Artiste a Roma. Percorsi tra secessione, Futurismo e Ritorno all’ordine

Che bella l’esposizione Artiste a Roma. Percorsi tra secessione, Futurismo e Ritorno all’ordine, inaugurata il 13 giugno al Casino dei Principi di Villa Torlonia. Bella e significativa, raffinata nella selezione delle opere esposte, uno sguardo sulle artiste attive a Roma nella prima metà del XX secolo che si rivela affascinante e soprattutto necessario per combattere la condanna del genere femminile alla continua sospensione dal ricordo.

Roma, Casino dei Principi di Villa Torlonia

L’arte firmata dalle donne continua ad avere, nonostante le buone intenzioni più volte proclamate, una dimensione carsica, riesce a riemergere ma poi torna (o meglio viene fatta tornare) nel silenzio e nell’ombra dei depositi, esposta in misura minore rispetto a quella degli artisti, sia nelle collezioni permanenti dei musei sia nelle esposizioni temporanee. Come afferma Maria Antonietta Trasforini «la storia dell’arte […] ha classificato e organizzato saperi e discorsi su un tracciato di genere che ha finito per rigettare le tante donne artiste e non vederle più»; la mostra sembra accogliere la sfida di un riequilibrio di genere e non si può non essere d’accordo: è necessario rinnovare la conoscenza e allargarla, diffondere la memoria di quanto creato dalle donne, perché il percorso artistico femminile è un bene prezioso e comune, appartiene a tutte e a tutti. 
La mostra Artiste a Roma. Percorsi tra secessione, Futurismo e Ritorno all’ordine, che resterà aperta fino al prossimo 6 ottobre, presenta le opere di 26 artiste italiane e internazionali: Evangelina Alciati, Teresa Berring, Wanda Biagini, Edita Broglio, Benedetta Cappa Marinetti, Ghitta Carell, Caty Castellucci, Leonetta Cecchi Pieraccini, Angela Cuneo Jacoangeli, Deiva De Angelis, Emilia de Divitiis, Maria Grandinetti Mancuso, Bice Lazzari, Pasquarosa Marcelli Bertoletti, Costanza Mennyey, Vittoria Morelli, Marisa Mori, Adriana Pincherie, Milena Pavlovic Barilli, Eva Quajotto, Mimì Quilici Buzzacchi, Antonietta Raphaël, Virginia Romescu Scrocco, Maria Immacolata Zaffuto, Emilia Zampetti Nava e Rouzena Zatkova. La mostra è organizzata in sei sezioni: Tra Simbolismo e Secessione;  Attraverso il Futurismo;  L’eredità del colore; Linguaggi del quotidiano tra Metafisica e Ritorno all’Ordine; Altri realismi; Nello sguardo di Ghitta Carell; in ogni sezione vengono documentati, attraverso dipinti, sculture, fotografie e documenti, il lavoro delle artiste, la loro ricerca, il loro impegno, la loro interpretazione del mondo. Non si tratta di una storia dell’arte “aggiuntiva”, ma di un percorso di ricerca e studio secondo una prospettiva di genere che da tempo non veniva proposta al pubblico.  
Ventisei artiste sono un bel numero, rappresentano un nucleo ben assortito ma pur sempre ridotto rispetto all’effettiva presenza femminile nell’arte del Novecento in generale, in quella romana in particolare. Il XX secolo vede crescere in modo notevole il ruolo delle artiste. Le donne conquistano visibilità — e non solo nei campi più “consoni” «al sesso bello», nelle tecniche “donnesche” delle arti applicate come la tessitura, il ricamo e la ceramica —, partecipano a mostre collettive e allestiscono esposizioni personali, cominciano a essere considerate e apprezzate dalla critica, anche se in modo contraddittorio e col metro di giudizio spesso tarato sulla produzione maschile. Un esempio è il giudizio su Deiva De Angelis di Anton Giulio Bragaglia, che pure le fu amico ed estimatore sincero, ma che per esprimere il suo favore la definì «un ottimo cervello maschio» capace di dipingere «come un uomo».  
Deiva De Angelis è una delle protagoniste della prima sezione della mostra dal titolo Tra Simbolismo e Secessione, accanto a Virginia Tomescu Scrocco, Evangelina Alciati, Emilia Zampetti Nava, Teresa Berring, Vittoria Morelli, Edita Broglio e Immacolata Zaffuto, quest’ultime presenti anche nelle sezioni successive. Pittrice umbra di rango, dalla vita artisticamente intensa e purtroppo breve, di Deiva De Angelis si è occupata Vitamine vaganti alcune settimane fa e a questi contributi si accenna nel testo biografico scritto da Sandro Santolini per il catalogo della mostra curato da Federica Pirani, Annapaola Agati, Antonia Rita Arconti e Giulia Tulino. I dipinti di Deiva presenti testimoniano il realismo “sintetico” e la forza cromatica della sua pittura, che si fa ricerca spaziale e volumetrica sia nel Paesaggio urbano del 1918 che nella “natura morta” intitolata Toelette (1915) e nei ritratti esposti.

Deiva De Angelis, Ritratto di mio padre, 1916 

Ritratto di mio padre indica, nella scelta del titolo, una linea di ricerca precisa sul dipinto del 1916, conosciuto anche col più generico Ritratto di uomo in giardino. Identificare nell’uomo anziano seduto all’aperto il padre di Deiva, Pasquale Alunni Riposati, è un’ipotesi molto proposta ma mai confermata, visto il ruolo oscuro avuto nella vita della pittrice, che scelse di farsi conoscere prima col cognome materno Terradura e successivamente con quello del marito Alfredo De Angelis. Il padre è presente negli anni dell’infanzia di Deiva, in seguito appare sempre più sfocato fino a scomparire, citato unicamente nei documenti anagrafici come, per esempio, il certificato di matrimonio di Deiva del 1913, nel quale risulta residente a Perugia mentre la moglie Clotilde a quella data vive già a Roma. Nei contatti che ho avuto col pronipote Oscar Terradura è emersa un’altra ipotesi, a suo dire molto concreta, secondo cui l’uomo raffigurato non sarebbe il padre Pasquale bensì un fratello della madre Clotilde, ritratto nel corso di uno dei “rientri” della pittrice in famiglia a Gubbio. L’abbigliamento “buono” indossato per la posa, dalla fattura “provinciale” e semplice ma non povera, potrebbe in effetti essere un punto a favore di questa ipotesi, vista l’attività di mugnai che i fratelli Terradura svolgevano dalla fine del XIX secolo proprio a Gubbio. Ma si resta ancora nel campo delle supposizioni e altre ricerche dovranno essere compiute. 

Una delle caratteristiche della mostra è la varietà dei linguaggi espressivi, con fraseggi più acuti e altri più pacati, alcuni sui binari della tradizione altri lanciati verso la sperimentazione, come nel caso delle opere di Růžena Zátková. La sua è un’arte originale che sfugge alle facili etichette, dalla «doppia anima» tesa tra il polo del futurismo da un lato e la ricerca dell’avanguardia russa di Gončarova e Larionov dall’altro, come spiega Marina Giorgini nel catalogo.

Růžena Zátková, Ghiacciai, 1920 ca.

Dell’artista ceca, incredibilmente dimenticata e solo negli ultimi anni “riscoperta”, sono esposte opere di vera magia per gli occhi e la mente, dal polimaterico Ghiacciai alle 13 tavole intitolate Vita del Re David secondo le leggende bibliche. Mostrate per la prima volta in questa sezione e dipinte ad acquerello su entrambi i lati dei fogli, ogni tavola presenta nella parte anteriore il testo scritto che è contemporaneamente forma spaziale e segno grafico, mentre sul retro le immagini, come in «una miniatura o un libro d’artista», comunicano linguaggi pittorici e forme iconografiche di ascendenza russa e ortodossa.

Růžena Zátková, Vita del Re David secondo le leggende bibliche, Pentimento di David; il Signore colpisce il figlio avuto da Betsabea ma David lo supplica di risparmiarlo; digiuna e passa le notti coricato per terra. Gli anziani della sua casa tentano di farlo alzare ma il figlio di Betsabea muore, 1917-1918

Benedetta Cappa Marinetti, Velocità di motoscafo, 1922 ca. 

Nella sezione Attraverso il Futurismo Růžena Zátková ha a fianco a sé Benedetta Cappa Marinetti, alla quale fu vicina per comunanza artistica e salda amicizia, oltre che per il legame sentimentale con il fratello Arturo Cappa; con loro anche la pittrice Marisa Mori, con il dipinto Aviatrice addormentata del 1932, presente anche nella successiva sezione Linguaggi del quotidiano. Tra Metafisica e Ritorno all’ordine con l’opera fronte retro La lettura (1928), dalle espressioni formali e cromatiche così vicine alle suggestioni del maestro Felice Casorati.

Marisa Mori, La lettura (recto), 1928

La seconda parte della mostra si muove tra le vibrazioni di intenso cromatismo dei quadri di Pasquarosa, di Adriana Pincherle, di Mimì Quilici Buzzacchi e Costanza Mennyey, e il linguaggio più prossimo alla tradizione culturale e figurativa italiana che costituisce il generale ritorno all’ordine dopo le esperienze di avanguardia. Tante le protagoniste, tante le espressioni e le esperienze esposte che restituiscono un panorama artistico femminile tra le due guerre ampio e variegato: le potenti presenze scultoree di Antonietta Raphaël; le costruzioni salde di Edita Broglio, il cui dipinto Uova fresche (1928-1929) rappresenta una straordinaria costruzione pittorica sui toni del bianco; la capacità di sintesi formale e cromatica di Maria Grandinetti Mancuso, il cui dipinto Astrazione di natura morta è stato scelto come eloquente rappresentazione dell’esposizione sia per il manifesto che per la copertina del catalogo; le ricerche spaziali e la resa essenziale dei volumi di Bice Lazzari già tesa, anche attraverso l’esperienza delle arti applicate, verso ricerche astratte; la solidità dei corpi maschili e femminili degli encausti di Immacolata Zaffuto; gli sguardi dall’alto e in profondità di Eva Quaiotto sulle demolizioni che negli anni Trenta caratterizzano gli interventi urbanistici del fascismo a Roma. Un discorso a latere, ma solo in parte, sono i ritratti fotografici di Ghitta Carell, maestra della fotografia che nel suo atelier immortalò i/le protagonisti/e della vita politica, culturale e sociale tra gli anni Venti e Trenta in un linguaggio elegante e raffinato sostenuto da una tecnica fotografica di grande esperienza.

Ghitta Carel, Ritratto di Palma Bucarelli, 1943

Il passaggio lungo la scala tra il piano terra e quello superiore del Casino dei Principi è scandito da una frase della pittrice Bice Lazzari: «Non mi sono mai resa conto di essere una donna, allora. Me ne rendo conto oggi, quando ripenso a tutte le difficoltà che ho incontrato». Le artiste hanno sicuramente incontrato molte complicazioni nella loro esistenza, dagli ostacoli per l’ammissione a studi regolari nelle scuole e nelle accademie all’ostilità crescente verso la creatività e l’indipendenza femminile da parte del regime fascista; dalle presenze maschili soverchianti e ingombranti con cui confrontarsi quotidianamente alla difficoltà di vedere riconosciuto il loro ruolo specifico, la loro autonomia e libertà di ricerca ed espressione; dall’instabilità (anche economica) del loro percorso professionale alla precarietà della memoria dopo la morte, che le ha viste quasi tutte vittime di una rapida caduta nell’oblio.

Mimì Quilici Buzzacchi, Autoritratto al torchio, 1926 

Che loro abbiano creduto nella propria forza creativa, nel proprio ingegno, nelle proprie capacità tecniche, che abbiano voluto rivendicare, per citare Virginia Woolf, “uno studio” tutto per sé e il diritto a guadagnarsi da vivere lo si vede negli autoritratti presenti nel catalogo ed esposti in mostra: figure solide e fiere, come nell’Autoritratto di Evangelina Gemma Alciati o in quello al torchio di Mimì Quilici Buzzacchi, talvolta con uno sguardo di sfida come nella celebre raffigurazione che di sé fa Deiva De Angelis, in posa con gli strumenti di lavoro o nell’atto di dipingere come Adriana Pincherle o Leonetta Cecchi Pieraccini, anche con qualche traccia delle proprie incertezze, come nel dipinto di Katy Castellucci Figura presente in mostra e ritenuto un autoritratto della pittrice.

Deiva De Angelis, Autoritratto, 1920
Da sinistra: Adriana Pincherle, Autoritratto, 1932; Leonetta Cecchi Pieraccini, Lo studio dell’artista, 1929; Katy Castellucci, Figura, 1935-1936

Sono state donne e artiste caparbie e determinate, anche sofferenti ma mai arrese, audaci nel rivendicare il proprio ruolo e nel portare avanti in modo ostinato l’impegno di dare vita all’arte, nonostante le ostilità, i dubbi e la diffidenza del mondo circostante. La loro è stata una rivoluzione lenta ma graduale, inarrestabile, importante per le future generazioni: «Compiangimi tu libero cittadino di un libero mondo, — scrive la pittrice Evangelina Gemma Alciati nel 1906 al suo compagno — io nata alla più grande libertà rimarrò forse travolta dal mio stesso desiderio […] ma certo le donne che verranno conquisteranno a poco a poco i loro diritti, non di femmine mascolinizzate, ma di libere coscienti pensatrici e allora le donne come me saranno comuni forse».

Evangelina Gemma Alciati, Autoritratto, 1914

Ricostruire le genealogie femminili anche nell’arte è necessario. Tessere il filo della presenza continua delle donne in questo ambito, come in tutti gli altri ambiti, significa costruire una dimensione storica verticale che diventa memoria, che si fa “contro-storia” e consapevolezza delle avvenute cancellazioni intenzionali.

In copertina: Maria Grandinetti Mancuso, Astrazione di natura morta, ante 1930.

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Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.

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