La tragedia del Vajont. Esperienze vissute in prima persona

Il 9 ottobre del 1963 un’enorme frana si staccò all’improvviso dalle pendici del Monte Toc e piombò a gran velocità nel bacino artificiale del Vajont, nel Bellunese. La diga resisté ma in una manciata di minuti dal lago si sollevò un’onda gigantesca che, dopo aver investito i paesi friulani di Erto e Casso, si abbatté con estrema violenza su Longarone spazzando via case, strade, esseri umani, animali e portando morte e distruzione in tutta la valle del Piave. Quasi 2000 persone persero la vita, i corpi furono trascinati dalla forza dell’acqua per chilometri, alcuni fino alla foce del fiume, e non tutti vennero ritrovati.

A breve ricorrerà il sessantennale dell’immane tragedia, la memoria storica della quale è ancora viva nella zona, ma di sicuro in tutta Italia chi aveva a quel tempo l’età della ragione non ha dimenticato il proprio sbigottimento davanti al report della catastrofe trasmesso dalla Tv di allora. Erano immagini ancora in bianco e nero, ma a colori non sarebbero state troppo diverse: il paese non c’era più, si vedeva solo una distesa di fango grigio, nient’altro.
Segnaliamo quindi volentieri un libro sull’argomento, Il saldatore del Vajont, uscito da poco per Marsilio e frutto di un commosso, partecipe lavoro di ricostruzione di quel terribile evento da parte di Antonio G. Bortoluzzi. Il filo conduttore dell’opera, interessante contaminazione tra narrativa, saggistica e reportage, è il racconto di un’esperienza vissuta dall’autore in un giorno d’autunno interamente dedicato alla visita dei luoghi legati al disastro: prima la centrale elettrica, tuttora funzionante, di Soverzene, poi la grande diga che ancora si erge come uno scudo a chiudere la valle, e infine il pianoro formatosi in seguito al riempimento del bacino dove, tra la vegetazione cresciuta dopo il disastro, quasi a coprire pietosamente lo scempio, si possono riconoscere certi vecchi alberi che, trascinati dalla frana, sono riusciti a sopravvivere adattandosi alle nuove condizioni.

Bortoluzzi, nato nell’Alpago, in provincia di Belluno, dove ancora risiede, per ragioni anagrafiche non è stato testimone della catastrofe del Vajont, e ha scelto di descriverla attraverso i racconti, ancora pieni di emozione, di famigliari e conoscenti. Particolarmente intensa la testimonianza di un anziano zio, all’epoca soldato di leva a Belluno, che con i suoi compagni fu mandato a ricercare i superstiti e recuperare le salme. L’orrore che si offrì agli occhi di quei giovani di vent’anni «è ritornato per molto tempo nei loro sogni, anche in quelli dell’età matura e della vecchiaia: persone nude incastrate sui rami degli alberi. Persone fatte come loro, trattenute in alto, in un orrido spettacolo che la mente non riusciva a comprendere». Tanti, emigrati in Svizzera o in Germania, tornarono in quell’occasione per riconoscere i parenti caduti o stare vicino a quelli che si erano salvati. Dopo sessant’anni, di tutte le cose che lo zio ricordava ma anche delle altre che per sua fortuna aveva dimenticato, l’immagine più dolorosa era quella di una donna che, orientandosi con la prospettiva delle montagne intorno (altri punti di riferimento non aveva in quel deserto di fango) era riuscita a localizzare il luogo dove prima sorgeva la sua casa ed era caduta in ginocchio – il gesto antico di fronte a ciò che ci sovrasta – quando aveva trovato un pezzo di pavimento ancora integro: quanto restava della sua cucina.

Ma, oltre alla tragedia del Vajont, c’è un altro tema portante nel libro, ed è quello del lavoro umano, considerato in tutte le sue sfaccettature; soprattutto il lavoro operaio, tema sfiorato nel primo romanzo di Bortoluzzi, Vita e morte della montagna, e presente soprattutto nell’ultimo, Come si fanno le cose, già recensito a suo tempo in Vitamine vaganti.
Si tratta del lavoro di fabbrica, ma anche del mestiere di saldatore, che l’autore ha svolto negli anni Ottanta e Novanta, quando costruiva silos d’acciaio nella zona industriale; oppure del lavoro di muratore, conosciuto attraverso l’esperienza del padre e del nonno, che negli anni Cinquanta aveva collaborato a costruire proprio la centrale di Soverzene.
C’è la chiara coscienza che le nuove possibilità di occupazione nell’industria apertesi nell’Italia del miracolo economico hanno liberato la gente dei «paesi alti» dalla dura fatica «sulle terre magre e ripide, soggette allo scivolamento e al dissesto»; c’è il gusto del sapere tecnico che trapela dall’uso frequente del linguaggio specifico, a volte nella versione dialettale, e c’è l’orgoglio del lavoro ben fatto, a regola d’arte, che un poco ricorda il sentire di Faussone, protagonista del romanzo La chiave a stella. C’è tutto questo, ma anche la consapevolezza della nocività di certi lavori, come quello di saldatura, «malsano per via del fumo, dei gas, della luce accecante emanata dall’arco voltaico, delle radiazioni ultraviolette, dei campi elettromagnetici; e poi rumore, polvere, ustioni, posture di lavoro scomode, massacranti». E più di una volta si ricorda il rischio degli infortuni sul lavoro, nonostante i moderni sistemi di sicurezza in grado di segnalare il pericolo e di prevenire gli incidenti bloccando le macchine. L’autore conosce, per esperienza personale, i motivi per cui spesso in fabbrica avvengono gli incidenti, sa che a volte ci sono i falsi allarmi, e gli apparecchi segnalano qualcosa che non esiste, «ed è lì che si rischia di commettere il grande errore, l’errore fatale», quello di disattivare i dispositivi antinfortunistici per non fermare la produzione.

Quando arriva sul coronamento della diga, il visitatore immagina il momento della costruzione della grande opera, per la maggior parte di solo calcestruzzo – tonnellate e tonnellate di calcestruzzo, ben venticinque metri di spessore alla base e tre in cima – e si figura la vita dei lavoratori lassù, a centinaia di metri di altezza, «col freddo e col caldo, col vento che si infilava nella forra e offendeva i visi, i nasi, le orecchie». Se li immagina arrivare a inizio turno, e poi nel momento del pranzo, con la marmitta della pastasciutta che giunge insieme alla benna del calcestruzzo.
Sa bene che cosa aveva significato, nell’Italia degli anni Sessanta, questa possibilità offerta dal lavoro nell’industria e nei cantieri, di vendicarsi della miseria, della povertà, della guerra, dell’emigrazione nei paesi stranieri. E tuttavia la sera del 9 ottobre del 1997, quando Paolini e Vacis portarono proprio lì, nello spiazzo a monte della diga, sul corpo della frana, lo spettacolo teatrale Il racconto del Vajont, lui che era fra gli spettatori e aveva trent’anni in un Nordest proprio allora in forte crescita, capì quanto stesse sbagliando la sua generazione che, lanciata nella corsa al benessere e al progresso, credeva di poter rimuovere quella tragedia. Capì ciò che si era voluto nascondere, che cioè il disastro, prevedibile e previsto, era legato all’alto livello delle acque del lago, perché «l’acqua fa quel che deve fare» ed era stata l’infiltrazione a provocare il distacco della frana. I contadini di Erto avevano visto nei loro prati aprirsi delle fessure diventate poi profonde spaccature e avevano paura. La giornalista Tina Merlin, che aveva raccolto le loro preoccupazioni e ne aveva scritto sul quotidiano L’Unità, non solo non fu ascoltata, ma fu addirittura denunciata e processata per aver turbato l’ordine pubblico. Chi doveva intervenire chiuse deliberatamente gli occhi di fronte a quanto stava avvenendo perché «stavano costruendo il paradiso dell’energia elettrica e […] la tecnica, i progetti, i brevetti, i capitali privati e pubblici lavoravano a qualcosa mai accaduto prima: il miracolo italiano».

Con questo suo ultimo lavoro Antonio G. Bortoluzzi, pur senza abbandonare del tutto il tema della vita dei contadini sulla montagna povera, si inserisce con pieno diritto, e l’autorevolezza che gli consente l’esperienza personale, tra gli autori che hanno raccontato il mondo del lavoro industriale e della fabbrica, che costituiscono ormai una lunga genealogia, da Ottiero Ottieri, Paolo Volponi e Luciano Bianciardi negli anni ’60, passando per Primo Levi ed Ermanno Rea fino ai nuovi autori che si sono cimentati recentemente con questo tema.
Bortoluzzi, finalista al Premio Calvino per due volte (nel 2008 e nel 2010), collabora da anni con Toponomastica femminile, scrivendo uno dei quattro incipit per la sezione “Narrazioni” del concorso Sulle vie della parità. Ha esordito nel 2010 con la raccolta Cronache della valle, nel 2013 ha pubblicato il romanzo Vita e morte della montagna e nel 2015 Paesi alti (Premio Gambrinus-Giuseppe Mazzotta nella sezione Montagna, finalista al Premio della Montagna Cortina d’Ampezzo e al Premio letterario Cai Leggimontagna). Le tre opere, uscite con Biblioteca dell’immagine, sono state raccolte nell’antologia Montagna madre, trilogia del Novecento, pubblicata da Biblioteca dell’immagine nel 2022. Nel 2019 ha visto la luce il suo terzo romanzo, Come si fanno le cose, edizioni Marsilio.

Antonio G. Bortoluzzi
Il saldatore del Vajont
Marsilio, Venezia, 2023
pp. 129

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Articolo di Loretta Junck

Già docente di lettere nei licei, fa parte del “Comitato dei lettori” del Premio letterario Italo Calvino ed è referente di Toponomastica femminile per il Piemonte. Nel 2014 ha organizzato il III Convegno di Toponomastica femminile, curandone gli atti. Ha collaborato alla stesura di Le Mille. I primati delle donne e scritto per diverse testate (L’Indice dei libri del mese, Noi Donne, Dol’s ecc.).

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