Il genere horror ha una storia millenaria. Le prime tracce di racconti di paura risalgono all’antichità e sono legati al folclore e alla tradizione religiosa: si parla di morte e di cosa c’è dopo di essa, del male insito in ogni persona, di presenze diaboliche che inducono a commettere crimini imperdonabili o tormentano fino alla follia. Tematiche giunte fino a noi e che ancora oggi ci suscitano sentimenti di repulsione e che, nonostante questo, attraggono e portano a interrogarci sulla natura dei nostri tabù.
H.P. Lovecraft, uno dei maestri del genere, affermava che la paura era il sentimento più forte che l’umanità potesse provare e che tra tutti i tipi di paure esistenti quella dell’ignoto fosse la più terrificante. Elizabeth Barrette nel suo saggio Elements of Aversion spiega che il successo attuale dell’horror è legato alla nostra natura animale: nella sicurezza della civilizzazione l’istinto di sopravvivenza non si è assopito, siamo nostalgici di una vita che era sì più pericolosa ma anche più libera; rivivere la paura che sentivano i nostri antenati è un modo per rivivere sentimenti ancestrali e sfuggire alla monotonia quotidiana. Barrette aggiunge anche che l’horror ci costringe a confrontarci con tematiche che di solito preferiremmo ignorare perché ci mette disagio anche solo nominarle, a porre in discussione credenze che diamo per scontate perché comunemente accettate. L’horror è anche un ottimo modo per poter analizzare i sentimenti che serpeggiano in un determinato periodo: per esempio, il successo di storie di vampiri durante l’età vittoriana, di cui il più grande esempio è Dracula di Bram Stocker, è stato visto come metafora sia di una sessualità conturbante in un’epoca profondamente bigotta e morigerata, sia della crescente avversione per l’aristocrazia, che, proprio come i vampiri, è vecchia, decadente, si nutre dell’essenza vitale delle classi meno abbienti e andrebbe eliminata. Inoltre, il legame tra mostri e antisemitismo e razzismo è ormai ben documentato – lo stesso Lovecraft basò gran parte della sua paura per l’ignoto e per esseri incomprensibili all’umano sul suo crescente odio per il popolo ebreo e la popolazione nera d’America. È questa l’eredità che il cinema ha raccolto quando iniziò a produrre i primi film: Le manoir du diable, corto di 3 minuti di Georges Méliès, è considerata la prima pellicola horror, nonché una delle prime ad avere effetti speciali. Da allora il genere ha conosciuto una altalenante fortuna, tra vere e proprie perle e film qualitativamente assai meno impressionanti.
Ora, come già affrontato in altri articoli, il legame tra il femminile, il mostruoso e il grottesco ha una storia lunga come l’umanità: il folclore antico è pieno di esseri per metà animali e metà donne che attirano e seducono gli uomini prima di portarli alla morte. Per comprendere il perché la donna mostruosa sia un’immagine così duratura nella cultura occidentale è fondamentale tener presente la dicotomia tra la “donna perbene” e la “donnaccia”: la prima è colei che troverà un marito e con lui metterà al mondo una prole, morigerata e fedele alle regole imposte dalla società di riferimento; per convincere le giovani a seguire questi dettami le viene contrapposta la seconda, una donna che a causa di egoismo e debolezza si è rovinata la vita, trascinando nella sua caduta anche chi le sta attorno. Unito al fascino e al timore provato nei confronti di quello che fino a pochi secoli fa era sostanzialmente un mistero, ossia quello del processo riproduttivo, molte società hanno prodotto nel loro immaginario figure di femmine mostruose che hanno lo scopo di distruggere gli uomini e mettere a rischio il tessuto sociale a causa del loro comportamento disinibito.

Come si è tradotta questa eredità culturale nella settima arte? Inizialmente, le donne sono soprattutto damigelle in pericolo: nella maggioranza dei casi il mostro di turno si avventa su di loro cogliendole nel sonno e/o rapendole, spesso sono vestite con un abito bianco (che lascia strategicamente scoperte sempre più porzioni di pelle man mano che il nudo comincia ad essere accettato al cinema), hanno i capelli sciolti e sono quasi del tutto prive di trucco evidente. Con l’arrivo di effetti speciali sempre più sofisticati vengono spinti più in là i limiti della violenza che si può mostrare sui grandi schermi e le donne sono le vittime principali: la scena dell’accoltellamento nella doccia in Psyco di Alfred Hitchcock è non solo una delle scene più cruente di violenza su una donna dell’epoca, ma è anche una delle prime volte in cui il “mostro” non è un essere soprannaturale ma un uomo.
Negli anni Sessanta il genere horror per lo più si allontana dalle atmosfere gotiche e si divide in vari sottogeneri tra cui quelli di maggiore successo sono lo slasher, caratterizzato da una violenza estrema (ad inaugurarlo è il film Blood Feast del 1963, il primo splatter della storia; interessante notare che nel poster si vede un uomo avvicinarsi con una mannaia su una donna in biancheria intima) e il thriller, di natura prevalentemente psicologica, che mira a inquietare più che a impaurire (Peeping Tom, film del 1960 diretto da Michael Powell, parla di un serial killer che uccide le donne mentre le filma con una telecamera). Questi sono anche gli anni della Seconda ondata femminista e di una maggiore attenzione a quanto veniva proposto nei media. Iniziano così a levarsi le prime proteste verso una rappresentazione femminile oggettificante; nel caso dell’horror vengono criticate l’eccessiva nudità delle vittime, l’insolita lunghezza delle scene di inseguimento quando è coinvolta una donna e l’uso di una prospettiva invadente, concentrata sul seno e sul ventre della giovane mentre viene seviziata e uccisa dal mostro/uomo di turno. Nel 1968 esce Rosemary’s baby, precursore dei film horror a sfondo religioso di cui il più famoso erede è L’esorcista, del 1973. La peculiarità di questa nicchia di prodotti è il fatto che la persona posseduta sia quasi sempre una donna, in genere una ragazza di poco maggiorenne, fra l’adolescenza e l’età adulta. Jude Doyle spiega in Il mostruoso femminile che questa particolare preferenza è da ricercare nell’ancestrale timore che molte società hanno nei confronti della pubertà femminile, che segna l’inizio della sua fertilità e del controllo da esercitare sul suo corpo affinché abbia rapporti sessuali solo dentro vincoli accettabili: «Il demone che abita il corpo di Regan (protagonista de L’esorcista) non è soltanto qualcosa che le è capitato durante la pubertà, è la pubertà. In sostanza il messaggio al cuore de L’esorcista è che la maturità sessuale delle donne è immorale e che Dio condanna le giovani ragazze che crescono. Ecco la forza ideologica che guida quelle storie sulla tossicità del ciclo e sui fantasmi evocati dalla sindrome premestruale. In una cultura in cui ci insegnano a proteggere bambini e ad aborrire le donne, la zona di confine tra le due età per una ragazza segna il primo passo verso la sessualità adulta, ma anche l’inizio della sua capacità riproduttiva, quella facoltà di procreare di cui il sangue mestruale è segno. […] La pubertà costituisce il limite oltre il quale una ragazza smette di essere un individuo e comincia a essere una donna, il momento in cui diventa cruciale assicurarne la sottomissione al potere dell’uomo».
Negli anni Settanta, cogliendo i nuovi timori dell’epoca – e, forse, le critiche del femminismo – le donne cominciano ad essere protagoniste della loro storia anche nel genere horror, senza rimanere solo vittime. Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper, Suspiria (1977) di Dario Argento, Carrie (1976) tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King e molti altri hanno come protagoniste giovani che devono far fronte a delle avversità con l’obiettivo di sopravvivere – e, nel caso di Carrie, possono diventare l’antagonista. Tra i tanti titoli i più importanti sono sicuramente Halloween (1978) di John Carpenter e Alien (1979) di Ridley Scott, le cui protagoniste, Laura Strode e Ellen Ripley, ispireranno una nuova generazione di personaggi femminili intelligenti, intuitivi e disposti a tutto per salvare sé stesse e il resto del cast, le cosiddette final girls. Menzione a parte va fatta per I spit on your grave, horror del 1978 di Meir Zarchi considerato il maggior esponente della sottocategoria del rape & revange (letteralmente “stupro e vendetta”), dove le protagoniste si rifanno sui propri stupratori compiendo su di loro atti di violenza. Il film venne stroncato dalla critica alla sua uscita e censurato in vari Paesi, accusato di glorificare la violenza sulle donne nascondendosi dietro la pretesa che la vendetta sugli stupratori fosse empowerment femminile; successivamente è stato rivalutato come perla del suo genere, mal-interpretato dalla critica di allora, e che, nonostante non sia definibile propriamente come un film femminista, si assicura che il pubblico, compreso quello maschile, simpatizzi con la protagonista, distanziandosi dai suoi seviziatori.
Anche la figura della final girl ha subìto una rivalutazione. Per quanto sia innegabile il suo contributo a una rappresentazione migliore delle donne nel mondo del cinema, permangono moltissime problematicità: in Halloween, per esempio, la ragazza troppo timida per approcciarsi agli uomini sopravvive, mentre le sue amiche, assai più superficiali e sessualmente attive, vengono brutalmente uccise dall’antagonista. Il cliché che vuole che la final girl sia la ragazza più casta del gruppo mentre quelle “non pure” sono destinate a una fine violenta sarà una costante nei film slasher per lungo tempo, considerabile un riflesso attorno al dibattito sulla violenza sessuale. È in questi anni che i registi slasher vengono accusati di feticizzazione della violenza sulle donne, diventando una delle cause della decadenza del genere. Ci vorranno gli anni Novanta per avere una ventata di aria fresca grazie a Scream, opera del 1996 di Wes Craven, una satira accattivante del genere slasher che mischia con maestria autoironia e paura. Le ragazze di Scream sono argute, dirette, calcolatrici: Sidney Prescott, la protagonista, sopravvive nonostante rompa la “regola” della castità evidenziando, per la prima volta, come nei film horror le donne sono spesso punite per la loro vita sessuale.

Il nuovo millennio si apre con Ginger Snaps, horror canadese dove attraverso la metafora della licantropia viene esplorata la paura dei cambiamenti portati dalla pubertà e del risveglio sessuale. Sulla scia di Alien sono femminili le protagoniste di Resident Evil (2002) e Silent Hill (2006), Dawn of the Death (2004), The Fourth Kind (2004) e The Descent (2005). Nel 2009 viene presentato Jennifer’s body, un raro esempio di film horror prodotto e diretto interamente da donne: rivelatosi un flop di incassi e critica alla sua uscita – soprattutto a causa di una campagna pubblicitaria vergognosa – è oggi rivalutato come una pietra miliare del genere, per cui in molte e molti non esitano a definirlo un horror femminista, una presa in giro degli slasher e della prospettiva maschile che ha per tanto tempo predominato in esso. Questi film non devono far pensare che il problema della rappresentanza femminile nel genere sia risolto – i remake, sequel e prequel dei grandi classici degli anni Settanta-Ottanta come Texas Chainsaw Massacre e Halloween ne sono l’esempio, nonché la lunga lista di film su possessioni demoniache – ma sono un importante passo avanti.

Nella scorsa decade sempre più registe si sono cimentate col cinema dell’orrore: Babadook (2014) di Jennifer Kent, A girl walks alone at night (2014) di Ana Lily Amirpour, Saint Maud (2019) di Rose Glass e tanti altri sono film che raccontano la femminilità e l’orrore assumendo, finalmente, una prospettiva anch’essa femminile. La final girl ha trovato nuova fortuna in pellicole come Ready or Not (2019), mentre il tema più classico dell’orrore proveniente dal cambiamento del corpo femminile e dalla fertilità è stato affrontato con nuove e interessanti sfumature da The Witch (2015) e Hereditary (2018). Il rinascimento dell’horror ha quindi un’impronta femminile, come dimostra il successo dei recenti Huesera: The Bone Woman, Piggy e Sissy, tutti diretti da donne (Michelle Garza Cervera, Carlotta Pereda e Hannah Barlow), e si può ben sperare che si aggiungeranno nuove perle a questo genere che tanto può dire sulla nostra società.
In copertina: Jamie Lee Curtis nel ruolo di Laurie Strode in Halloween, e Sigourney Weaver nel ruolo di Ellen Ripley in Alien.Sigourney Weaver nel ruolo di Ellen Ripley in Alien.
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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.
