Mal d’America. Il numero 3/24 di Limes

«It’s me, hi, I’m the problem, it’s me». Ritornello di Anti-Hero di Taylor Swift.

Mal d’America, il numero di aprile di Limes, ha articoli scritti in prevalenza da autori americani ed è dedicato al clima interno agli Stati Uniti, notevolmente peggiorato in questi ultimi anni – con conseguenze che ne hanno minato fortemente la proiezione esterna. Il volume si interroga sulle cause di questo declino ed è diviso in tre parti: La crisi dell’Impero, La crisi della Repubblica e Il fallimento delle Università.
La copertina della cartografa Laura Canali lavora su un quadro dell’artista Nicolas De Stael per dare l’idea del caos interno degli Usa di cui almeno quattro potenze (Federazione Russa, Corea del Nord, Cina e Iran) stanno cercando di avvantaggiarsi.
L’articolo da cui partirò si trova nella seconda parte ed è a firma di Chris Griswold. Il fantasma della classe media rivuole il suo corpo è fondamentale per capire i danni prodotti da un capitalismo sfrenato e fondato sullo sfruttamento del lavoro, tematica recentemente affrontata anche dall’economista Clara E. Mattei, docente negli Usa, col suo prezioso libro L’economia è politica. Così scrive Griswold in Rebuilding American Capitalism. A Handbook for Conservative Policymakers: «Il fallimento del capitalismo americano negli ultimi cinquant’anni è evidenziato soprattutto dalla sua incapacità di garantire una prosperità diffusa alla popolazione. (…) In questo mezzo secolo il capitalismo statunitense ha conseguito una crescita sostanziale in termini di produttività totale del lavoro, prodotto interno lordo pro capite e profitti aziendali pro capite. È a questo che economisti, politici e commentatori hanno rivolto la loro attenzione. Ma mentre questi livelli raddoppiavano o triplicavano, i salari restavano al palo: +1% in totale – non all’anno! – al netto dell’inflazione». L’economia americana non vede i lavoratori alla luce della loro piena umanità, ma solo in termini di cosa è possibile estrarne. Questo sistema, sottolinea Griswold, comunica ai lavoratori che essi non sono parte integrante del progetto economico americano, ma meri fattori di produzione».

Sofferenza e rilancio del sogno americano

Un saggio da usare a scuola, come controcanto alla narrazione irrealistica del sistema capitalistico dei nostri manuali di economia omologati alla teoria economica neoclassica. Come corollario di questo articolo suggerisco, per “Le storie”, il testo Perché soffriamo del giovane scrittore Michael Bible, autore del libro L’ultima cosa bella sulla faccia della terra.
In questa sezione del volume emerge chiaramente come la spaccatura più grande negli Stati Uniti non è, come saremmo portate/i a pensare, quella razziale, ma quella di classe come ricorda, in chiusura del suo saggio, Kenneth j. Heinemann: «Forse le più profonde divisioni d’America non sono quelle tra i vari gruppi etnici e razziali. La discordia è il prodotto di tensioni di classe tra l’establishment e tutto il resto. Se le cose stanno così, la soluzione è semplice. Le élite dovrebbero aspirare a non far danni. Se non altro perché potrebbero avere bisogno dei diseredati la prossima volta che qualche maniaco genocida tenterà di conquistare il mondo…» Un pericolo molto serio negli Usa è rappresentato dal suprematismo bianco e dal terrorismo di destra, di cui scrive Jacob Ware, coautore del libro God, Guns, and Sedition: Far-Right Terrorism in America (2024).

Faglie americane

Tra i tanti approfondimenti della prima parte La sindrome di Lear di Federico Petroni è un contributo notevole. Secondo il curatore di questo volume della rivista di geopolitica, negli ultimi trent’anni l’America «ha sottovalutato gli avversari, spingendoli assieme invece di dividerli. Ha svuotato l’industria bellica fino a non poter più sostenere una guerra protratta contro un nemico alla pari. Ha ignorato l’ammodernamento nucleare, indebolendo la deterrenza. Ha costruito Forze armate per combattere le guerre sbagliate. Ha abusato della forza militare e finanziaria, così dilapidando il consenso interno e straniero verso il proprio predominio[…]. Ha adottato un modello economico che ha distrutto la classe media e permesso l’ascesa della Cina. La cieca fede nel trittico tecnologia-capitalismo-democrazia ha generato atteggiamenti di negligenza o tracotanza tali da atrofizzare pensiero strategico e arte di governo […] In crisi è anche la fede nel sogno americano. Al suo posto, in larghe parti del paese dilaga la sofferenza. Al 29% degli adulti è stata diagnosticata una depressione, in aumento del 10% dal 2015, soprattutto sugli Appalachi, lungo il corso meridionale del Mississippi, in Missouri, Oklahoma e Washington. In 25 anni sono quadruplicate le cosiddette morti per disperazione: suicidio, overdose, alcolismo. Da tre anni sono oltre 200 mila, di cui la metà causate dagli oppioidi. Prima concentrate nelle aree ex industriali a maggioranza bianca che votano Trump […] si sono diffuse a tutto il paese e a tutti i segmenti sociali, classi istruite comprese. Ora addirittura prevalgono nelle contee democratiche. Ha ucciso più il fentanyl in 14 mesi che tutte le guerre americane dal 1945. E sul mercato sono entrate droghe ancor più potenti come tranq e nitazene». La qualità dell’esistenza è peggiorata, l’aspettativa di vita diminuita, l’istruzione dà segnali di allarme, evidenziando difficoltà di comprensione del testo nei tredicenni. La discordia è la cifra dei rapporti tra persone di fede politica opposta, che vedono la controparte come un nemico capace di attentare alla loro identità e con cui difficilmente si confrontano. 
Per i repubblicani, scrive Petroni, i democratici sono neri, omo- o transessuali, iscritti ai sindacati; per i democratici, i repubblicani sono ricchi, vecchi, evangelici. I dati di realtà sono lontani da queste descrizioni.

Gli Stati Uniti dei partiti unici

Molto accurata e convincente anche l’analisi dello storico Stephen Wertheim, La fine dell’impero globale. Gli Usa hanno ancora l’economia più grande e le Forze armate più potenti del mondo, ma l’ascesa della Cina è indubbia. Le questioni, secondo Wertheim, non sono però né il declino né l’isolazionismo. Gli Stati Uniti si trovano di fronte a problemi profondi e pressanti che richiedono un loro ruolo più limitato sulla scena mondiale: l’eccesso di impegno, la sovraestensione e il malcontento domestico, soprattutto nei confronti delle guerre che gli Usa hanno combattuto o sostengono in giro per il mondo.
In questa parte si susseguono analisi di esperti militari e della navigazione e un interessante approfondimento su Quad, Five eyes e Aukus che riprende temi su cui la rivista si è già soffermata in precedenti numeri. La militarizzazione dell’Anglosfera allunga uno sguardo al secondo pilastro dell’Aukus: chi volesse conoscere su quali altri temi, come migrazioni, ordine pubblico, economia, contrasto alle epidemie, produzione normativa interna, esistono accordi tra i Paesi che fanno parte di questi soggetti (che avrebbero solo il compito di spiare le potenze nemiche) li troverà nell’articolo. Nasce spontanea una riflessione sull’influenza di queste reti intergovernative senza legittimazione democratica, volute dagli Usa sui propri Stati e sull’ordine mondiale in nome della difesa dell’ordine liberale e dei principi democratici cui si vorrebbero ispirare. Questi approfondimenti dovrebbero finire oggi nei libri di storia e geopolitica delle scuole secondarie di secondo grado per far ragionare le persone su quanto le affinità culturali, i trascorsi bellici e le sintonie profonde tra i Paesi di queste reti intergovernative siano determinanti nel cementarle.

La militarizzazione dell’anglosfera

Dal saggio di Giacomo Mariotto Chi difenderà l’America depressa? apprendiamo che sempre meno giovani americani sono disposti o idonei a vestire l’uniforme: il ceppo bianco è minoritario tra i reclutati, mentre neri e ispanici sono aumentati. Inoltre, mentre si fa fatica ad arruolare persone nel Nord-Est, nell’Ovest e anche nel Midwest, la maggior parte dei militari proviene dal Sud, in cui sono concentrate in maggior numero le basi e le installazioni Usa. Scrive Mariotto: «I criteri di reclutamento che Washington fatica a raggiungere sono pensati per un’epoca di pace, contrassegnata da conflitti a bassa intensità con avversari di stazza inferiore, non per sostenere uno scontro prolungato con una o più grandi potenze in teatri distanti. Le capacità umane, tecnologiche e industriali degli Stati Uniti restano le più sofisticate, ma funzionano in un contesto di azioni militari rapide e relativamente incruente. Tradotto: l’esercito americano è programmato per sorvegliare il primato, non per difenderlo in una guerra di attrito ad alta intensità e di lunga durata».

La crisi del reclutamento

I costi per il personale militare sono lievitati e assorbono molta parte del bilancio per la difesa. Inoltre le Forze armate non sono più una porta d’accesso privilegiata per la classe media, con una «allarmante erosione della qualità della vita» sotto le armi. La popolazione americana mostra una forte disaffezione verso l’esercito dovuta soprattutto, ma non solo, alle «guerre “astrategiche “combattute negli ultimi decenni, risultate in sconfitte costose e imperdonabili per una nazione che non concepisce il pareggio e pretende di vincere sempre». I militari soffrono di depressione e disagio, in quasi assoluto isolamento, all’interno di installazioni come la californiana Fort Bragg, che si estende in sei contee e ha una superficie di 250 miglia quadrate. Tutto questo potrebbe far pensare a un ammorbidimento della società americana, ma Mariotto snocciola una serie di dati che smentiscono questa opinione: «Dati alla mano, l’America resta un soggetto violento, specialmente se il termine di paragone è costituito dal resto delle economie avanzate. Nessun altro paese occidentale registra un analogo tasso di omicidi, in particolare da armi da fuoco, il cui valore complessivo nel 2019 era ventidue volte superiore a quello dell’Unione Europea. Lo stesso vale per le frequenti sparatorie di massa: tra il 2013 e il 2022 negli Stati Uniti sono state 65, con oltre seicento vittime. Tale fenomeno è talmente diffuso da essere osservabile anche in campi meno pubblicizzati. È il caso degli incidenti automobilistici. Nel 2020, il tasso di mortalità americano era pari a 11,7 ogni 100 mila abitanti, notevolmente più alto rispetto a Italia (4), Francia (3,8), Germania (3,3) e Regno Unito (2,3). Sintomo di una diversa disponibilità degli americani ad accettare il dolore e la sofferenza all’interno della propria società. Resta dunque valido quanto asserito nel 1967 da H. Rap Brown, attivista nero e capo del comitato di coordinamento non violento degli studenti, in seguito condannato per l’omicidio del vicesceriffo di Fulton County, Georgia: “La violenza fa parte della cultura americana. È americana come il cherry pie”». Una parte di questo articolo è dedicata alle ragioni dell’apatia, della fragilità e della depressione della gioventù statunitense, soprattutto quella bianca.

A chi è in mano il debito USA

Assolutamente consigliabile, soprattutto ai e alle docenti l’articolo sul debito Usa di Fabrizio Maronta Pagare è comandare, che potrebbe costituire una lezione stimolante di storia e relazioni internazionali. Consiglio soprattutto il passaggio su che cosa è diventata la finanza negli Stati Uniti e che cosa ha prodotto nella società e nel sistema economico di quel Paese. Invece totalmente impensabile, fino a prima dell’inasprimento dei «conflitti mondiali a pezzi» in corso, quanto sostengono gli autori dell’articolo Il decoupling è impossibile se le aziende non ci seguono. Per decoupling si intende la rilocalizzazione di alcune imprese fuori da un Paese che si percepisce come avversario o nemico. Milton Friedman, guru del neoliberismo e del libero mercato, viene finalmente contestato. Non c’erano mai riusciti i sostenitori della responsabilità sociale di impresa, che l’economista del Mit aveva definito «puro e semplice socialismo», sostenendo che «la sola responsabilità del business è usare le proprie risorse e impegnarsi in attività per incrementare il profitto». Ci riescono invece coloro che oggi chiedono una collaborazione delle corporations sulla sicurezza. Misteri americani.
In altri articoli di questa sezione si parla di “dedollarizzazione” e della centralità del Canale di Panama per gli Usa.
La parte finale dedicata al woke, all’antiwoke e alla crisi delle Università americane è utile per capire questi termini e come nel tempo abbiano cambiato significato negli Stati Uniti. Un utile testo al riguardo è Il livore linguistico (non solo) nei social media e la cultura woke di Giovanni Boccia Artieri, membro della Associazione Parole o Stili e Direttore del Dipartimento di Scienze della Comunicazione, Studi Umanistici e Internazionali presso l’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. È fondamentale conoscere il significato originario di “woke” per decifrare quando e in che modo viene strumentalizzato nel dibattito contemporaneo, utilizzando il termine a sostegno o contro determinate posizioni. Per avere un quadro delle ragioni della perdita di credibilità delle Università statunitensi questa parte è preziosa. Basti per tutti la considerazione del docente universitario Jonathan Zimmerman, a disagio in questo clima di “caccia alle streghe” incrociata. Il suo ricco approfondimento Il suicidio dell’Accademia afferma che «la strada migliore per il progresso è un dialogo franco e libero. Talvolta anche doloroso. In una democrazia, il miglioramento è impossibile senza lo scambio d’opinioni. Dobbiamo ricordarci che le discussioni, per quanto difficili e pericolose, tendono a essere più fruttuose dei monologhi. Esse producono società più giuste, eque e informate». Woke è parola difficilmente traducibile in italiano, ci si avvicina forse con il termine “consapevole”, ma originariamente si riferiva all’atteggiamento di chi, attento alle ingiustizie sociali legate principalmente a questioni di genere e di etnia, solidarizza ed eventualmente diventa attivista per aiutare chi le subisce. Nel Novecento era adottata soprattutto dagli afroamericani che dovevano “stare all’erta”, come invitava a fare una canzone blues di Lead Belly, Scottsboro boys riferita a un episodio realmente accaduto: «I made this little song about down there. So I advise everybody, be a little careful. Best stay woke, keep their eyes open». L’approfondimento di Giuseppe De Ruvo Genealogia del wokismo, scritto con una chiarezza rara tra i filosofi, è consigliato a tutti i/ e le docenti di filosofia e ai più aggiornati docenti di relazioni internazionali delle scuole secondarie di secondo grado: racconta in modo accurato lo slittamento di questo termine che, con l’elezione di Donald Trump, diventa sinonimo di «una persona morale che conosce la Verità» e rappresenta il sintomo di una crisi di identità del popolo statunitense.
La nostra società e i nostri media, social in primis, stanno prendendo questa piega manichea. Speriamo che le Università italiane ci aiutino ancora a pensare e a combattere, con il dialogo, questa deriva.

L’emancipazione degli afroamericani

«C’è molto di sovietico in questo autunno americano. Su tutto, il senso dell’immortalità violata. Fino a ieri anche i più fieri critici dell’American way of life, vera ragione sociale dell’avventura a stelle e strisce, ne davano per scontata la permanenza. Non modello storico, dato di natura. Come sole, pioggia o vento. L’autoflagellazione dilagante nella massima potenza d’ogni tempo richiama il titolo di un romanzo gotico di William Faulkner, Mentre Morivo (As I Lay Dying), derivato dall’omerica discesa di Ulisse agli inferi. A distanza di una generazione dall’imprevisto collasso dell’Unione Sovietica, pare che molti nell’autoproclamato Impero del Bene temano di fare la fine dell’Impero del Male. Perché non credono più nella bontà del sistema, come i tardosovietici d’età gorbacioviana». Così inizia l’editoriale di Lucio Caracciolo, come sempre provocatorio e ricco di spunti. Tutta da leggere la parte sul pensiero e sulla storia di Kennan, teorico del contenimento russo attraverso la diplomazia, che abbiamo incontrato anche in altri numeri di Limes dedicati agli Stati Uniti. Scrive Caracciolo: «Forse nessun’altra personalità della Washington profonda ha incarnato così radicalmente il precetto che George Friedman, luminare della geopolitica americana, eleverà a stella polare del suo metodo, citando Matteo: “Amate i vostri nemici”. L’amore di Kennan per cultura, storia e lingua russa – per l’essenza della Russia – era tale che a qualcuno poteva parere più russo che americano. Nessun altro esponente dell’establishment washingtoniano era in grado di cogliere così intimamente il punto di vista dei decisori sovietici. Di provare, lui anticomunista convinto, a mettersi al loro posto e scoprire non solo possibile ma necessario negoziare con l’Orso. Su questa base empatica, Kennan arriva a concepire in alternativa a Nato e Patto di Varsavia un’organizzazione di sicurezza paneuropea figlia del doppio disimpegno, americano e sovietico, dai rispettivi imperi veterocontinentali, via unificazione e neutralizzazione delle due Germanie. Idea mantenuta anche dopo la fine della guerra fredda, quando denuncia l’«errore fatale» della penetrazione atlantica nell’ex impero sovietico». Chissà che cosa sarebbe successo se le idee di Kennan fossero state accolte. Più avanti leggiamo: «Il coronamento di tanta empatia sarà l’incontro con Gorbačëv all’ambasciata sovietica di Washington il 9 dicembre 1987. L’ultimo leader bolscevico abbraccia Kennan, gli appoggia le mani sui gomiti e l’apostrofa fissandolo negli occhi: «Signor Kennan, noi nel nostro Paese crediamo che una persona possa essere amica di un altro Paese e restare allo stesso tempo un leale e devoto cittadino della sua patria. Noi vi vediamo così». Toccato, Kennan noterà amaro: «Se non puoi avere questa sorta di riconoscimento dal tuo governo, fa piacere riceverlo infine dall’avversario di un tempo».

Chi attacca il numero uno

In appendice all’editoriale troviamo un interessante articolo di Giuseppe De Ruvo su Il trattato segreto che gli Usa non vogliono pubblicare. Lettura vivamente consigliata, su cui manterrò il più stretto riserbo. Si impara e si continua a imparare molto più la storia leggendo ogni mese Limes che sui Manuali che abbiamo studiato a scuola. Buona lettura a tutte e tutti.

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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la maiuscola. Eterna apprendente, le piace divulgare quello che sa. Docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.

2 commenti

  1. ci vuole sempre un po di coraggio a cominciare ( e a finire, credevo essere la sola ehm…) i tuoi articoli su Limes ma poi alla fine senti soddisfazione, sempre, di essere entrata in un mondo che non credevi mai di poter calpestare e frequentare con confidenza. Insomma ho imparato cose fi geopolitica e facilmente! Come acqua pura

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