Oriana Fallaci. Storica ed eroe

A definirsi ci ha pensato da sola. Perché lei era così: tanto libera, consapevole e granitica da non dover aspettare che il mondo la giudicasse per darsi, essa stessa, una descrizione che fosse onesta e dissacrante. Almeno dal suo punto di vista. Che è poi ciò in cui ha sempre creduto, senza fronzoli né facezie né ipocriti moralismi. Il suo punto di vista, il suo giudizio. Indifferente completamente e totalmente all’idea di un’oggettività che non ha mai inseguito né ritenuto possibile, ma fedele a ciò che vede, sente e percepisce. «Siamo degli eroi», dice una volta al giornalista Mike Wallace, quando le viene chiesto di definire proprio i e le giornaliste. Storica ed eroe. Ma eroe va letto e scritto al femminile, a forzare la grammatica, a eliminare quel ridicolo diminutivo che, di certo, non può appartenerle. Perché lei, Oriana Fallaci, di minuto ha solo la statura. E forse nemmeno quella, se, con chiunque si sia raffrontata, scontrata, incontrata, mai ha fatto trasparire soggezione; se mai, in nessuna occasione, ha permesso a qualcuno o qualcuna di guardarla dall’alto in basso. È stata lei, piuttosto, a intimidire e far arrabbiare, consapevole di farlo, con l’estrema volontà di farlo, di spogliare e sferzare la persona che ha di fronte, senza tendere la mano o facilitare il ruolo di chi sta per essere messo a nudo dalle sue domande incalzanti, da quel suo giudizio feroce che non ha fatto sconti a nessuno.

Storica ed eroe. Perché la storia, lei, l’ha proprio scritta, con le sue interviste e i suoi reportage; e l’ha scritta nell’attimo stesso in cui essa avveniva, cruda, nuda e crudele, senza la polvere del passato che a volte cela, modifica, fa dimenticare. Ma la storia, Oriana Fallaci, l’ha anche fatta, fin da giovanissima, quando, nella sua città natale ― Firenze ― prende parte alla Resistenza come staffetta con il nome di battaglia Emilia, coinvolta nella lotta al nazifascismo dal padre, Eugenio, capo di un gruppo di partigiane e partigiani della Brigata Giustizia e Libertà. E quel campo di battaglia, pare non averlo abbandonato mai, tanto meno quando, già a sedici anni, si avvicina al giornalismo, prima collaborando con alcuni quotidiani locali, approdando poi al settimanale L’Europeo. Ogni colloquio è preceduto da una preparazione strategica; ogni incontro è una lotta, uno scontro dove le domande sono lanciate addosso come proiettili e pugnalate; ogni trascrizione e pubblicazione sono un conto dei caduti e dei feriti. Un conto che non l’ha riguardata mai. Le sue interviste sono ritratti morali, processi da cui nessuna o nessuno esce mai completamente innocente. Nemmeno quelle che diverranno poi vere e profonde amicizie, come Ingrid Bergman o Anna Magnani. Sono pezzi di teatro nei quali ciò che sta dietro le quinte ha la medesima importanza dello spettacolo recitato sulle assi del palcoscenico. E lei ne è sceneggiatrice e attrice protagonista. Sua, ad esempio, è la frase pronunciata da Charles “Peet” Conrad, comandante dell’Apollo 12, al momento dell’allunaggio. È un uomo basso, Conrad, buffo, e su questo giocherà Oriana Fallaci: «Sarà stato un piccolo passo per Neil [Armstrong] ma per me è lungo abbastanza».

Quando scoppia la Guerra del Vietnam chiede e ottiene di essere mandata al fronte dal suo giornale: è fra le prime donnea divenire inviata di guerra. In sette anni sarà tra Saigon e Dak To i, tra Quang Tri, Hué e Biên Hòa per ben dodici volte, pronta a raccontare tutto l’orrore di un conflitto assurdo e folle, non parteggiando per nessuno ma maledicendo tutto il dolore e la paura che sono figli di bombe, mitragliatrici e attentati. I suoi reportage dal Vietnam fanno il giro del mondo e dal suo primo anno tra le truppe americane e i vietcong nasce Niente e così sia, un diario, un documento, un viaggio nell’inferno. Questo suo libro, tutti i suoi libri sono così, indipendentemente che si tratti di romanzi o resoconti di cronaca: puntigliosi ma mai asettici, contaminati dai brandelli della sua anima che mette in ogni parola. Sono libri che si impongono sull’intero panorama internazionale, così come si impone lei, giornalista di penna e provocatrice di idee. È una donna spigolosa, una scrittrice spigolosa, che non lesina lividi e punti di sutura e che fa passare i suoi pensieri attraverso il libro del cuore prima di farli uscire dalla bocca e farli precipitare sul foglio di carta. E le ferite, anche quelle fisiche, le subisce lei per prima, in Vietnam come in Messico, dove sarà ferita gravemente e creduta morta nella strage di Piazza delle Tre Culture, nel 1968. Le sono propri coraggio e mancanza apparente e totale di timidezza, intelligenza e una sensibilità profonda che usa per capire l’anima di chi ha difronte. È una lente di ingrandimento, Oriana Fallaci, un microscopio in grado di sezionare nelle più piccole parti gli avvenimenti e i personaggi che incontra di volta in volta. La storia le dà appuntamento, ma è lei a decidere la data e il luogo di incontro.

Nel suo vaglio, il premio Nobel per la pace e Segretario di Stato degli Stati Uniti Henry Kissinger diventa un uomo solo, infelice, pieno di complessi, che si fida delle idee e dei preconcetti, che legge troppi libri e troppe poche persone: «Povero Nobel ― afferma Oriana Fallaci ― povera pace»; lo scià di Persia ne esce come meschino, gretto, viziato e maligno; la Prima Ministra indiana Indira Ghandi appare come una donna molto dura, tutt’altro che compassionevole, intelligente e molto profonda. E così ad andare, in una costante analisi e ricerca del nucleo più intimo e molto spesso ignorato di uomini, donne, fatti che ella esplora e a cui va incontro. Se c’è una cosa in cui Oriana Fallaci crede profondamente è nella laicità, una laicità estrema, morale, religiosa e politica tale da permetterle ― e imporle ― di andare contro tutto ciò che non sia il proprio personale pensiero. Reputa l’amore e soprattutto il matrimonio come un palliativo ai bisogni ben più indispensabili per una donna, che sono il lavoro e l’indipendenza economica. E, nonostante questo ― o forse proprio per questo ― vive una relazione intensa e coinvolgente con Alexandros Panagulis, leader greco rivoluzionario nella lotta contro la dittatura dei Colonnelli, relazione che durerà fino all’omicidio del compagno la notte del 1° maggio 1976. Negli ultimi anni della vita, le posizioni politiche che assume lasciano interdette tutte quelle persone che, nella sua libertà, laicità e professionalità si sono identificate e hanno trovato ammirazione e ispirazione. È di certo difficile riconoscere la donna che voleva l’aborto non per sé ma «per chi lo vuole», nella giornalista che si schiera apertamente e con ferocia contro l’eutanasia e contro il referendum per estendere la ricerca sulle cellule staminali. È difficile riconoscerla nelle parole scritte dopo l’11 settembre 2001.

Eppure è lei. Nonostante il male e lo smarrimento che i suoi scritti provocano.

È lei.

E lei, proprio lei, non sarebbe stata certo felice di venire strumentalizzata da chi usa il metro della superficialità per leggerla e spiegarla. Troppo intensa, troppo urticante, troppo fastidiosa. Talmente grande in quello che ha fatto da darle il diritto di sbagliare, pur rimanendo sempre Oriana Fallaci.

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Articolo di Sara Balzerano

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Laureata in Filologia Moderna, è giornalista pubblicista e ha collaborato, con articoli, racconti e recensioni, a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la musica di Einaudi, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è avere, sempre, la forza di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché crede nei dubbi più che nelle certezze; perché domandare significa — in fondo — non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.

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