Il laboratorio del corso dedicato alla sessualità della Sis è tenuto dal professor Leonardo Marchetti e si prefigge di intavolare una produttiva discussione su come introdurre i temi legati all’oppressione femminile in classi liceali, specificando il contesto geografico e storico in cui sono nati e come si sono evoluti. Il modo in cui il corpo della donna è stato usato per evocare un’alterità attraente ma pericolosa è oggetto di studio da molto tempo: esseri misti, metà umane e metà mostruose, seducenti e assassine, l’incarnazione della non accettazione da parte della classe dominante maschile che la donna avesse controllo di sé e della propria sessualità.

Nello specifico il professor Marchetti ha concentrato il suo laboratorio sulla figura della donna-serpente, in genere rappresentata con il busto di una giovane bellissima mentre il resto del corpo è composto dal serpente, ma non è certo l’unica: la Sfinge e le Arpie dei miti greci avevano corpo di animale (leone la prima, uccello la seconda) e volto di donna; le Sirene erano umane sopra la vita e pesci sotto, mentre in altri miti il loro aspetto era simile a quello delle Arpie; Scilla, uno dei due mostri che abitavano lo stretto di Messina, aveva busto di donna e corpo in parte pesce e in parte cane. L’associazione fra la donna e il serpente nella cultura occidentale è in genere ricondotta alla Genesi: Eva viene convinta a disobbedire alla volontà di Dio dal demonio, che si presenta a lei sotto forma di serpente; ma le metamorfosi del corpo femminile hanno una storia precedente a quella biblica e sono diffuse anche al di fuori dell’Occidente. Il corpo femminile e mostruoso è un’immagine che è sopravvissuta allo scorrere del tempo.

L’arte antica raffigurò la Sfinge – creatura di probabile origine egiziana il cui mito si diffuse in tutto il Mediterraneo – per rappresentare una femminilità enigmatica, seducente quanto distruttiva, contrapposta a quella più razionale di Edipo, incarnazione della ragione che trionfa sugli istinti. Simile fu il destino delle Sirene, sconfitte dall’astuzia di Odisseo. Nell’Ottocento queste rappresentazioni furono riprese e la donna seduttrice divenne un tema ricorrente nelle opere della classe intellettuale maschile dell’epoca, che dipingeva e scriveva delle sue ansie rispetto a una società in cambiamento in cui le donne stavano lentamente ma inesorabilmente guadagnando autonomia. Molto ricorrente è la figura di Lamia, in origine una regina punita da Era per essere stata amante di Zeus con la morte dei suoi figli e che subì una trasformazione in serpente.
Come altre donne di questo filone Lamia è spesso raffigurata nuda o seminuda, in pose languide e immersa nella natura, circondata da serpenti. Destino simile fu quello di Lilith, che precede Eva, i cui capelli rossi e gli occhi verdi fissi in uno sguardo inquietante e alieno sono stati riproposti per rappresentare il peccato.
Ma perché questa continua associazione fra la donna e il non umano? Perché non c’è quasi mai un equivalente maschile? La risposta può essere cercata nella dicotomia fra la donna “perbene” e la “donnaccia”, fra colei che è considerata maritabile per le sue virtù e colei che ha perso tutto a causa dei suoi peccati; una contrapposizione antichissima, che nell’Ottocento fu fonte di ispirazione per la classe intellettuale soprattutto dopo la nascita della psicanalisi. Mentre le donne dell’epoca prendevano sempre più coscienza delle proprie capacità e scardinavano tutti i preconcetti sulla femminilità, l’arte e la letteratura proponevano ancora e ancora figure di donne dal destino infelice per aver cercato di liberarsi dalle catene della società maschilista, di donne idealizzate al punto da essere paragonabili a sante, e di mostri con fattezze seducenti. Figure femminili la cui storia è assai lunga: nella Teogonia di Esiodo le donne sono descritte come un male per l’uomo e gli epiteti che le accompagnano sono “sciagura”, “cattive”, “ingannatrici”; la loro è una “stirpe nefasta” perché discendente da Pandora che liberò dal vaso i mali del mondo e ciò le rende “innaturali”, simili ai cani perché incapaci di trattenere i propri istinti. In La satira delle donne di Semonide di Amorgo gli insulti continuano, descrivendo la nascita di diversi tipi di donne accomunandole ad animali come il cane, l’asino e la scimmia. Considerando il contesto in cui erano recitati la Teogonia – un inno sacro – e La satira delle donne – durante i simposi – è facilmente deducibile che l’idea che le donne non potessero essere definite del tutto umane era comune nell’antico popolo greco. Nulla ci è giunto riguardo a cosa pensassero le greche di tutto questo, di cui tra l’altro neanche sappiamo per certo se potessero assistere a queste cerimonie.

La produzione greca su questo argomento è purtroppo sterminata e influente: nelle Argonautiche di Apollonio Rodio viene raccontato delle donne di Lemne, che ripudiarono e uccisero i loro mariti per poi fondare un governo solo femminile; quando gli Argonauti arrivarono queste donne si unirono a loro e partorirono dei figli i quali, in assenza dei padri, ristabilirono l’ordine patriarcale e relegarono le loro madri nell’ambiente domestico. Questa storia è erroneamente considerata come la prova dell’esistenza di un antico potere femminile ormai estinto: come ben illustrato da Eva Cantarella, esso ha in realtà una funzione didattica per gli uomini, per mostrare loro le conseguenze del dare il potere alle donne. Similmente, anche il mito delle Amazzoni ha la stessa funzione: come indica il loro tragico finale esso non era considerato dai suoi ideatori la storia di autonomia dal potere patriarcale per antonomasia, ma il rito di passaggio di un ragazzo che per diventare uomo deve sottomettere la donna. Omero nell’Odissea paragona Clitemnestra a una cagna per aver ucciso il proprio marito e non avergli neanche garantito degni riti funebri, senza parlare del movente dell’omicidio: il sacrificio della piccola Ifigenia. Erodoto, nelle Storie, racconta di come Eracle si fosse unito a una donna metà serpente, una regina d’Oriente, per potersi riprendere le proprie cavalle, rapite da quell’essere che, come le umane ― ci tiene a sottolineare l’autore, era sessualmente insaziabile; i figli generati da quel rapporto succederanno poi alla propria madre, ristabilendo l’ordine patriarcale greco anche in quelle terre esotiche. Non è da sottovalutare, infatti, il fattore xenofobico: la corruzione morale e dei costumi era spesso associata ai popoli stranieri, e le loro donne diventavano simbolo di seduzione distruttrice che doveva essere ricondotta ai canoni di rispettabilità quando non poteva essere distrutta ― non dissimile a come oggi il razzismo sessualizza le donne delle minoranze, identificandole come pericolose rovinafamiglie o come mero oggetto sessuale da buttare quando è tempo di trovarne una appartenente al proprio gruppo etnico per farne una buona moglie.
La figura della donna-serpente è diffusissima nel mondo: i/le naga sono creature della terra presenti in Asia, dall’India fino al Giappone, divinità che incarnano prosperità, protettori e protettrici dei corpi d’acqua. Nell’area dell’antico Egitto, dalla Libia fino alla Siria, è presente Isis Thermuthis, raffigurata ora per metà umana e metà serpente, ora con solo la testa umana, ora come un serpente ma con addosso particolari iconografici associati a dee legate alla fertilità come Iside, Hathor e Demetra.

In tutte queste rappresentazioni antiche compare sempre un elemento caotico, femminile, contrapposto all’ordine maschile; la femmina è creatura sciocca ma astuta, legata all’acqua (e come essa sempre in movimento, sempre in grado di assumere nuove forme) e alla terra (e come essa fertile e in grado di generare la vita). Un immaginario che verrà adottato dalla tradizione cristiana: nelle raffigurazioni dell’Apocalisse, prima dell’influenza norrena, il drago era presentato come un serpente che vomitava acqua per attaccare la donna vestita di sole, che si rifugia sulla terra per sfuggirgli. Nel testo tardo antico mediorientale Il Fisiologo, probabilmente in parte ispirato al mito di Echidna, viene descritto il processo di generazione della vipera, che tronca i genitali del maschio con la bocca dopo il rapporto uccidendolo; successivamente, i piccoli divoreranno la madre dall’interno, facendosi strada fino a uscire dal suo ventre, rendendo questo animale matricida e parricida, il peggio del peggio. Curiosamente, nelle copie più antiche del Fisiologo la scena dell’accoppiamento è stata rappresentata con creature per metà serpente e per metà umane, simili alle raffigurazioni di Echidna e Scilla. Sempre nel Medioevo venne riscoperto e ripreso Aristotele, reinterpretato in chiave moralizzante cristiana: nella sua descrizione delle femmine degli animali esse sono definite meno coraggiose e più malvagie, meno sincere e impulsive, gelose, puerili, portate al pianto, pigre e prive di ritegno, completamente opposte ai maschi. Tutti aggettivi che verranno poi usati per descrivere le donne durante i sermoni o nell’educazione delle giovani delle élite. A partire da questo periodo l’iconografia della tentazione di Eva è mutata e ha rappresentato il serpente con tratti femminei, che si scambia uno sguardo di intesa con la prima donna; Pietro Commestore, commentando il passo in questione, adduce l’esistenza di una razza di serpenti col volto di donna in grado di parlare e di indurre in tentazione. Questo genere di testi era riservato all’educazione delle principesse e delle giovani della classe nobiliare, a cui doveva essere insegnato ad essere pie, consapevoli di chi fosse la colpa delle pene del loro sesso.
Questo era il terreno culturale su cui poi venne costruita la figura della femme fatale ottocentesca e novecentesca, con la conseguente descrizione di rapporti sessualmente conturbanti ed irresistibili in cui erano coinvolti i poveri uomini incapaci di resistere loro. Ogni volta che il potere maschile si sentirà in qualche modo minacciato le donne diventeranno mostri da uccidere o sottomettere: era vero per gli antichi popoli ed è rimasto tale per tutta la storia occidentale e non.
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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.