Media e sport femminili di squadra

Limitando l’analisi ai principali sport di squadra praticati in Italia, tra fine aprile e inizio maggio sono stati assegnati gli scudetti di pallavolo, pallacanestro e calcio femminile mentre Paola Egonu ha vinto la Champions League di pallavolo con la squadra turca del VakifBank di Istanbul, migliore giocatrice e migliore marcatrice del torneo con 275 punti. Analizzando la copertura mediatica dei più diffusi quotidiani sportivi italiani – La Gazzetta dello Sport, Tuttosport e Il Corriere dello Sport – tre volte questi eventi sono finiti in prima pagina e solamente su uno di questi, ovvero Tuttosport. In un mese, né il Corriere la Gazzetta hanno messo in prima pagina un’atleta o il risultato inerente a una di queste specialità al femminile. Il 13 maggio è comparsa sulla prima pagina della Gazzetta l’intervista alla conduttrice Diletta Leotta in cui fin dal titolo si faceva riferimento alla sua storia con Karius, portiere del Newcastle. Tutto ciò è avvenuto nonostante i numeri rispetto al pubblico dal vivo e televisivo durante queste competizioni siano stati straordinari. La partita tra Famila Schio e Virtus Bologna di basket al Pala Dozza ha avuto 5570 spettatori, un record assoluto per la disciplina, mentre l’AS Roma femminile in questa stagione, nella partita di Champions League contro il Barcellona, è stata incoraggiata da quasi 40mila persone presenti allo Stadio Olimpico.

Valentina Giacinti della AS Roma femminile dopo aver segnato il primo goal durante la partita della Supercoppa italiana tra Juventus e AS Roma. Photo by Alessandro Sabattini/Getty Images

La Lega volley femminile ha comunicato che la finale tra Conegliano e Milano ha raggiunto un record storico negli ascolti televisivi. Questa piccola e limitata ricerca sembra confermare le cifre fornite dal Global Media Monitoring Project ovvero la più grande ricerca internazionale sul rapporto tra donne e informazione. Qui si riporta che le notizie di sport a livello globale riguardano le gare femminili solamente per il 4%. Tutto ciò ci conferma, quindi, che esiste un problema preminente rispetto a quanto le atlete finiscano nelle notizie o analisi sportive andando a creare un circolo vizioso molto pericoloso. Come spiega assai bene Pippo Russo nel suo studio La disuguaglianza complessa. Tutte le dimensioni del gender gap nello sport (Journal of Sport and Social Sciences, 2020) la «sottorappresentazione innesca una spirale di conseguenze negative: una bassa copertura mediatica comporta una scarsa rappresentazione e narrazione di fatti e personaggi, una minore esposizione per le aziende investitrici in pubblicità e sponsorizzazioni, un’inferiore quantità di risorse da ridistribuire alle sezioni femminili, alle federazioni e alle società sportive, e minori benefici materiali per le atlete e per gli staff tecnici e non tecnici. Siamo dunque in presenza del gap cruciale, in un’epoca che fortemente fa dipendere dal grado di esposizione mediatica le buone o le cattive fortune di una disciplina sportiva e dei suoi personaggi». Assodata l’importanza che ha la quantità di presenze di atlete e di sport femminili nei media, cerchiamo ora di indagarne la qualità chiedendoci: le poche volte che le donne finiscono nelle cronache sportive, come vengono narrate? Nonostante alcuni miglioramenti siano sicuramente in corso e gli esempi positivi siano sempre maggiori, la tendenza generale spinge verso un’attenzione spasmodica per i corpi e le vite private delle atlete.

Volley Italia, Thailandia,
Paola Egonu

Nonostante abbia appena vinto per la terza volta e a soli 24 anni il massimo campionato europeo di pallavolo, l’articolo principale su Paola Egonu che compare sul sito della Gazzetta dello Sport e tra le prime ricerche su Google ci parla dei suoi gusti a tavola, delle preferenze in amore, delle amicizie e ci mostra quasi esclusivamente foto di lei fuori dal campo. Vista l’importanza di questa atleta, ci si sarebbe legittimamente aspettata un’analisi tecnica dei suoi colpi vincenti (ben 40 nella sola partita finale) e, perché no, della sua stagione straordinaria. Focalizzandosi in modo particolare sugli sport che richiedono contatto come il calcio, la pallamano, la pallacanestro o il rugby, l’attenzione dei media sui corpi si sviluppa soprattutto attraverso una generale tendenza a voler iper-femminilizzare le atlete allo scopo di soddisfare lo sguardo maschile ed eteronormato. Come ci spiega molto bene Trolan nel suo paper L’impatto dei media sulla disuguaglianza di genere nello sport (Procedia-Social and Behavioral Sciences 91, 2013), l’idea che il fisico delle donne non sia fatto per praticare uno sport che richiede contatto fisico, porta spesso a pensare che coloro che lo praticano non sono veramente donne e quindi tendenzialmente lesbiche o aventi tratti non femminili. Tale pregiudizio spinge a voler compensare la loro presunta mascolinità giocando la cosiddetta sex card attraverso calendari, foto sexy o richieste di determinati standard nel dress code. Questa narrazione piace ai media ed è di solito richiesta dagli sponsor perché tende ad attirare il pubblico ma risulta fortemente problematica in quanto perpetua e rafforza un’idea di femminilità monolitica e rassicurante che non cerca in nessun modo di sfidare lo status quo. Il linguaggio, come abbiamo varie volte potuto constatare, è lo spazio dove le discriminazioni diventano spesso più evidenti. Chiamare le atlete in termini infantilizzanti come “ragazze” o addirittura per nome è una pratica all’ordine del giorno nei media italiani. Per quanto riguarda sport tradizionalmente maschili, poi, la difficoltà – come succede anche in altri ambiti – è notevolmente legata alla declinazione al femminile di ruoli o posizioni delle atlete in campo. Durante il Mondiale di calcio femminile del 2019, primo evento veramente mediatico che ha visto le calciatrici protagoniste, si è discusso parecchio sulla cacofonia presunta di parole come portiera, difensora o terzina. È chiaro poi che più ridotta è l’esposizione mediatica, minore è la probabilità che tali vocaboli entrino nel linguaggio comune rafforzando la tesi – molto spesso pretestuosa – di chi dice che suonano male.

Nazionale femminile di calcio

Infine, uno dei problemi maggiori che gli sport femminili di squadra affrontano quando raccontati dai media è l’incessante bisogno di paragonarli alla loro controparte maschile, avvalorando continuamente e pericolosamente l’idea che esista una norma maschile il cui valore è intrinsecamente maggiore/migliore e il cui raggiungimento è l’unico traguardo auspicabile. Tutti questi errori nella comunicazione e rappresentazione delle donne che praticano agonismo avvengono nonostante da diversi anni ormai esistano delle linee guida redatte da GiULiA giornaliste in collaborazione con la Uisp che esortano a scrivere delle atlete nello stesso modo in cui si scrive degli atleti (sia nel merito che nella quantità), di declinare i ruoli, le funzioni e le cariche al femminile e di denunciare discriminazioni e differenze di genere nello sport per quanto riguarda i compensi, il valore dei premi, le tutele e la scarsa rappresentanza nelle dirigenze. Questa breve analisi ci permette quindi di asserire che, nonostante lo sport femminile stia raggiungendo picchi di pubblico e partecipazione – con i Giochi olimpici invernali del 2026 che registreranno un nuovo record in questo senso con il 47% di presenza femminile – i media faticano enormemente ad adattarsi ai cambiamenti reiterando una narrazione anacronistica in quanto fortemente influenzata da stereotipi di stampo sessista e maschilista. La soluzione, per quanto non semplice, sembra dover passare assolutamente da una presa di consapevolezza da parte di tutto il comparto informativo italiano di quanto i media possano incidere nel miglioramento, anche per l’aspetto economico, della condizione dello sport femminile. Dall’altro lato, come ci ricordava Trolan ormai 10 anni fa, «un cambiamento ideologico e simbolico» verso un concetto di femminilità e di corpo atletico che sia plurale, mutevole e non binario sembra più che mai necessario.

***

Articolo di Camilla Valerio

Sono nata a Bolzano, ma vivo a Salerno e amo giocare a basket da ben 19 anni. Ho conseguito una laurea specialistica in Global Studies presso l’Università Karl-Franzens di Graz con una tesi che poi è diventata anche un libro: The Normalization of Far-right Populism. Narratives on Migration by the Italian Minister of the Interior between 2017 and 2018. Scrivo per diverse testate e ho iniziato ad interessarmi al femminismo quando ho capito che tante delle cose che mi facevano arrabbiare avevano un nome, ovvero “patriarcato”. Frequento il Master in Studi e Politiche di genere presso l’Università di Roma Tre.

3 commenti

Lascia un commento