da piangere, ma feci un sorriso acido e commentai: complimenti, proprio un tiratore scelto. Lui rise tutto contento. Io mi rifiutai di tirare. L’uomo del baracchino diede ad Anna un pupazzetto piuttosto triste.
L’ultima volta che l’ho vista è stata il giorno del suo matrimonio con il tiratore scelto. Le ho fatto gli auguri. Dopo la cerimonia me ne sono andato con una scusa. Non vieni a pranzo? mi disse, e sembrava sinceramente dispiaciuta. No, risposi, ho voglia di sparare a qualcuno. Mi guardò perplessa, ma mi affrettai a dichiarare: in nome dei vecchi tempi.
***
Articolo di Mauro Zennaro

Mauro Zennaro, grafico, è stato insegnante di Disegno e Storia dell’arte presso un liceo scientifico. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla grafica e sulla calligrafia. Appassionato di musica, suona l’armonica a bocca e altro in una blues band.

il coraggio di ricordare è farlo con la scrittura stupenda ed evocativa solita. Una storia bella. Persino un po difficile da dire oggi. Spesso per l’ipocrisia di tanti e tante di noi. Ecco ammettere semplicemente davanti a tutti: o , noi , facevamo cosi
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il coraggio di ricordare è farlo con la scrittura stupenda ed evocativa solita. Una storia bella. Persino un po difficile da dire oggi. Spesso per l’ipocrisia di tanti e tante di noi. Ecco ammettere semplicemente davanti a tutti: o , noi , facevamo cosi
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