Il passaggio tra prima e seconda metà del XX secolo avviene all’insegna della guerra e della violenza: «Non posso fare a meno di pensare – affermava William Golding – che questo deve essere stato il secolo più violento della storia dell’umanità». Lo studioso Giulio Ferroni definisce il passaggio tra le due guerre mondiali come il «cuore oscuro» del secolo, con la sua portata drammatica e carica di trasformazioni epocali per la storia dell’umanità.

Come già rilevato nei contributi precedenti, le donne hanno cominciato il loro percorso di emancipazione non senza difficoltà. Daniela Brogi ci ricorda in modo incisivo: «Le battaglie materiali e culturali per l’emancipazione delle donne sono state combattute dalle suffragiste (termine più appropriato di “suffragette”), da movimenti di liberazione delle donne, da artiste, contadine, intellettuali, sindacaliste, imprenditrici e leader; […]. Si tratta di un insieme di situazioni che appartiene alla storia d’Italia, d’Europa, del mondo, ed è dentro questa complessità culturale che va visto, studiato e dibattuto lo spazio delle donne. Ignorare tutto questo, è il momento di dirlo senza esitare, non è solo una scelta sbagliata e basta: è incultura e spesso anche mancanza di professionalità». Ancora, in un altro passaggio ancor più esplicativo sul XX secolo, la studiosa sottolinea che «Il Novecento è stato il secolo delle donne: del lavoro delle donne. Lo storico Erich Hobsbawn, di cui si ricorda sempre la definizione che ha dato del Novecento come “secolo breve”, ha anche scritto che la rivoluzione femminile è stata l’unica rivoluzione riuscita del Novecento» (Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, 2022).

Nonostante ciò, la rappresentazione del femminile nella letteratura italiana fatica ad affermarsi nella sua specificità libera da stereotipi reiterati nel tempo. Virginia Woolf lo aveva raccontato molto bene: «La mia giustificazione, se mi avesse trascinata in tribunale, sarebbe stata che avevo agito per legittima difesa. Non l’avessi uccisa, lei avrebbe ucciso me. Avrebbe succhiato la vita dai miei scritti. Perché, e me ne resi conto subito appena impugnata la penna, non si può recensire neppure un romanzo senza pensare con la propria testa, senza esprimere quella che, secondo noi, è la verità sui rapporti umani, sulla morale, sul sesso. E di tutti questi problemi, secondo l’Angelo del focolare, le donne non devono parlare liberamente e apertamente; le donne devono ammaliare, devono conciliare, devono, per dirla brutalmente, dire bugie se vogliono avere successo. Perciò, ogni volta che avvertivo l’ombra della sua ala sulla pagina, o la luce della sua aureola, afferravo il calamaio e glielo scagliavo contro» (Virginia Woolf, Professioni per le donne, in La morte della falena e altri saggi, 1942). Ci sono certamente opere e autori e autrici che ne danno un’immagine che comincia a staccarsi da quella dell’”angelo del focolare”. È, però, un percorso lungo, che merita uno studio particolareggiato. Proveremo – in questa sede – a fare riferimenti esemplificativi dell’intero periodo. «Cosa può fare una donna nei romanzi scritti dagli autori italiani contemporanei?» si chiede Daniela Brogi: «In molti casi, prima di tutto la morta; poi la nonna, la madre, l’amica perfida, la moglie stronza, la figlia edipica, l’amante (nuda), la ragazzetta ninfomane, la sconosciuta stupida – e in ogni caso sempre una donna eterosessuale» (Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, cit.).
Il celebre romanzo di Moravia, Gli indifferenti – capolavoro di critica alla borghesia sterile e affettata di piena epoca fascista – ha un incipit che lascia subito presagire quale sarà l’atteggiamento del narratore nel delineare il profilo delle figure femminili protagoniste della storia: «Entrò Carla; aveva indosso un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta, che bastò quel movimento di chiudere l’uscio per fargliela salire di un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le calze intorno alle gambe; ma ella non se ne accorse e si avanzò con precauzione guardando misteriosamente davanti a sé, dinoccolata e malsicura; una sola lampada era accesa e illuminava le ginocchia di Leo seduto sul divano».

Ancora, qualche riga successiva: «Curvo, seduto sul divano, egli osservava la fanciulla con una attenzione avida; gambe dai polpacci storti, ventre piatto, una piccola valle di ombra fra i grossi seni, braccia e spalle fragili, e quella testa rotonda così pesante sul collo sottile. “Eh che bella bambina;” egli si ripeté “che bella bambina”. La libidine sopita per quel pomeriggio si ridestava, il sangue gli saliva alle guance, dal desiderio avrebbe voluto gridare». A onor del vero, il romanzo di Moravia mostra inettitudine, grigiore e superficialità in ogni personaggio, sia maschile che femminile, ma le pennellate che dipingono le donne sono peculiarmente intinte nella vernice degli stereotipi: Mariagrazia (la madre) che diventa amante quasi inconsapevole e ingenua di un uomo arrivista e cinico; Carla (la figlia) giovane, svogliata, conturbante senza avvedersene, priva di reali sentimenti e spessore, che cede alla seduzione di Leo (amante della madre); Lisa che, per ottenere l’attenzione di Michele, veste i panni della pettegola e rivela al ragazzo della relazione tra la sorella Carla e l’amante della madre Leo. Dunque, un bel cocktail di pregiudizi sessisti in un’opera letteraria che fotografa la realtà femminile così come effettivamente era in molte situazioni dell’epoca. Una rilettura di questo romanzo basterebbe, di per sé, per decostruire e ricostruire una narrazione che può prevedere un controcanto, e i luoghi in cui esso può consapevolmente maturare sono le aule di scuola e di università, che possono diventare promotori di una visione differente del maschile e femminile nella società, partendo dalla conoscenza di quanto è sempre avvenuto nella storia dell’umanità.
Esploriamo, altresì, qualche altro emblematico esempio, consapevoli di non poter essere esaustivi in tale sede. Nel 1944 viene pubblicato in volume L’Adalgisa. Disegni milanesi, una raccolta di dieci racconti con i quali Carlo Emilio Gadda critica al vetriolo la borghesia milanese a lui contemporanea, messa sotto accusa per ipocrisia e volgarità attraverso lo stile del grottesco. Il titolo deriva dal personaggio femminile protagonista dell’ultimo racconto, Adalgisa, per l’appunto.

La donna è una popolana che si è conquistata una certa posizione sociale attraverso il canto e ha sposato un ricco milanese che l’ha introdotta nel mondo della borghesia meneghina: «Tutta la sua “mentalità”, come dicevano allora a Milano, cioè la sua “psicologia” (come sosteneva Remigio, ridendo, imbrogliando i suoni) di donna di popolo, di cantante, e di stiratrice in proprio, fu rivolta invece – con una coerenza d’atti e di contegno ammirevole, con una tenacia e una razionalità che ebbero, secondo me, del sublime – a evolversi, a trasfondersi in una borghese perfetta, in una “signora” al cento per cento. Con due domestiche, cuoca e cameriera, con un marito in piena regola, con un ottavino di palco alla Scala a sentir cantare gli altri, no a cantar lei: con un “breloque” “tempestato di diamanti” sull’avvallamento centrale del seno: che era un seno piuttosto ragionativo». La donna – che racconta la sua vicenda da vedova – deve difendersi dai pettegolezzi che subisce da parte delle borghesi gelose della sua parabola ascendente e maldicenti circa la sua condizione di popolana, di per sé tendente all’infedeltà e alla rozzezza: «Ma lei, l’Adalgisa, “seppe perseverare nel suo affetto”. Impavida. Quando le lingue dei casigliani del San Giròlom (oggi Carducci) erano già tutte in moto da un pezzo: e brusivano più che vespe su favo. Lei?… Perché mai avrebbe dovuto badare alla perfidia?… di certe vipere?… di certe streghe pettegole?… Lei continuò ad amare il suo Carlo: e basta. S’impicciassero dei fatti loro… Lei aveva il diritto di voler bene a chi voleva… senza domandar permesso a nessuno… e chi voleva era il Carlo, il suo Carlo». Ma Adalgisa è l’ennesima figura femminile che, una volta sposata, rinuncia alla carriera per vestire i panni della donna borghesemente accomodata, devota alla famiglia e soprattutto al marito: «E tutto perché ero rimasta vedova! Cosa non me ne han dette! Cosa non me ne avevano fatte passare già fin da prima!… perché cantavo! Sì, cantavo; oh bella!… Cantavo!… perché avevo una voce… che se non avessi sposato il mio povero Carlo… a quest’ora sarei sul palco del Metropolitan… con una cinquantina di file di perle intorno al collo…». E, rivolgendosi alla cognata Elsa, afferma: «”Ma non dargli la soddisfazione di credere al loro stemma… alla loro superbia… di prendere come oro colato tutte le minchionerie che gli vengono fuori dalla bocca… Sono dei marchesi minchioni! Dai retta a me! Tu poi! Che sei come me, che sei più bella di me… che sei giovane …”: la guardò con l’occhio ammirato d’una sacerdotessa, d’una medichessa. “Se non sei felice… se non hai, tutte le soddisfazioni che meriti… ascoltami! Gli anni fanno presto a passare… È inutile consumarli a far via la polvere ai mobili, ai ritratti… Credimi, Elsa, non meritano…”». Adalgisa, dunque, non ha prontamente ucciso l’angelo del focolare, ma ha la lucidità di prenderne le distanze in un bilancio di vita con un’analisi critica che, nell’ottica della scrittura gaddiana, mira a mettere sotto accusa il sistema di vita della borghesia milanese (come si diceva). Interessante, dal punto di vista linguistico (il quale rappresenta, del resto, uno degli aspetti più originali dell’opera di Gadda), l’uso del femminile per le parole sacerdotessa e medichessa, utilizzate in senso scherzoso o spregiativo: la Crusca ricorda che «Medichessa viene difeso dal grammatico Raffaello Fornaciari nella sua Sintassi (1881) ma è attestato raramente e quasi sempre è usato ironicamente, come risultava già dal passo di Salvini visto sopra. Rispetto a medica, infine, medichessa sembra conservare tutt’oggi una connotazione legata ad attività e pratiche proprie dell’arte medica del passato ma che oggi sono assenti dalla professione, quali quelle di sacerdotessa guaritrice, di creatura dotata di poteri magici e di capacità divinatorie».
Nel 1948 esce La casa in collina, tra i più noti romanzi di Cesare Pavese. La figura femminile di Cate si rivela, a ben guardare, come contrapposta a quella del protagonista Corrado, passivo e inetto di fronte agli eventi, dai quali può solo fuggire in solitaria. Cate affronta, invece, il suo appuntamento con la Storia e diventa partigiana. Ma nelle parole di Corrado emerge la cultura sessista connaturata negli uomini: «Le comperai qualche volta un rossetto che la riempì di gioia, e fu qui che mi accorsi che si può mantenere una donna, educarla, farla vivere, ma se si sa di cos’è fatta la sua eleganza, non c’è più gusto. Cate aveva il vestito ragnato e la borsa screpolata; commuoveva, a sentirla, tant’era il contrasto tra la sua vita e i desideri; ma la gioia di quel rossetto mi diede ai nervi, mi chiarì che per me lei non era che sesso. Sesso sgraziato, fastidioso. E una pena, saperla tanto scontenta e ignorante. Si correggeva, a volte, ma aveva degli sciocchi entusiasmi, delle brusche resistenze e ingenuità che irritavano. L’idea di esserle legato, di doverle qualcosa, per esempio del tempo, mi pesava ogni volta». In riferimento a un’altra ragazza, Anna Maria, il protagonista afferma: «Ogni giorno cambiava capriccio e mi scherniva per la mia sopportazione. Quando venivano le scene — occhiaie minacciose e stravolte — si faceva anche lei taciturna e piangeva come una bimba. Diceva che non mi capiva e che le davo i brividi. Per farla finita, la volli sposare. Glielo chiedevo dappertutto, per le scale, nei balli, sotto i portoni. Lei si faceva misteriosa e sorrideva. Durò tre anni e fui sul punto di ammazzarmi. Di uccidere lei non valeva la pena». A Cate spetta di trovare la risposta che inchioda Corrado alla sua inettitudine e mostra, in fondo, la distanza etica tra i due personaggi: «— A quei tempi tu non eri cattivo. — Adesso sí? — dissi stupito. — Adesso ti faccio ribrezzo? — Adesso soffri e mi fai pena, — disse seria. — Vivi solo col cane. Mi fai pena. […] Sei come un ragazzo, un ragazzo superbo. Di quei ragazzi che gli tocca una disgrazia, gli manca qualcosa, ma loro non vogliono che sia detta, che si sappia che soffrono. Per questo fai pena. Quando parli con gli altri sei sempre cattivo, maligno. Tu hai paura, Corrado».

Nel bellissimo La luna e i falò, le donne sono il riflesso della loro condizione ancora persistentemente sottomessa e tragica, anche sulla pagina letteraria, come ricordava Daniela Brogi sulle donne dei romanzi scritti dagli autori italiani contemporanei. L’ex partigiano Nuto rivela ad Anguilla il destino delle tre figlie del padrone della fattoria della Mora: Irene, vittima di un matrimonio infelice, ha sposato un uomo violento; Silvia è morta per un aborto clandestino, la cui gravidanza era frutto di una relazione adulterina, Santina è stata giustiziata dai fascisti e il corpo dato alle fiamme. Tre rappresentazioni della condizione femminile diseguale rispetto a quella maschile: il matrimonio come trappola violenta, l’aborto come pratica clandestina e pericolosa (ai danni del corpo femminile), la morte violenta di una donna impegnata nella lotta antifascista.
Di testimonianze di sessismo e prevaricazione maschile è seminato anche il racconto delicato e intimo di Cronaca familiare di Vasco Pratolini. Il romanzo autobiografico nel quale, in prima persona, il protagonista racconta del rapporto con il fratello e con le figure familiari dall’infanzia alla vita adulta, presenta vari esempi di una cultura che aveva (da secoli ormai) introiettato una certa idea della donna. Del maggiordomo protettore di Ferruccio si dice: «Sapeva, al momento giusto, raccontare la barzelletta e battere la mano sul sedere della cameriera senza diminuire il proprio prestigio». In un dialogo tra la nonna dei protagonisti e i due ragazzi, leggiamo: «– “La mamma era stata a scuola?” tu le chiedesti. – “Certo, tutte le elementari”. – “Soltanto le elementari?”. – “Perché, se doveva fare la sarta?”. […] – “Quando tornava dal lavoro, la mamma si metteva a leggere? Aveva dei libri?” – “Sì, spesso portava a casa un libro, credo se li prestassero tra lavoranti della sartoria. Ma dopo sposata, smise. Quando vostro padre fu richiamato per la guerra, aveva ricominciato”». All’inizio del capitolo 37 apprendiamo una testimonianza sulle case di tolleranza: «Tutto vale per rivelarci un uomo: come reagisce a una sciagura, come abborda una prostituta. Ti scopersi un giorno nella sala di una casa di tolleranza. Ogni volta che dalle scale superiori si udiva il passo grave di una ragazza che discendeva, gli uomini si spiavano l’un l’altro per rubarsi l’iniziativa, al suo apparire. Le ragazze erano seminude, allegre e pazienti come puledre domate». Ancora: «La nuova ragazza [è il fratello Ferruccio che racconta] si dimostrava tenera e dolce, sembrava una gattina e per quanto non le volessi bene non mi dispiaceva stare con lei. […] Era un’operaia di fabbrica, abituata a soffrire e faticare fino da bambina, e a trascurarsi. […] La verità è che avevo bisogno di un affetto. Lo cercai sposandomi». Tali esempi sono prova di quanto la letteratura possa essere specchio cristallino della realtà, nel quale ritroviamo tracce delle epoche, delle persone che le hanno animate, delle idee, del loro modo di stare al mondo.
***
Articolo di Valeria Pilone

Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione.

Grazie per questo articolo. Finalmente ho capito perché certi personaggi femminili di alcuni libri letti in gioventù non mi convincevano affatto
"Mi piace"Piace a 1 persona
Grazie a te!🙏
"Mi piace""Mi piace"