Quando facevo le elementari la mia scuola aveva due ingressi: FEMMINILE e MASCHILE distinti, separati e incomunicabili. Due corridoi, due mondi, due linguaggi, due vite. Avevo 6 anni e non mi ponevo nessuna domanda: era così e basta.
Io non potevo giocare al calcio, il mio coetaneo non poteva fare danza classica. Era nell’ordine delle cose. Mai un dubbio, mai una domanda. Tra le materie erano previste “economia domestica” per le femmine, “applicazioni tecniche” per i maschi.
Anche questo mi pareva allora naturale, come lo fu poi al liceo vestire obbligatoriamente un lugubre grembiule nero. Le classi finalmente erano miste ma le relazioni tra i sessi erano timide e guardinghe, i gruppi ancora “naturalmente” separati. Qualche festicciola danzante in casa il sabato pomeriggio, rigorosamente con la luce accesa, già era molto.
Mia madre non lavorava se non in casa e anche la sua condizione, all’epoca, era nell’ordine delle cose (per fortuna fu poi lei, frustrata e infelice, a spingermi a studiare per rendermi indipendente). Mi si diceva che i figli delle lavoratrici erano sfortunati, che affidare i figli a estranei non era da buona madre, che negli ambienti di lavoro le donne correvano troppi pericoli. Spettava ai maschi, ai veri uomini mantenere la famiglia.
Se i miei orari erano rigidamente controllati e i miei amici rigidamente selezionati mentre quelli di mio fratello non lo erano, veniva fatto per il mio bene. Se dovevo star seduta “composta”, se non dovevo ancheggiare camminando, se le gonne dovevano coprire il ginocchio… era un fatto acclarato: già mi pareva una gran concessione poter indossare i pantaloni (cum grano salis, non sempre, non dappertutto).
Non ero stupida: ero solo una bambina piccolo borghese degli anni ’50 cui era stato inculcato che i grandi avevano sempre ragione, che veniva rimproverata se “alzava troppo la testa”, che doveva evitare di parlare con sconosciuti e che aveva paura se restava sola con un uomo. Il vento della libertà spirava forse per altre ma non per me, nonostante la grande città, nonostante le infinite letture e gli studi classici.
Insomma, ero una ragazza per bene: inibita dalla sensazione che ci volesse pochissimo a diventare per male. Destinata all’insegnamento, lavoro adatto a una donna. Entrata prestissimo nella vita matrimoniale, con un bagaglio di troppa ignoranza e di troppi sentito dire.
La ragazza cresciuta ha fatto poi fatica a emanciparsi dai pregiudizi interiorizzati: ci sono voluti molti viaggi, incontri fortunati e ambienti propizi; c’è voluto tempo. Ancor più la donna adulta ha faticato a comprendere che la sua famiglia era stata vittima anch’essa di una violenza invisibile ma per questo stesso più feroce.
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Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.
