Un volo, uno zaino… e via! 

Iniziamo a pubblicare due dei sei racconti finalisti della sezione C-Narrazioni del Concorso per le scuole Sulle vie della parità, giunto nell’a.s. 2023-24 all’XI edizione. 
Ricordiamo che quest’anno la sezione C, dal titolo Donne in viaggio, era riservata a studenti universitarie/i, dottorande/i, borsiste/i. 

Ultima chiamata per il volo KL9087, breve racconto di Chiara Cibati, dell’Università di Roma 3, continua l’incipit (in corsivo nel testo) ideato da Emanuela Canepa; su di esso la giuria ha espresso il giudizio seguente: «Il racconto, aderente al tema e coerente con l’incipit scelto, è sintetico e felicemente ellittico. La prosa, sciolta e scorrevole, caratterizzata da un’impronta personale, si legge con piacere». 

Avverto qualcosa che mi scivola via dalla tasca dell’impermeabile. La mia mente registra appena il fenomeno, ma ho un trolley agganciato alla mano destra, uno zaino in spalla, e la borsa del computer che mi pende dal braccio. Con la stessa mano tengo saldo il cellulare mentre parlo attraverso gli auricolari. Sono in ritardo, hanno già annunciato l’ultima chiamata del volo. Arrivo di fronte al desk, chiudo la telefonata, porgo la carta d’imbarco all’addetta che la afferra e tende di nuovo la mano. Cosa vuole da me?  
Lei mi guarda ostile. — Il documento di identità, per favore. Rimango imbambolata come uno stoccafisso. D’improvviso mi torna in mente il movimento lieve contro il fianco. Mi frugo nelle tasche, ma so già che il passaporto è scivolato a terra forse cento metri prima, in un aeroporto immenso e affollatissimo. Non ho un documento valido. E senza documento non mi lasceranno partire. 

Calma. Fai un respiro profondo. Pensa. Stavo passando davanti alla libreria internazionale, quelle vetrine le noto sempre, dal gate saranno cinque minuti. — Senta, deve essermi caduto qui vicino, corro a cercarlo. 
So che posso giocarmela, nonostante abbiano fretta di imbarcare l’aereo non è ancora arrivato, vedo i miei compagni di volo accalcati nel corridoio, in attesa impaziente. L’assistente mi guarda, alza gli occhi al cielo, e «Vada — sospira — Ma si sbrighi». 
Riafferro tutto — trolley, borsa, il cellulare ancora in mano — e ripercorro il tragitto al contrario. Non credo di aver mai viaggiato con così tanti bagagli, ma questo viaggio è importante, il più importante della mia vita finora. 
Affretto il passo, lo sguardo rimbalza frenetico tra il pavimento e i negozi, borse, gioielli, accessori per cani, eccola qui la libreria, ci sono. Inizio a cercare per terra, mi chino, qualche passeggero incuriosito si avvicina per darmi aiuto, ho ancora gli auricolari, adesso sono io a chiedere, no, nessuno ha visto il mio passaporto. 
Forse non era qui, provo ad andare ancora più avanti, so che quelli che percepisco come pochi concitati secondi sono in realtà minuti, e molti. Avessi almeno la carta di identità, non la uso più da quando un addetto a Gatwick fingendo con gentilezza di interessarsi alla mia visita alla Blue Lagoon ne ha controllato minuziosamente ogni millimetro della filigrana, mi ci era voluta un’ora per passare i controlli. Dopo quell’episodio l’avevo scaricata come un inutile fardello del passato — che ironia, era una sopravvissuta, fatta poco prima che diventasse obbligatoria la carta elettronica; be’, quell’inutile passato oggi mi avrebbe permesso di partire. 
Torno senza fretta al gate, sono certa che non troverò più nessuno ma sono fatta così, non riesco a saltare al passaggio successivo senza verificare di aver completato il precedente. Ho ben chiara la sequenza delle azioni da fare, non è la prima volta che viaggio, e che viaggio da sola. Ho iniziato dieci anni fa, appena varcata la soglia dei trenta. Atene. Mi piacerebbe raccontare che è stata la conquista di una donna adulta, consapevole, ma la verità è che è stata una fuga, volevo evitare di scoprire se c’era un fondo oltre il fondo che avevo già toccato. Poi però c’ho preso gusto. Ai viaggi si sono aggiunti mostre, concerti, cinema; amo ancora condividere, certo, ma non mi privo più di esperienze se non ho compagnia, e a volte, lo confesso, poter regalarsi completamente a sé stesse è una vera libidine. Muoversi sole è nell’ordine naturale, o almeno così è nel mio: quanto spesso ancora quando ne parlo mi imbatto in reazioni di stupore o di scetticismo, a volte addirittura di rimprovero. — Che cos’è questa moda di andare in giro da sola, adesso, non mi piace — mi disse un amico al ritorno da un festival. Fattene una ragione, mio caro, non deve piacere a te. Deve piacere a me
Ho trovato l’ufficio dei carabinieri nell’aeroporto, per la denuncia di smarrimento, se sono fortunata magari riesco anche ad andare a farmi un documento nuovo. Non sembra esserci fila, entro, — Eccoti — mi accoglie l’appuntato, e senza darmi il tempo di realizzare aggiunge — Ti ho riconosciuta subito, una hostess ha appena portato il tuo passaporto, immaginava saresti venuta dritta qui. Sono felicemente in debito di un atto di gentilezza verso il genere umano, e non vedo l’ora di saldarlo.  
Rientro in possesso del mio passaporto, tiro un sospiro di sollievo — doppio; per lo più non provo un legame sentimentale verso gli oggetti, ma questo passaporto è nato sotto la pandemia, è piuttosto un documento del mio ottimismo, o forse della mia testardaggine — e rimetto gli auricolari. — Ehi. — Ehi, ma non siete ancora partiti? — No, no, l’aereo è partito, sono io che sono a terra. Avevo perso il passaporto ma l’ho ritrovato, poi ti racconto i dettagli. Comunque ho già trovato un altro volo, domani mattina alle 6.00, se va tutto bene sarò lì per le 10.30. —Okay, tesoro, basta che tu stai bene… abbiamo aspettato tanto, un giorno in più ormai non fa differenza.  
Già, abbiamo aspettato tanto. Ho aspettato tanto. E un giorno in più non fa differenza davanti all’inizio di una nuova vita

*** 

Per il racconto (senza titolo) di Chiara Gargiulo, che parte dall’incipit (in corsivo) di Adil Bellafqih, la Giuria così si è espressa: «Il racconto, aderente al tema e coerente con l’incipit scelto, rivela capacità di analisi dei problemi e di approfondimento psicologico. Espressione adeguata, sciolta e scorrevole». 

«E se poi è un assassino?» 
«Ma che dici?» 
«Che ne sai? Magari è tipo un Jeffrey Dahmer. Hai visto la serie?» 
«Era un forum di viaggi. C’erano gli annunci apposta per cercare partner. Ci siamo scritti e sentiti al telefono. Mi ha mandato la foto. So chi è». 
«E se fosse un fake? Io non mi fiderei». 
Seduta al terminal, non riusciva a togliersi quell’assurda conversazione di testa. Era in anticipo sull’appuntamento e più il tempo passava, più il nodo allo stomaco si stringeva. 

Si sforzava tanto per non pensare a quelle parole, ma continuavano a riecheggiare. Ogni volta che cercava di distrarsi pensando all’itinerario del viaggio, quei pensieri tornavano sempre più forti. Forse l’amica aveva ragione. Forse era un Ted Bundy con lo zaino da trekking e il tappetino da yoga. Forse era un nuovo Jeffrey Epstein e approfittava di ragazze che viaggiavano da sole. Forse era uno di quei bravi ragazzi che salutano sempre, ma poi picchiano la fidanzata. Forse. 
Forse no. 
Forse si trattava di una brava persona, qualcuno di realmente interessato a intraprendere un viaggio con una sconosciuta per un’avventura nel sud della Spagna. Certo, partire con qualcuno che già conosceva da tempo sarebbe stato più bello, ma, purtroppo, nessuno poteva. Il «lavoro», la «carriera» la «famiglia», a chiunque aveva chiesto, non era riuscita a ricavare una risposta positiva. Ma lei quel viaggio lo desiderava con tutto il cuore. Erano anni che provava a organizzare quell’avventura, ma non c’era mai riuscita. Con il suo ex avevano viaggiato tanto, eppure quella tappa mancava. Forse non erano riusciti a raggiungerla insieme o forse lei, semplicemente, la custodiva. Sapeva che era un viaggio speciale, sognato per tanti anni, ed era come se non potesse diventare reale. Se non fosse stato all’altezza delle aspettative che si era creata pensandoci così a lungo? Se lei non fosse stata in grado di organizzare un itinerario soddisfacente? I dubbi le affollavano la testa; improvvisamente, aveva smesso di pensare a chi potesse essere realmente quel compagno di strada pescato all’ultimo minuto su un forum.  
L’idea che quel viaggio potesse rivelarsi sopravvalutato non le aveva mai sfiorato il cervello. Era sempre andata a colpo sicuro pensando a dove alloggiare, quale città visitare o che mezzo prendere. La consapevolezza che qualcosa potesse andare storto non era mai arrivata, fino a quel momento. Ma perché giungeva così tardi? Non aveva forse ricontrollato i biglietti due volte prima di prenotarli? Non aveva visto le recensioni sui siti degli ostelli? Si era posta le domande giuste e si era data le risposte, tutte, tranne una: si poteva fidare dell’altra persona? 
Forse. 
Era ancora un’incognita, l’ultima questione per cui non riusciva a trovare una soluzione. Si erano sentiti al telefono, lui le aveva mandato una sua foto, ma era veramente lui? In fondo, non aveva mica chiesto un documento d’identità, non poteva verificare che fosse effettivamente lui. Ma verificare come? Non era una spia con un ricco database, quelle sono cose da film. E la vita non è un film. Meglio così. E pure i film vanno visti più volte per essere capiti, ma se si dovesse rivivere ogni evento della propria vita, quanto è verosimile che i momenti brutti possano essere compresi? 
Le difficoltà non le erano mai mancate. Stava ancora cercando di elaborarle con il sostegno della psicologa. Non era facile, ma con l’aiuto di una professionista aveva fatto passi da gigante. La terapia l’aveva fatta uscire dal guscio e aveva imparato ad amarsi di più e a rispettarsi. Il percorso era lungo, ma con una salita meno ripida rispetto a quando aveva iniziato; con il tempo, il colloquio settimanale era diventato normalità e anche il suo ex aveva accettato la cosa. Lui non si capacitava che chi aveva accanto avesse bisogno di una persona esterna alla coppia con cui parlare di ciò che era il passato e talvolta il presente della loro relazione. Non era mai riuscito a comprendere pienamente questa esigenza e questa mancanza continuava ad aleggiare nella sua testa anche se si erano lasciati da tempo.  
Quello era il primo viaggio che faceva da sola con un uomo, dopo il suo ex. C’erano stati altri viaggi: la Croazia d’estate, la settimana bianca in Svizzera, la Pasqua a Dubai, ma erano stati tutti viaggi con le amiche. I viaggi in solitaria erano solo quelli di lavoro, tratte brevi o pochi giorni fuori che la impegnavano un paio di volte al mese. Non si poteva dire che fossero viaggi noiosi perché, pur dovendo visitare le solite tre o quattro città, riusciva sempre a trovare piccoli angoli nascosti dove pranzare o usare il computer per ultimare il suo lavoro. La solitudine non le faceva paura, non soffriva lo stare da sola in una città in cui non viveva abitualmente, ma giusto per qualche giorno, al massimo una settimana. Parlando con la psicologa aveva riflettuto sulla questione, sentiva come se nella sua mente ci fosse un bias per cui i viaggi di gruppo erano più associabili a una vacanza, mentre i viaggi da sola erano strettamente lavorativi, puramente di dovere.  
Dovere. Fin da piccola le avevano insegnato che prima vengono i doveri e poi i piaceri e lei, da brava bambina, aveva sempre eseguito ubbidiente. Ma gli anni erano passati e lei non era più una ragazzina e non era più docile. Gli ultimi anni li aveva vissuti all’insegna dello scoprire se stessa, ma forse ci era riuscita realmente solo negli ultimi mesi. Si era trattato di un periodo nuovo per la sua carriera, ma anche per la sua vita sentimentale. Si era lasciata con una persona che le stava accanto da così tanto tempo da farle dimenticare cosa significasse abitare da sola, senza animali sempre pronti a chiedere una carezza e senza un compagno che, tornando a casa, le chiedesse “Come stai?”.  
Forse, tra tutte, questa era la cosa che le mancava di più.  
Quando la sua relazione era arrivata alla fine, era inevitabile che ciò accadesse; erano stati inutili i tentativi con la terapia di coppia, le cose non funzionavano più e dovevano prenderne atto. Quello però non era stato neanche il passaggio più difficile, per un bel po’ lei si era portata dietro la scia dei “Poverina, dopo tanto tempo”. Era strano incontrare le persone con cui era cresciuta e sentirsi dire quelle classiche frasi che non sono di conforto a nessuno, ma che si dicono per non sembrare indifferenti. A volte sperava di non incrociare chi le avrebbe detto parole così vuote. 
Si chiedeva se davvero fosse così difficile il silenzio.  
Sapeva che il repertorio di frasi fatte veniva inscenato solo per incoraggiarla, ma era stanca di vedere come le altre persone tentavano di trattenere i pezzi della sua vita tra le loro mani, come se dovessero farne un collage. 
Per questo aveva deciso di fare quel viaggio, per non sentire più quegli sguardi compassionevoli su di sé. Magicamente, tutto era cambiato quando aveva detto che avrebbe intrapreso quell’avventura con uno sconosciuto. Allora si era passati alle occhiatacce, quelle che facevano intendere che stava sbagliando e che, di quell’errore, si sarebbe pentita. Ma le parole non c’erano, quelle espressioni severe erano state silenziose, eccetto quella della sua migliore amica che continuava a cercare di dissuaderla, in ogni modo.  
Lei era consapevole che poteva viaggiare con chiunque e il non conoscersi poteva essere sia un’esperienza bellissima che terrificante. Fiutava i rischi e comprendeva le preoccupazioni che le amiche e la famiglia avevano espresso, ma c’era qualcosa che gli altri non capivano: il bisogno impellente di uscire da quella monotonia. Certo, avrebbe potuto trovare altri modi per provare cose nuove, ma aveva il bisogno di farlo a modo suo. Viaggiare era una cosa che faceva da tanto tempo. Viaggiare con uno sconosciuto? Mai. La possibilità di poter creare un rapporto di amicizia attraverso un viaggio era troppo allettante e, così, aveva fatto richiesta senza neanche accorgersene.  
Quel giorno era finalmente arrivato, zaino e valigia pronti, restava quel solo piccolo dubbio: si poteva fidare dell’altra persona? 
Non lo sapeva.  
Doveva solo aspettare di stare in aereo sulla pista di decollo, aspettare di parlargli, aspettare di conoscerlo. Forse sarebbe stata una persona con cui avrebbe condiviso solo quell’esperienza, forse si sarebbe creata un’amicizia duratura, forse sarebbe stata una di quelle persone con cui si lega facilmente. 
Forse no.  
Era tutto sospeso, una nuvola di forse che continuava ad agitarsi sopra la sua testa. Improvvisamente, qualcosa la tirò fuori da quei pensieri in cui era completamente assorta.  
Era stata una parola e le ci era voluto un po’ per capire se fosse rivolta a lei o se l’avesse solo immaginata.  
Era un «Ciao». 
Aveva girato la testa e si era accorta di un ragazzo dal sorriso timido che la fissava con lo sguardo di chi crede di essere di troppo e spera di aver salutato la persona giusta. 
Lei, da troppo tempo seduta, si era alzata un po’ barcollante e gli aveva teso la mano. 
Pensava «È lui, forse», guardandolo negli occhi. 

***

Articolo di Loretta Junk

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Già docente di lettere nei licei, fa parte del “Comitato dei lettori” del Premio letterario Italo Calvino ed è referente di Toponomastica femminile per il Piemonte. Nel 2014 ha organizzato il III Convegno di Toponomastica femminile. curandone gli atti. Ha collaborato alla stesura di Le Mille. I primati delle donne e scritto per diverse testate (L’Indice dei libri del mese, Noi Donne, Dol’s ecc.).

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