Femminismo/femminismi. Intervista a Claudia Corso Marcucci

Claudia Corso Marcucci è nata a Pietrasanta, il 14 maggio 1997.
Ha conseguito la laurea triennale in Grafica all’Accademia di Belle Arti di Carrara, con un progetto di tesi sulle relazioni tra arte contemporanea e scienza. Appassionata dall’argomento, ha quindi frequentato il corso magistrale in Arti Visive presso l’Università di Bologna, continuando a interessarsi di arte-scienza-tecnica, specializzandosi con una tesi monografica su Pinot Gallizio.
Tenta di conciliare i suoi interessi con il percorso creativo che ha intrapreso, lavorando come illustratrice e come graphic designer. Appassionata fantascientista e femminista militante, pratica l’autocoscienza e opera come volontaria in un’associazione anti-tratta.

Femminismo/femminismi: è possibile l’unità nella pluralità?
Questa è la domanda più difficile, da sempre nella storia del femminismo vi sono divergenze, come del resto nella storia dei movimenti di sinistra. Certo la base comune è la forte componente umanitaria, però, chiaramente, fare un calderone in senso positivo è difficile: le persone non sono tutte uguali, come le donne non sono tutte femministe. Le divergenze sono tante, tuttavia auspico una unitarietà dei femminismi. Io per prima non mi trovo d’accordo con alcuni femminismi, ma credo che la base comune non possa essere che partire dalle donne: il problema, però, è che anche nei femminismi c’è un dibattito su che cos’è una donna…

Angela Putino in una fotografia scattata presumibilmente negli anni Settanta (Marcello Faletra)

In ogni caso è bene sempre mantenere il dialogo aperto: una femminista che apprezzo molto, Angela Putino, parla spesso dell’arte del polemizzare tra donne (è un focus del suo pensiero), rigetta l’idea che nel femminismo bisogna essere tutte d’accordo, questo vorrebbe dire disumanizzare le donne.
Il punto è questo: di volta in volta occorre ascoltarci (nei femminismi spesso non ci si ascolta, e questo è un grande problema), le esperienze da cui derivano le diverse teorie possono essere fatte coincidere. L’unità è possibile se alla base c’è la voglia di confrontarsi e ascoltarsi; se non riusciamo a trovare un tutto comune, possiamo fare dei piccoli passi insieme, poi di volta in volta dividerci su strade diverse. Io, per esempio, vado ai cortei di Non Una Di Meno, anche se non condivido buona parte delle posizioni di questo movimento: cammino volentieri con le altre quando penso che sia possibile farlo.
È quello che è stato fatto alla fine dell’Ottocento in Italia da Anna Kuliscioff e Annamaria Mozzoni, poi negli anni Settanta negli Stati Uniti dal femminismo.

Anna Kulisciov in una fotografia a Firenze nel 1908 (Mario Nunes Vais)
Anna Maria Mozzoni in una fotografia di autore non noto scattata
presumibilmente nel 1900 circa

Negli anni Novanta è parso che l’essere femministe fosse diventato un disvalore. Perché?
Una mia cara amica femminista, Cecilia Alagna, che è di due generazioni più anziana di me, mi racconta spesso che durante la sua adolescenza essere femminista era quasi indicibile… A questa domanda dà risposte il libro di Susan Faludi Contrattacco: l’autrice racconta come, sul finire degli anni Ottanta, si fossero fatti dei passi indietro rispetto alle conquiste del decennio precedente, come i maschi si fossero ‘armati’ contro il femminismo, per far sì che essere femminista diventasse una sorta di vergogna. Ci fu allora una vera e propria campagna di stampa sul fatto che le donne preferissero stare a casa invece che andare al lavoro; si impose, per mezzo delle televisioni, un altro tipo di estetica, e le soubrette spostarono il focus verso una nuova idea di donna capace di fare carriera grazie alla sua bellezza, in contrasto con le donne comuni; si disse che tutto quello che volevano le femministe era in realtà peggio per le donne.

Cecilia Alagna in un fermo immagine della ripresa video dell’incontro Gravidanza e genitorialità tra intimità e mercato, Milano, 21 maggio 2022

Non è un caso che sul finire degli anni Novanta la nuova ondata femminista assume una connotazione queer, il ‘vecchio’ femminismo è ritenuto superato. Eppure, le donne continuano ad avere problemi: non essere ammazzate, conciliare casa e lavoro… Il vuoto di quegli anni (che per ragioni anagrafiche non ho vissuto, anche se grazie a ciò che ho letto me ne sono fatta un’idea) ha ridefinito completamente il femminismo.

Susan Faludi in una fotografia scattata presumibilmente
nei tardi anni Dieci (Toni Luong)

Si afferma ora il cosiddetto ‘femminismo neoliberale’, che si traduce in un trionfo dell’individualismo, nell’affermazione di diritti e opportunità per sé sola, non per tutte… Che ne pensi?
Penso che sia negativo. Capisco che effettivamente ora non c’è più l’idea che la parola ‘femminismo’ sia impronunciabile, ma è successa una cosa che ha snaturato femminismo: il capitalismo lo ha inglobato, il femminismo è diventato, in alcuni casi, una mossa per vendere, una medaglietta da applicarsi. Se una donna si dice femminista e poi non è autentica, il femminismo diventa solo un’etichetta per dire che si è dalla parte dei ‘buoni’, senza attivismo.
I brand del trucco, per esempio, si dicono femministi…Io ho fatto un percorso a ritroso, sto recuperando testi femministi degli anni Settanta, che mettevano in discussione la gabbia della femminilità. È un paradosso che me la debba dire Barbie la battuta sui tacchi… Eppure, il film di Greta Gerwig è molto più autentico di tante cose, ha mostrato quello che il femminismo dovrebbe fare, vale a dire far vedere tutte le possibilità dell’essere donna. Questo è il vero fulcro del femminismo, tutto il ventaglio delle possibilità dell’essere donna… È meraviglioso, ma è quello che il patriarcato e il capitalismo ci impediscono, giocando sull’insicurezza delle donne per vendere merci, valorizzando quelle che ce l’hanno fatta per affossare tutte le altre. Le (pochissime) imprenditrici, per esempio, fanno sentire più in colpa quelle che non ce la fanno come se fosse colpa loro, come se non fossero abbastanza capaci.
Il femminismo neoliberale non critica il sistema, il femminismo vero, invece, dovrebbe farlo. Come possiamo pensare che sia una vittoria del femminismo far sì che le donne adottino ritmi di lavoro folli, a misura di uomini che non hanno il ciclo, né gravidanze, né cura della casa… Il modello, dunque, non è far sì che le donne diventino come gli uomini. Occorre rivedere il sistema lavorativo affinché sia a misura di tutte, di tutti. Il congedo per le donne che hanno il ciclo può essere un bene anche per l’uomo, per consentirgli tempi lavorativi più distesi, così come il congedo per paternità. Il femminismo neoliberale cavalca il capitalismo e ha inglobato le modalità che rendono più frustrate le donne: non saremo mai come ci vogliono gli uomini. E per fortuna, in realtà!

A partire dagli anni Dieci del Duemila si assiste a un ritorno del femminismo tra le giovani donne (vedi Non Una Di Meno). Quali le ragioni?
Un merito di Non Una Di Meno (che rappresenta un femminismo che certo non è neoliberale) è di aver fatto tornare in auge la parola ‘femminismo’, di aver coinvolto, anche in modo trasversale, molte donne. Aver concepito e diffuso il concetto di intersezionalità (nato negli Stati Uniti in ambito giudiziario) è invece della sinistra, che lo ha reso forte, estendendolo anche al femminismo, che è stato aiutato a sdoganarsi. Chiunque voglia fare una battaglia civile non può prescindere dai concetti di genere, razza, classe (già declinati da Angela Davis), non può che essere femminista, antirazzista, anticlassista. L’intersezionalità è riuscita a mettere tutti e tutte nell’ottica che ci siano delle battaglie che vanno combattute di pari passo, favorendo il femminismo anche nell’attivismo politico.

Angela Davis in una fotografia scattata durante un discorso a Raleigh, North Carolina, il 4 luglio del 1974 (Bettmann Archive)

È possibile, a tuo parere, accomunare donne (e persone non binarie) di diverse comunità, culture, classi sociali sulla base di una piattaforma comune? Per intenderci, dall’Iran all’Afghanistan, dagli Stati Uniti all’Italia?
Il punto comune è il patriarcato e la misoginia, dunque la piattaforma comune è la lotta al patriarcato, che è diffuso a livello globale. Quello che mi dispiace è non trovare un punto propositivo, procedere per negazione, ma non può che essere così, perché tutte le donne sono diverse, potrebbero vivere ognuna una vita diversa, se fossero libere. Tutte le nostre istanze derivano dal fatto che non abbiamo la libertà di fare quello che vogliamo, di crescere come vogliamo.

Femminismo/femminismi: mi chiedo se sia opportuno (e strategico) privilegiare ciò che divide e distingue (che pure non nego e a cui riconosco legittimità) rispetto a ciò che unisce e accomuna. Che ne pensi?
Sono d’accordo. Dovremmo privilegiare ciò che ci accomuna, perché è possibile farlo, perché l’unione fa la forza, dovremmo mostrarci come donne che nonostante le divergenze sanno che la propria liberazione non può esistere senza la liberazione dell’altra. È ovvio che è meglio privilegiare i punti in comune e, come ho detto, camminare di volta in volta insieme.

Quali sono state le ragioni profonde e quale l’occasione spinta che ti hanno portato al femminismo?
Ho avuto due grandi epifanie: la prima è stata il rendermi conto che i maschi sarebbero comunque andati avanti, che nonostante tutto io non sarei stata come loro. Il movimento per i diritti degli uomini, dichiaratamente misogino, lamenta che le donne hanno in mano il mondo, che sono cattive e opportuniste, che i poveri uomini sono loro vittime. E mi si è aperto un universo. Le donne vengono ammazzate, hanno ancora difficoltà in ambito lavorativo, sono educate come ‘brave donnine’, sono vittime del dualismo ‘santa/puttana’. Gli uomini si lamentano di cose assurde, quando invece sono io che da donna devo avere delle paure assurde: di essere molestata, vittima di violenza, assassinata… Questo è stato mio primo grande scontro con realtà che mi ha fatto diventare femminista.
La seconda epifania è stata l’incontro con una giovane mamma, a Palermo. Mi ha raccontato quanto si sentisse sola e abbandonata, da quando aveva avuto il figlio non riusciva ad andare (e a portarlo) da nessuna parte, il suo compagno non l’aiutava, pensava di essere emancipata e invece si era ritrovata a fare la donna di casa, soffrendo una grandissima solitudine. Il mio femminismo allora era molto di slogan, di partecipazione di piazza, aveva poco in mente la condizione delle donne, partiva dall’alto, da quello che pensavo fosse giusto dire. Ho percepito la solitudine di una giovane madre, le sue difficoltà, e ho capito che il mio femminismo deve essere una liberazione per tutte, non solo esternarsi in manifestazioni di piazza. Mi sono chiesta, e mi chiedo, “Io per chi sono femminista?” e so che devo esserlo non solo per me, ma anche per le altre, per tutte.

Quale istanza vorresti fosse prioritaria nel femminismo, nei femminismi?
L’autocoscienza, perché da quando ho scoperto questa pratica ho fatto un balzo qualitativo pazzesco, sia come femminista sia come persona (e mi sono resa conto di quanto noi donne non siamo abituate a essere persone). È una pratica che dovrebbe essere ripresa perché permette alle donne di partire da sé, da cosa vogliono o no, di sentire di avere un pensiero, di essere libere di vivere la propria vita come preferiscono. Finché le donne non si rendono conto di essere persone, non può esserci femminismo.
Pensati libera” è uno slogan bellissimo, ma non va praticato singolarmente, bensì tutte insieme, nella divergenza ma parlando con le altre. Se ci ascoltassimo di più, noi stesse e le altre potremmo veramente fare la rivoluzione. Da quando ho iniziato ad ascoltarmi, ad ascoltare le altre, mi sono resa conto della mia unicità e della somiglianza con le altre.
Come vedi il futuro per i diritti delle donne e delle persone non binarie?
Ho paura che siamo in una fase di contrattacco, i dati ci dicono che i maschi stanno diventando più conservatori, proprio in una fase in cui le donne tentano di liberarsi. Non vedo un futuro roseo, ma difficile, proprio a causa del grande ritorno al conservatorismo.
Sì, il futuro sarà molto faticoso, però, nello stesso tempo, sono piena di speranze, credo molto nel fatto che le donne siano incamminate verso il femminismo, verso la propria liberazione. Sarà faticoso ma credo che le donne acquisiranno consapevolezza per contrastare e sconfiggere il patriarcato.

In copertina: Autoritratto di Claudia Corso Marcucci (che ha adottato come secondo cognome quello materno) realizzato per Vitamine vaganti.

La galleria fotografica di donne qui presentata costituisce una ideale linea matrilineare o, come si diceva negli anni Settanta, “di sorellanza”.

***

Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

Lascia un commento