La fatica di chiamarsi Tommaso

La prima volta che Tommaso è venuto da me, ha girato per tutto il tempo attorno al tavolo della cucina, come una trottola. Un’ora intera che pareva la riedizione del quadro di Van Gogh La ronda dei carcerati, con un’unica pausa di dieci minuti, durante la quale il nostro eroe ha placidamente aperto la mia dispensa e ha afferrato una confezione intera di biscotti, chiedendomi poi, a bocca piena, se poteva mangiare qualcosa perché era affamato. Quando gli ho spiegato che la mia povera cervicale non mi permetteva di seguirlo con lo sguardo se mi passava continuamente alle spalle, ha iniziato, bontà sua, a muoversi su e giù davanti a me e la trottola è diventata uno yo-yo.
Le prime parole che mi ha rivolto, appena ci siamo conosciuti, sono state: «Tu sai che differenza c’è tra Costantinopoli, Istanbul e Bisanzio?»
Eccolo lì, il piccolo investigatore, che si mette a far domande quando dovrebbe rispondere alle mie. Chi lo ha mai autorizzato a invertire i ruoli? Cos’è, l’interrogatorio alla prof per capire se è all’altezza del compito? L’ennesimo esame di idoneità? Sì. È esattamente questo, per lui. Mi sta mettendo alla prova, vuole capire se son degna di fargli lezione al pomeriggio. Fregato: conosco la risposta. «Nessuna differenza. Sono la stessa città, che cambia nome nel corso della storia» ribatto tranquilla.
Come la formula magica che apre le porte del tesoro di Alì Babà, le mie parole hanno l’effetto di far sedere il mio interlocutore, almeno per una ventina di secondi. È il segnale che stavo aspettando: ho superato il test, ora mi darà ascolto. Nel caso ve lo stiate chiedendo, Tommaso è il mio vicino di casa e ha appena compiuto undici anni. Ci incontriamo una volta alla settimana, ufficialmente per imparare a usare misure compensative alla letto-scrittura e al calcolo a mente, in cui fa una gran fatica.
La seconda volta che varca la mia soglia, questo bellissimo ragazzino dai capelli ribelli e dagli occhi azzurri spesso assorti in un altrove spazio-temporale, accorcia immediatamente le distanze interpersonali e mi si siede in braccio. Appoggia la sua faccia contro la mia, leggiamo insieme, lui con immensa fatica, io con immensa pazienza. Avevo ragione: ho decisamente superato l’esame di idoneità, sento che si fida, si abbandona alla mia guida. Dal terzo incontro in poi, cominciamo a prendere le giuste misure. Ora Tommaso sta seduto, si concentra sulle attività, facciamo la nostra pausa merenda in cui sono io a proporgli delle cose e non più lui a prendersele, cerchiamo di imparare a utilizzare qualche strumento utile alla sua autonomia scolastica.

Ora, sono certa che se il mio articolo finisse qui, chiunque tra voi lettrici e lettori penserebbe di aver indovinato, o almeno ipotizzato con ragionevole verosimiglianza, la caratteristica dominante della personalità e del funzionamento del mio giovane allievo. Vediamo un po’… Tommaso è un bambino autistico? Ha un disturbo dell’attenzione? È dislessico? Ha la sindrome di Asperger? È iperattivo? Ha una disabilità intellettiva? Ha tratti psichiatrici? Un disturbo della sfera emotiva? Però, ne sapete, eh, sull’argomento! Complimenti, ma no, niente di tutto ciò corrisponde al vero. Tommaso è un ragazzino plusdotato. Vale a dire che appartiene a quella piccola fetta di umanità che possiede un’intelligenza superiore alla media. Il suo Indice di ragionamento generale (Iag) è nientemeno che 152… il Quoziente intellettivo 124, cioè decisamente sopra il valore medio che caratterizza la maggioranza della popolazione mondiale.
Ok, vi concedo qualche secondo per riprendervi dalla sorpresa. E poi provo a rispondere sommariamente alle mille domande che, ne sono certa, vi staranno affollando il cervello e che, ovviamente, hanno assalito anche me, quando per la prima volta ho avuto a che fare con Tommaso: come fa a non riuscire a leggere? Dovrebbe essere un razzo. Perché non sta fermo un secondo? Dovrebbe essere il classico secchione che vive di pane e libri. Perché prende iniziative in casa d’altri, senza porsi il problema di apparire scortese? Non può essere impulsivo un cervellone, no? Che cavolo continua a spostare il discorso su altre questioni, mentre io son qui che provo a fargli capire la differenza tra un nome e un aggettivo? Perché mi siede in braccio come se avesse cinque anni, mentre ne ha quasi undici suonati?

Ora, io di plusdotazione ne so più o meno quanto la squadra di calcio del Sassuolo, ovvero pochissimo. Questo grazie al fatto che la formazione di noi docenti di sostegno prevede un’infarinatura generale sulle mille disabilità possibili e conosciute, ma zero assoluto su quell’altra grande diversità che troviamo nelle nostre classi e che caratterizza bambini e bambine, ragazzi e ragazze gifted. Forse, dico forse, sarebbe il caso di cominciare a preoccuparcene un po’. In ogni caso, proviamo comunque, per un momento, a toglierci dalla testa tutti i pregiudizi e i falsi miti che abbiamo noi comuni mortali sui bambini e le bambine prodigio e i ragazzi e le ragazze geniali e proviamo a metterci nei panni di qualcuno i cui processi cognitivi corrono come una Ferrari in un mondo di velocipedi.
L’idea che mi sono fatta è che il cervello del mio allievo somigli a un oceano in tempesta. Mentre io ordino i pensieri in senso logico, uno dietro l’altro, soprattutto uno alla volta, come in una fila ordinata di perline, forte della mia razionalità filosofica, lui nuota in acque profonde affollatissime di pensieri. Idee e intuizioni gli giungono contemporanee, convergenti, divergenti, in forma analogica, logica, sedimentata, nuova, invasiva, esplosiva, parallela, incrociata, in un bombardamento senza tregua. E mentre io me ne sto comodamente seduta sulla spiaggia della mia isoletta a realizzare fili risplendenti di perline colorate, dicendogli con aria saccente «Vedi, caro bambino, è così che si fa, impara da me che so bene qual é il modo giusto di pensare e di stare al mondo» lui mi nuota attorno come un matto per restare a galla tra i flutti agitati del suo funzionamento supersonico e caotico, tentando disperatamente di afferrarne almeno uno di quei miei fili ordinati, per uscire dall’acqua, salvarsi dalle onde, approdare sull’isola. Eppure se ci venisse davvero, accanto a me sulla spiaggia a infilare perline, sarebbe una perdita irrimediabile e un’immensa sconfitta. Per lui, per me, per il mondo intero.
Belli i miei braccialetti di concetti, niente da dire. Rassicuranti e ordinatissimi, ma tutti drammaticamente omologati, prevedibili, uguali a mille altri. Tommaso invece, con le parole trasforma il deserto nella foresta amazzonica; con una matita in mano, crea mondi infiniti e meravigliosi. Assurdi, per chi vuole leggerli così, ma anche geniali e unici, segnali di quell’Oltre che a lui è accessibile e a noi no, nemmeno a piangere. Invece quello che piange è Tommaso. Quello che soffre, quello che odia sé stesso, quello che è in cerca di risposte, quello che si sente uno zero, un diverso al ribasso è il mio piccolo vicino di casa. Per anni, a scuola, è stato quello strano, quello problematico, quello che, poverino, dobbiamo sopportare tutti e tutte perché ha le sue difficoltà. E questo è accaduto nonostante l’attenzione e la dedizione delle maestre, nonostante il modello senza zaino (che pare ritagliato proprio su misura per le intelligenze speciali, per le specificità di ciascuno), nonostante i rinforzi dei genitori, gli aiuti al pomeriggio per potenziare le funzioni esecutive e compensare disgrafia, dislessia e discalculia. Sì, perché Tommaso, oltre a una intelligenza sopra la media, ha anche una bella collezione di disturbi di apprendimento. Ma certo: come fa un bambino che pensa decine di cose al secondo, che funziona come un ipertesto, pieno di link e finestre che si aprono in continuazione, a stare concentrato sulla singola lettera, sulla parola, a dare alle mani il tempo di tratteggiare una frase dopo l’altra, mentre la sua testa ha già prodotto l’intero tema e ne ha iniziati contemporaneamente altri cinque? Non ce la fa, evidentemente. E poi sembra quasi che tutte le energie impiegate nei processi mentali vengano tolte dalle funzioni di crescita globale, lasciando il mio giovane allievo indietro su alcune dimensioni. Per questo mi salta in braccio e cerca il contatto fisico, per questo capisce in ritardo che alcuni comportamenti sono inopportuni, se non sei a casa tua.

Qualche settimana fa, sedendosi sulla sedia di fronte alla mia, Tommaso mi ha lanciato uno sguardo allucinato, stravolto, pieno di mortificazione, ma anche di smarrimento. Ho capito immediatamente che gli era successo qualcosa, ma lui non ha aperto bocca, nonostante le mie domande. Ho saputo solo due giorni dopo, parlando con sua mamma, che a scuola il mio adorabile, splendido allievo aveva minacciato con un paio di forbici un compagno di classe che lo stava prendendo in giro. Non ci potevo credere: io a volte lo torturo di esercizi, lo massacro di fatica e frustrazione, eppure non l’ho mai visto diventare aggressivo. Insofferente ogni tanto sì, ma aggressivo proprio mai. Ecco il perché di quello sguardo: Tommaso si è sentito un verme, ha avuto vergogna di sé stesso, si è difeso dal dolore nel modo più basso possibile e lo sa. Tommaso non ce la fa più a essere quello strano. Tommaso pensa di essere un cretino, quello sbagliato, quello che non sa leggere né scrivere, quello che non ha un’identità chiara, apprezzabile e quindi neppure un futuro possibile. Tommaso è un bambino che sta lentamente morendo, che sta tentando con uno sforzo sovrumano di soffocare la parte di lui che lo rende diverso e quindi sospetto, forse anche pericoloso, in ogni caso non gradito. Non vorrebbe farlo, ma sente che non ha altra scelta tanto lo abbiamo spinto nell’angolo.
Quello che io vedo, nella storia e nello sguardo smarrito del mio giovane allievo, non è un suicidio assistito; piuttosto è un suicidio indotto, se non un omicidio di gruppo. Spegnere la propria eccezionalità non corrisponde affatto alla natura di Tommaso, ma tutti e tutte, a parte forse i suoi genitori che sono persone illuminate, gli stiamo rimandando da sempre gli stessi, inequivocabili messaggi (noi insegnanti per primi/e): se non stai seduto sulla sedia, sei sbagliato e dai fastidio; se non segui la lezione come tutti gli altri e le altre, non sei un bravo scolaro; se non sai scrivere e leggere bene a undici anni, qualcosa in te non va; se sai tutto di storia, anche più delle maestre, ma non sei capace di fare l’analisi grammaticale, alle medie avrai solo problemi ecc. ecc.
Cos’altro può fare, questo ragazzino, se non alzare bandiera bianca e odiare sé stesso per non essere neppure lontanamente vicino a come noi vorremmo che fosse? Tommaso si sta mutilando, sta tagliando via da sé un pezzo di personalità e di cuore per colpa nostra. Al suo posto il mondo, tutti e tutte noi, gli stiamo chiedendo di far nascere un altro ragazzo (ché Tommaso, così com’è non va bene, è troppo difettoso come prototipo umano), che abbia tutte le caratteristiche del cittadino medio, del bravo scolaro, del bambino anonimo di undici anni che sa stare nelle righe e che ha relazioni adeguate con i coetanei e gli adulti. Soprattutto che tenga ben nascosto il suo taccuino dei disegni, troppo strani per poter dar loro un significato. Che non si vada mai sull’argomento “passato ed eventi bellici”, perché lui sarebbe capace di parlare per ore ininterrottamente, elencando luoghi e avvenimenti con la precisione di un atlante storico. E poi che non gli venga mai in mente di sfidare chiunque di noi a un gioco di strategia su pc, per amor del Cielo! Allora nessuno si divertirebbe: vincerebbe la partita sempre lui, in due o tre mosse al massimo e senza il minimo sforzo.
Tommaso, fai il bravo, per favore: stattene buono nel tuo angolino anonimo e lascia fare a noi, che sappiamo cosa è meglio per tutti/e, soprattutto per te. W l’Italia, w la pedagogia, w la comunità educante! Sapete cosa vi dico, voi sostenitori e sostenitrici dell’omologazione, voi genitori e insegnanti, cittadini/e e professionisti/e che pensate di avere sempre giudizi di buon senso su chiunque stia sotto, oppure sopra la bella immagine dell’individuo standard? Che non sarò mai vostra complice. Mai. Dopo l’episodio delle forbici, è bastato parlare un paio di volte con i genitori di Tommaso perché insieme capissimo cosa dovevamo fare, cos’era giusto fare: bisognava organizzare una squadra di soccorso e provare ad andare a rianimare quella parte di lui rimasta sepolta sotto i vari “non” (non sai, non ricordi, non capisci, non riesci, non sei capace di, non sei come, non sei abbastanza ecc). Dovevamo salvare la sua parte plus. Guardandola, dandole un nome, valorizzandola, attivandone il potenziale.

E allora eccoci, io e lui, sulla mia auto dorata, viaggiare con una certa apprensione verso la sede di Poggiridenti della Webtek (una bella realtà di web marketing e sviluppo tecnologico valtellinese). Abbiamo preso appuntamento con il general manager in persona: il dott. Giordano Piasini, che ci attende per valutare un’idea di videogioco a tema storico, che io e Tommaso abbiamo inventato in un paio di mesi di lavoro e progettazione. Il colloquio si svolge in un ufficio avveniristico, tra piante ornamentali e arredi lineari e ultra moderni, attorno a un tavolo bianco che affaccia su un maxischermo. Sembra di stare in un film americano sul lancio di nuovi prodotti. La nostra presentazione può comodamente scorrere sopra il monitor a caratteri cubitali. Tommaso parla con Giordano (un giovane professionista che non credo proprio abbia nel suo curriculum formativo rudimenti di pedagogia, ma che sa trattare il suo giovane interlocutore con grandissima empatia e altrettanta professionalità, ascoltando le sue parole con molta attenzione e serietà e non battendo ciglio né tradendo il minimo imbarazzo quando l’oratore incespica su alcune parole durante la lettura. Complimenti, dott. Piasini: anche meglio di Piaget!).
Io assisto attonita al loro dialogo, pieno di tecnicismi e di allusioni a games qualcosa, terza dimensione delle immagini, intelligenza artificiale e altre astruserie che non capisco assolutamente, ma che mi sforzo almeno di ascoltare. Giordano fa domande a Tommaso (meno male a lui, perché io non avrei saputo rispondere a nessuna), spiega alcune necessarie modifiche e, in sostanza, ci comunica che l’idea del gioco è buona, ma troppo complessa da realizzare per i livelli attuali raggiunti dalla tecnologia. Insomma, siamo troppo avanti, persino più avanti dell’intelligenza artificiale!
Tommaso spalanca un sorriso che non gli avevo ancora mai visto: ecco chi è lui! È quello troppo avanti, quello che ha idee complesse ma belle, quello che può trasformare la sua fantasia e il suo sapere in qualcosa di cui può parlare tranquillamente con il general manager di una azienda che si intende di software senza rischiare di sentirsi dare del visionario.
Giordano è talmente gentile da farci anche fare il giro della sede, prima di salutarci. Sono immediatamente colpita dall’età dei suoi collaboratori e delle sue collaboratrici. Tutte e tutti giovanissime/i, come lui. È una bellezza trovarmi qui con un ragazzino di undici anni a vedere tutto questo, a sentire il suo cuore che si apre al futuro, alla possibilità di contare per come è e non per come noi vogliamo che sia. Forse – penso – per persone speciali come lui servono incontri speciali, persone e contesti di alto profilo, come quello in cui abbiamo scelto di presentarci oggi.
Torniamo a casa cantando a squarciagola la melodia della Cavalcata delle Valchirie. Siamo felici, entrambi consapevoli di aver condiviso un’esperienza importante e formativa. C’è anche spazio per qualche confidenza tra me e lui, mentre facciamo ritorno al nostro paesello di cinquecento anime sulle Alpi Retiche. Ma di queste non scriverò, come è giusto che sia: sono cose che appartengono solo a noi due, ai nostri cuori emozionati.

Accompagnare Tommaso nella crescita è una sfida complicata, ma bellissima. Cercherò di insegnargli a usare la videoscrittura e la sintesi vocale, a diventare veloce con la calcolatrice, a costruire mappe e schemi e a migliorare la grafia, perché è giusto fare anche questo pezzo. Ma insieme sarò, saremo tutti/e io, i suoi genitori, la scuola media di Talamona che lo accoglierà a Settembre (un piccolo gioiello educativo delle nostre valli, con una Dirigente fantastica) e l’équipe di Pavia che ha accettato di guidarci e aiutarci nel cammino (l’Università di Pavia, dal 2009, ha fatto nascere il Laboratorio Italiano di Ricerca e Sviluppo del Potenziale, Talento e Plusdotazione, sotto la direzione scientifica della prof.a Maria Assunta Zanetti, che io adoro, e del prof. Eliano Pessa) i più grandi sostenitori e sostenitrici della sua intelligenza, della sua eccezionalità e dei suoi talenti. Saremo il suo fans club più sfegatato. Perché non si può chiedere di fissare sempre e solo i lacci delle scarpe a una persona che è nata per guardare il cielo e le stelle. Piuttosto le si dona un telescopio. E insieme si impara a volare.

***

Articolo di Chiara Baldini

BALDINI-PRIMO PIANO.jpg

Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.

2 commenti

Scrivi una risposta a Ivana Daccò Cancella risposta