Genere, potere e violenza nella storia contemporanea

Il quinto incontro di La violenza di genere: teorie e pratiche fra passato e presente, il nuovo corso della Società italiana delle storiche, si intitola Genere, potere e violenza nella storia contemporanea e viene presentato da Laura Schettini. Il corso, gratuito, è collocato all’interno del progetto La storia (di genere) al servizio del tempo presente finanziato dai fondi “Otto per mille 2023 della Chiesa Valdese”.
In questo incontro abbiamo esplorato il rapporto complesso tra violenza, potere e storia contemporanea, con una particolare attenzione alle dinamiche di genere e alle disuguaglianze strutturali che caratterizzano i rapporti tra uomini e donne. La violenza di genere, infatti, non può essere analizzata isolatamente, ma va compresa come parte integrante di un sistema di potere che, tanto nella sfera pubblica quanto in quella privata, perpetua disparità evidenti a sfavore delle donne; questo sistema, radicato nella storia, continua a manifestarsi in forme diverse a seconda dei contesti culturali e geografici. In alcune aree del mondo, come in India o in alcuni Paesi africani, i soprusi contro le donne sono ancora legati a pratiche tradizionali come le dispute sulla dote, la difesa dell’onore o le accuse di stregoneria; nei Paesi occidentali e negli Usa, invece, emerge attraverso dinamiche familiari e sessuali che vedono le donne subordinate e la loro sessualità considerata proprietà maschile.
L’analisi storica rivela come questi sviluppi siano stati codificati nel diritto: emblematico è il caso dell’adulterio, che sin dall’epoca romana considerava l’infedeltà femminile un crimine grave, giustificando punizioni estreme come mutilazioni o omicidi, spesso legittimati come forme di vendetta. Sebbene il diritto abbia subito cambiamenti, fino a tempi recenti, molte legislazioni continuavano a relegare i diritti delle donne al controllo maschile, come dimostrato in Italia dal matrimonio riparatore e dal delitto d’onore, abolito solo nel 1981. La regolamentazione dell’adulterio riflette chiaramente il legame storico tra norme giuridiche e controllo maschile sulla sessualità femminile: fino al 1969, in Italia, l’adulterio da parte delle mogli era reato, nonostante la Costituzione sancisse formalmente la parità tra i coniugi. Questi retaggi giuridici e culturali hanno lasciato un segno indelebile sulle dinamiche contemporanee, incluse le forme più estreme come i femminicidi. Sebbene molte leggi discriminatorie siano state abolite, i comportamenti e le mentalità che giustificano la violenza persistono, rivelando quanto sia radicato il legame tra disuguaglianza e violenza. Il diritto, è bene ricordare, non solo regola i comportamenti, ma riflette i rapporti di potere e le aspettative sociali di una determinata epoca.

La relazione tra codici civili e penali e la violenza di genere nel nostro Paese dimostra come le leggi abbiano storicamente legittimato e consolidato la subordinazione delle donne, creando un sistema che ha reso questi comportamenti una componente strutturale del rapporto tra i generi. Il Codice civile del 1865, adottato dopo l’Unità d’Italia, incarnava una visione patriarcale della famiglia, con il marito al vertice della gerarchia domestica. Tale regolamentazione negava alle donne sposate la capacità di agire autonomamente, subordinandole al controllo maschile: ad esempio, la potestà genitoriale esclusiva del padre e l’obbligo per le mogli di seguire il marito ovunque decidesse di risiedere evidenziavano quanto la libertà femminile fosse drasticamente limitata, e persino la cittadinanza delle donne era legata al marito, rafforzando la loro dipendenza. Queste norme rimasero in vigore fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975, mostrando la lentezza delle istituzioni nel riconoscere l’autonomia delle donne. Ulteriore conferma si è avuta nel Codice civile promulgato durante il periodo fascista nel 1942, ereditato dalla Repubblica, che mantenne intatte molte di queste disposizioni, dimostrando la pervasività di una visione gerarchica dei ruoli familiari e l’insediamento di queste concezioni dannose nella società del tempo.
Parallelamente, il Codice penale rifletteva e giustificava la violenza maschile come strumento per mantenere il controllo familiare. Il delitto d’onore, abolito solo nel 1981, permetteva agli uomini di ottenere pene ridotte per crimini violenti commessi contro donne “colpevoli” di minare l’onore maschile. Altri istituti, come l’adulterio — considerato reato esclusivamente femminile — e il matrimonio riparatore rinforzavano l’idea delle donne come proprietà maschile e strumenti per la salvaguardia dell’onore familiare.
Un caso emblematico di come queste norme influenzassero la vita delle donne è narrato in Una donna di Sibilla Aleramo. Il romanzo racconta la storia autobiografica di una donna costretta a rinunciare al figlio per fuggire da un marito violento, in un sistema legale che le negava ogni possibilità di custodia: divenuto simbolo del movimento femminista, mette in luce la pervasività della violenza e della sottomissione come esperienze condivise e purtroppo normalizzate. Le angherie non sono solo un effetto della subordinazione femminile, ma anche uno strumento per mantenerla. Il Codice tollerava forme di oppressione quotidiana, come i “mezzi di correzione” utilizzati dai mariti, e considerava accettabili solo i casi di abuso più estremi per giustificare una separazione. Le donne non avevano mezzi per sfuggire a situazioni pericolose senza subire gravi conseguenze, come la perdita dei figli o l’esclusione sociale.

Anche la violenza sessuale rifletteva una visione patriarcale: fino a tempi relativamente recenti (1996), lo stupro non era considerato un crimine contro la donna, ma contro la famiglia e la morale pubblica. La sessualità femminile era difatti un “capitale” appartenente agli uomini della famiglia, da gestire per scopi economici e sociali, secondo le loro volontà. Il matrimonio riparatore e il delitto d’onore sono stati strumenti giuridici che, fino agli anni ’80, hanno incarnato una cultura profondamente patriarcale nella società italiana. Il primo di questi in particolare, permetteva agli autori di stupro di evitare il carcere sposando la vittima, con l’accordo negoziato non dalla donna, ma dai capofamiglia: questa pratica non solo ignorava il trauma psicologico e fisico della vittima, ma riduceva la violenza sessuale a una lesione dell’onore familiare, piuttosto che a un crimine contro la dignità e i diritti della persona. Il caso di Franca Viola, che nel 1965 rifiutò il matrimonio riparatore, rappresentò un punto di rottura simbolico: tuttavia, fu necessario un lungo dibattito culturale e politico per sancire definitivamente un cambio di rotta effettivo e definitivo. Quanto al delitto d’onore, d’altro canto, venivano concesse pene ridotte per gli uomini che uccidevano mogli o figlie accusate di comportamenti ritenuti inappropriati. Questa normativa, eliminata solo nel 1981, garantiva quasi completa impunità agli uomini violenti e contribuiva a normalizzare il femminicidio come una forma accettabile di controllo patriarcale. L’idea di “onore” giustificava la violenza, rinforzando la subordinazione delle donne all’interno della famiglia e della società.
Nonostante l’abolizione formale di queste leggi, le dinamiche culturali che le supportavano non sono scomparse del tutto. Elementi del passato riemergono in nuove forme di violenza, come gli stupri di gruppo e i femminicidi legati al termine delle relazioni affettive. In molti casi, la vittimizzazione secondaria delle donne — che si traduce in colpevolizzazione nei tribunali e nei media — perpetua un sistema che fatica a riconoscere pienamente i diritti delle donne. La cultura tende ancora a giudicare le vittime più per il loro comportamento che per il crimine subito, un atteggiamento documentato, ad esempio, nel famoso documentario Processo per stupro del 1979. Ma il problema si estende anche alla rappresentazione della violenza di genere, dove la figura dell’aggressore rimane spesso nell’ombra: questo silenzio sul ruolo maschile perpetua narrative che spostano la responsabilità sulla vittima; parallelamente, la cultura giuridica e mediatica italiana continua a riflettere un passato patriarcale, nonostante gli sforzi di associazioni e reti come GiULiA, impegnate a sensibilizzare l’opinione pubblica.
Sebbene il quadro normativo sia mutato, le radici profonde della cultura patriarcale continuano a esercitare un’influenza significativa sulla società italiana contemporanea. Questa eredità culturale, ancora presente, richiede un impegno costante per superare gli stereotipi di genere e promuovere una parità reale, poiché condiziona tuttora le dinamiche di genere e la percezione della violenza.

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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.

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