Negli ultimi anni si è sviluppato un acceso dibattito sullo sfruttamento degli animali per una vasta gamma di scopi fra cui il cibo, l’uso cosmetico, la ricerca scientifica e, non ultimo, l’intrattenimento. Le principali opposizioni a questo sistema si basano principalmente su motivazioni etiche, ma vengono anche corroborate da preoccupazioni ambientali sul futuro del pianeta in cui viviamo.
Per comprendere le ragioni etiche che spingono molte persone a smettere di far uso di qualsiasi tipo di prodotto animale, è necessario documentarsi ed essere consapevoli. Per la maggior parte di noi un consumo di questi prodotti è all’ordine del giorno e sin dall’infanzia si viene educati a seguire un’alimentazione onnivora: una consapevolezza sui metodi di allevamento può essere d’aiuto per iniziare una riflessione sul tema.Per soddisfare la grande richiesta, la situazione generale che ritroviamo negli allevamenti è disastrosa: migliaia di bestie ammassate in gabbie o recinti di piccole dimensioni, spesso molto sporche, mutilate di corna o becchi, lasciate ferite e, purtroppo, macellate brutalmente. Non si tratta di una pratica messa in atto in pochi casi, è bensì il quadro più comune che abbiamo la sfortuna di riscontrare. Molte associazioni hanno condotto varie indagini installando telecamere nascoste nelle aziende per portare alla luce quanto accade sistematicamente, dando un volto ai tanti animali che subiscono quotidianamente violenze: le testimonianze di volontarie e volontari sotto copertura dimostrano come dietro a prodotti considerati di eccellenza, come il prosciutto di Parma, ad esempio, siano messe in atto pratiche crudeli, in cui esseri viventi vengono percossi, scaraventati con ferocia, morendo in uno stato di totale degrado. Ritengo essenziale citare anche la campagna svolta da AnimalEquality che, assieme ad altre due associazioni, è riuscita a smascherare uno dei leader nella vendita agroalimentare: Amadori. Le inchieste svolte nei confronti del colosso hanno, infatti, portato a una condanna per il reato di uccisione e maltrattamento di animali e per il reato di abbandono di quest’ultimi, con reclusione del rappresentante legale di una società controllata totalmente da Amadori e una pena pecuniaria considerevole. Questa sentenza è cruciale nella storia della lotta dei diritti di questi esseri viventi in quanto mette sotto i riflettori le ingiustizie subite giornalmente da queste creature che, nel caso del gruppo italiano, consistevano in mancanza di spazi adeguati, puliti e consoni, sino alla tortura ingiustificata.
Anche l’abbigliamento fa grande uso di animali allevati in condizioni non migliori. Le gabbie che li contengono non risultano sufficienti neanche per permetter loro di muoversi. Nel caso dei visoni, la misura media della gabbia si aggira attorno ai 36x70x45 cm ed è stimato che per ottenere una pelliccia di medie dimensioni siano necessari circa sessanta mustelidi. Moltiplicando il numero di creature necessarie per il numero di prodotti presenti in un negozio di abbigliamento di pelle, ci troviamo davanti a una spaventosa e crudele realtà, atta a soddisfare il desiderio di un prodotto di cui è facile fare a meno. Non sono solo le pellicce a contribuire a questa crudeltà: l’utilizzo di piume e lana incide in maniera significativa sullo sfruttamento di varie razze scelte appositamente per la loro capacità di produrre il più ingente quantitativo di merce. Nel caso delle oche, lo ‘’spiumaggio’’ si configura come una pratica frettolosa e lesiva: gli uccelli vengono immobilizzati per la testa e spennati, lasciando loro lacerazioni sulla pelle che verranno ricucite a crudo. Questa pratica, che vede talvolta l’asportazione anche di lembi di pelle, viene ripetuta varie volte a distanza di pochi mesi l’una dall’altra e con un tragico epilogo: l’uccisione degli anatidi che vengono decapitati e macellati, nel migliore dei casi; sì, nel migliore: ad alcuni di loro spetta, infatti, l’ingozzamento forzato tramite un tubo per la produzione del tristemente noto foie gras.
Esiste, inoltre, una forma di sfruttamento animale quasi socialmente accettata: l’intrattenimento. Luoghi come circhi e zoo diventano territori di una lenta e infelice prigionia, in cui molte creature sono di fatto oggetti da vetrina. Nei circhi, ad esempio, tigri, leoni, orsi, cavalli e altre specie sono costrette a un addestramento che ne mortifica i corpi e li costringe a ubbidire a comandi fuori dalla loro natura. La fine che attende qualunque animale al termine di un addestramento è la prigionia in una gabbia angusta, che verrà riaperta solo per nuove umilianti esercitazioni.
C’è un altro aspetto che non è più possibile ignorare di fronte al grande impatto che queste pratiche hanno sul pianeta. Come sostiene AnimalEquality, l’80% di gas serra deriva direttamente da attività zootecniche, ovvero dalla nostra decisione di alimentarci o meno di prodotti di origine animale. Infatti, un’analisi della Shrink That Footprint porta alla luce il grande costo ambientale derivante dalla produzione di alimenti quali carne e formaggi, senza escludere le uova e soprattutto alcuni tipi di pesce come il salmone di allevamento. Quest’analisi si serve di un indicatore chiamato carbon footprint, letteralmente impronta di carbonio: quest’ultimo è utile per determinare l’impatto di emissioni di un qualsiasi prodotto.

Nello studio evidenziato pocanzi, il parametro segnala che la dieta carnivora è altamente impattante, al contrario di quella vegana, la cui impronta è più che dimezzata. Una pubblicazione di Essere Animali offre un’attenta panoramica sull’inquinamento derivato dalle pratiche descritte finora: tutti gli allevamenti intensivi presenti ad oggi, denominati in quanto tali per l’alta concentrazione di bestie in luoghi stretti e angusti, contano circa 770 miliardi di animali (circa 100 volte la popolazione umana di oggi) i quali necessitano di risorse alimentari e medicinali e che producono letame che, intesa come ammoniaca, porta alla produzione di un quantitativo massiccio di gas inquinanti. Questo vale anche per il pesce: la pesca intensiva ha effetti gravosi sull’ecosistema quanto l’industria della carne, con la rovinosa conseguenza della devastazione di ampie porzioni di mari. Dopotutto, se questo dato non dovesse bastare, può rivelarsi utile sapere che le specie marine ingeriscono microplastiche. Come evidenzia un articolo di Provegan basato su una ricerca dell’Università di Harvard, assieme a questi residui è possibile rintracciare anche un neurotossico, il metilmercurio. Ciò non arresta o diminuisce la pesca intensiva che attraverso le reti da pesca porta con sé pesci di ogni dimensione, persino i più piccoli, esponendo alcune di queste specie all’estinzione e minando profondamente la biodiversità marina.

Conoscendo questi dati, che pur non rispecchiano la grande complessità dei consumi di tale sfruttamento, non possiamo esimerci dal mettere in discussione le nostre abitudini. Dietro a scelte consapevoli, vi dev’essere una forte volontà di informarsi poiché, come nel caso di Amadori o del prosciutto di Parma, possono non esserci noti i dettagli di pratiche inumane e crudeli. Ognuna/o di noi è in grado di fare qualcosa per apportare un cambiamento: operare scelte eco sostenibili riducendo o azzerando, ad esempio, il consumo di prodotti alimentari di origine animale in favore di quelli vegetali; scegliere forme di intrattenimento nei circhi, come il Cirque du Soleil, che non fanno uso di animali; porre attenzione a comprare cosmesi e trucchi non testati su di loro o che ne utilizzano derivati, e non acquistare abbigliamento che usi pelle vera.

Possiamo ridurre il nostro impatto, ma lo vogliamo davvero?
In copertina: allevamento intensivo di polli (https://www.huffingtonpost.it/blog/2022/03/15/news/polli_gli_animali_piu_sfruttati_al_mondo_vittime_della_genetica-8961128/).
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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.
