Via Nomentana n°315. La casa dell’infanzia di Anita Pallenberg

Intelligente e colta, bellissima, di una bellezza solare e per niente scontata, elegante senza bisogno di orpelli, affascinante, capace di imporre il suo stile con la sola presenza, anticonvenzionale per natura. Questo e molto altro è stata Anita Pallenberg e, se non fosse esistita, bisognerebbe inventarla. Non sarebbe facile perché Anita è difficile da inquadrare, lontana come è sempre stata dalle definizioni comuni, insofferente a ogni etichetta. Nella sua vita è stata modella, attrice, artista, stilista ma anche giardiniera per diletto; soprattutto è stata l’icona indiscussa della cultura giovanile e musicale degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.
È vissuta a New York, a Parigi, a Londra soprattutto, in Svizzera e in Giamaica, ma è nata a Roma, nel 1942, in pieno secondo conflitto mondiale; qui ha trascorso gli anni dell’infanzia e della prima adolescenza crescendo nella villa di famiglia lungo la via Nomentana, di cui rimane solo un ingresso dall’aria solenne che sarebbe perfetto per ospitare la targa commemorativa immaginaria di questa puntata.

Roma, l’ingresso di villa Pallenberg sulla via Nomentana, foto di Barbara Belotti

A villa Pallenberg, ora sostituita da un albergo di aspetto moderno, Anita muove i primi passi attraversando stanze piene di dipinti e statue che la bambina si diverte a vestire come fossero manichini. Il nonno e il bisnonno erano stati pittori e amanti dell’arte, il padre Arnaldo, più prosaicamente, è un agente di vendita e un musicista mancato, la madre Paula Wiederhold lavora negli uffici dell’ambasciata tedesca. Verso quale futuro pensano di indirizzarla i genitori mandandola, appena adolescente, in un collegio in Germania non è chiaro. Di certo quella scelta non è una sua scelta e Anita non impiega molto a modificarla facendosi espellere per aver bevuto, fumato e, sfrontatamente, fatto l’autostop. Ha 16 anni, fine dell’educazione di una bambina “per bene”.
Tornata a Roma, la famiglia decide di farle frequentare una scuola di disegno, ma ancora una volta Anita fa di testa sua e alle lezioni preferisce gli ambienti artistici, intellettuali e cinematografici del caffè Rosati in piazza del Popolo, dove conosce Moravia, Pasolini, Fellini, dove impara il romanesco grazie alla sua amica Gabriella Ferri e dove inizia a frequentare gli artisti della cosiddetta “Scuola di piazza del Popolo”. Di uno di loro ‒ il pittore Mario Schifano – si innamora e decide prima di andare a vivere con lui e poi di partire per New York, per immergersi nelle novità culturali della Grande Mela.

Anita Pallenberg e Mario Schifano

La Factory di Andy Warhol, la poesia della beat generation, i locali newyorkesi la vedono presto protagonista. Quando Mario Schifano decide che l’esperienza statunitense è terminata e torna a Roma, Anita non lo segue: ha ottenuto un contratto definitivo come modella, l’Italia per lei è ormai lontana.

Anita Pallenberg negli anni Sessanta
Anita Pallenberg

Grazie al suo lavoro nel mondo della moda viaggia molto e durante un soggiorno in Germania va a sentire il concerto di un nuovo complesso inglese non ancora particolarmente famoso, si chiamano The Rolling Stones. Da quel momento in poi la vita di Anita cambia e anche quella dei musicisti inglesi. Inizialmente è Brian Jones a far colpo su di lei perché è colto, parla tedesco e, ricorda Anita, «non fa l’idiota». Di quel primo incontro dietro le quinte Keith Richards, che diverrà una figura fondamentale nella sua vita, ha sempre affermato di essersela «fatta sotto dalla paura». Troppo bella, troppo indipendente, troppo colta, lei parla molte lingue mentre lui al suo confronto si sente «uno zotico, un provinciale. Anita mi parlava, mi contestava quel poco che balbettavo. Alle sue domande, l’unica risposta valida sarebbe stata: “E io che ne so?”».

Anita Pallenberg e Brian Jones in Marocco, foto di Cecil Beaton

È Anita che introduce arte, cultura e stile nel gruppo dei Rolling Stones, ne influenza l’abbigliamento (Keith ammetterà di aver trovato la sua cifra stilistica indossando abiti e accessori di Anita) in breve, come è stato detto, diventa la sesta componente della rock band, l’asse centrale e non solo la musa.

Anita Pallenberg e Keith Richards, 1969, McCarthy

Prima compagna di Jones, poi di Richards, col quale ha tre figli l’ultimo dei quali, Tara, morto a poche settimane dalla nascita, Anita ha anche introdotto la droga nel gruppo, il lato oscuro della sua storia. La droga «è il grande amore della mia vita ‒ ha confessato in un’intervista al quotidiano La Stampa l’anno prima di morire ‒ È una storia d’amore a cui ho dovuto rinunciare».

Anita Pallenberg e Keith Richards coi figli Marlon e Dandelion

Una vita nomade, spesso dietro ai tour dei Rolling Stones, con il figlio Marlon e la figlia Dandelion, detta Angela, appresso: «La cosa difficile con Keith è che dormiva tutto il giorno, e idealmente avrei dovuto stare con i bambini tutto il tempo. Non avrei potuto reggere i tour senza l’aiuto delle droghe. Quando sono rimasta sola ero felice di potermi gestire le mie droghe». Nell’era del politicamente corretto tutto questo sembra impossibile, ma nell’immaginario di chi aveva vent’anni negli anni Sessanta e Settanta ha lasciato tracce indelebili e brani musicali indimenticabili. Buio e demoni, disordine, irrequietezza e ribellione ma anche bellezza splendente quando è sui set cinematografici o quando compare nelle occasioni mondane. Prendo in prestito una frase che Victor Bockris utilizza per Keith Richards: «[…] brillava di una combustione interna che nessuno scienziato occidentale vorrebbe identificare». Ecco, in Anita Pallemberg ha brillato la stessa combustione interna non identificabile.

Anita Pallenberg e Mick Jagger sul set del film Sadismo (Performance), 1970, Andrew Maclear

Vivere con gli Stones non è stata una cosa da niente, rivelerà più volte: sono stati una vera macchina da soldi, alle compagne non era consentito entrare negli studi di registrazione, non era facile ritagliarsi spazi di autonomia, risucchiate come erano nel vortice della loro fama. «È un’esistenza così solitaria, vivere con un rock ‘n’ roller. Non importa quanto ti ami, amerà sempre di più la sua musica. So che quando Keith lavora alla sua musica nient’altro gli importa. Può stare in una stanza con altre cinquanta persone e non notare altro se non la chitarra; per vivere con una rock star, una donna deve trovare un modo per rendersi indipendente.» Anita la sua strada per l’autonomia l’ha percorsa: alla fine degli anni Sessanta succede pure che Keith Richards arrivi a darle 20.000 sterline per non girare il film Barbarella di Roger Vadim accanto a Jane Fonda. Una star nella coppia basta e quella star è lui: Anita non accetta alcun compromesso e partecipa alle riprese, un po’ annoiandosi ma proseguendo la sua carriera di attrice.

Anita Pallenberg nel film Barbarella di Roger Vadim, 1968

Non sempre però riesce a vincere le sue battaglie: in un’intervista al giornale The Guardian sostiene che sono stati gli avvocati a costringerla a separarsi da Keith per la cattiva influenza che esercitava su di lui. L’obbligarono a vivere «in una casa a Westchester, New York, con l’ordine che Marlon [il figlio maggiore n.d.r.] andasse a scuola. Così lui andò a scuola e lei andò a pezzi». Ma alla fine, afferma, l’isolamento, la solitudine l’hanno spinta a chiedere aiuto e nel 1987, grazie a sua sorella, comincia la rinascita attraverso la riabilitazione, non facile, spesso dura, con percorsi tortuosi e in salita durati una ventina di anni: «non avevo scelta: ero rimasta sola, la mia famiglia non voleva più vedermi. Ero disgustosa, aggressiva, bevevo un sacco. Ero astiosa, non ero un’ubriaca felice. […] Poi ho iniziato a disintossicarmi. Ero anche un’alcolista molto malmessa e mi ci sono voluti vent’anni per uscirne. Sono andata in un centro per tossicodipendenti, alle riunioni degli Alcolisti Anonimi e tutto il resto […] Volevo vivere. Volevo avere cura di me stessa. La gente moriva, c’era l’Aids. Era un periodo cupo».

Anita Pallenberg alla sfilata di Pam Hogg, 2016

Nel 1994 ottiene la laurea quadriennale in Moda e arti tessili e comincia un’altra vita, ma il mondo della moda un po’ lo soffre, si reca in India per studiare e lavorare i tessuti, poi la madre si ammala e lei lascia tutto per starle vicino. Negli ultimi anni della sua vita si dedica per diletto al giardinaggio, curando orti e giardini di amici e parenti e anche frequentando corsi di disegno botanico. Ogni tanto partecipa a qualche film e a sfilate di moda.È una signora con molte rughe sul volto, il fisico compromesso, cammina appoggiandosi a un bastone perché le hanno sostituito due volte la protesi dell’anca: alcuni mesi prima della morte, avvenuta il 13 giugno 2017, sfila in passerella fasciata da un’incredibile tuta d’oro, accompagnando l’incedere dei passi col bastone. Solare ancora una volta, emana fascino e una combustione interna non identificabile.

Anita Pallenberg

All’ultima Festa del Cinema di Roma (2023) è stato presentato il documentario Catching Fire: The Story of Anita Pallenberg diretto da Alexis Bloom e Svetlana Zill. Prodotto dal figlio Marlon Richards e basato sulle inedite memorie autobiografiche di Anita, il lungometraggio mette insieme immagini, filmati amatoriali e testimonianze di chi l’ha conosciuta, dando vita a un caleidoscopico ritratto che la riconsegna alla storia e ne restituisce il fascino, al di là degli eccessi e degli errori del passato.

***

Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.

Lascia un commento