Corpi velati

Nell’incontro con femminismi nuovi il concetto di differenza, centrale nel pensiero delle donne, si sposta dall’irriducibilità tra maschile e femminile fino a comprendere le differenze tra le donne stesse, le pluralità delle storie, dei percorsi, delle appartenenze e delle condizioni.
Dare credito alla parola delle “altre” fa nascere inevitabilmente contraddizioni. I confini non sono definiti, le letture sono multiple.
La “donna musulmana” è un’astrazione, utilizzata soprattutto da chi vuol definirla — spesso per alimentare pulsioni razziste — come modello negativo rispetto alla modernità, non solo oppressa ma complice degli oppressori. Anche di Islam bisognerebbe parlare al plurale, come parliamo di diverse versioni del cristianesimo: tanto più per la natura stessa di una religione che non prevede un’autorità dirimente e che non fu monolitica nemmeno alle origini. Bisogna aggiungere che il termine è troppo generico, se definisce al tempo stesso una fede religiosa, un sistema teologico-giuridico, un insieme di Paesi, un’area storico-culturale.

L’Occidente va per le spicce. Perché gli occhi occidentali identificano in una sola categoria omologante provenienze, culture, status, identità? Perché abbiamo dimenticato la critica femminista all’universalismo?
Esistono le donne turche, le siriane, le palestinesi, le marocchine e tunisine ed egiziane, le saudite e le yemenite, le donne del Sudan, dell’Iran, dell’Iraq, con problemi diversi, con contraddizioni palesi o nascoste. I loro diritti sono ostaggio della geopolitica. La loro condizione reale è dettata dalla struttura politica e dalla storia del Paese cui appartengono, più o meno influenzate dalla religione. L’ignoranza, la povertà e l’autoritarismo — condizioni non esclusive del mondo islamico e derivanti da interconnessioni globali che coinvolgono l’Occidente — sono ancor più decisivi. In tutti i Paesi del mondo c’è una forte correlazione tra rispetto dei diritti delle donne e sviluppo economico. Le donne per lo più non hanno problemi con la religione in sé: hanno problemi col potere maschile che la interpreta e con i privilegi che esso si attribuisce.
Il dispositivo dell’inferiorizzazione etnico-razziale e quello della subalternità femminile si incontrano spesso sulle barricate della difesa di una civiltà “superiore”, che certo ascrive fra i propri meriti quello di aver proclamato la Dichiarazione dei diritti e promosso nelle proprie Carte costituzionali la parità fra i sessi, ma mantiene la distanza tra “noi” e “loro”. In questo tranello può cadere anche una versione del pensiero femminista che include un atteggiamento paternalistico verso le donne di un Terzo Mondo letto solo attraverso la categoria del sottosviluppo.
È una dinamica di lungo periodo ma oggi, nel contesto della crescita dei movimenti xenofobi e dell’islamofobia, la figura della donna velata che cammina nelle nostre città non è più una semplice immagine: è uno dei principali marchi di stigma, tra quelli che hanno come orizzonte lo spettro dell’”invasione”, molto fortunato anche se ricavato da stereotipi di seconda mano.

In Musulmane rivelate. Donne, Islam, modernità (Carocci, Roma 2008) l’antropologa palestinese Ruba Salih fa una disanima del poliedrico processo di significazione del velo in termini sia sociali sia individuali. La vaghezza delle prescrizioni coraniche ha permesso che all’interno del mondo musulmano si sedimentassero tradizioni di segno diverso. La storia del Novecento ha fatto il resto.
Il velo ha mille facce e mille lingue, dall’allegria del foulard fiorato al sudario del lugubre pastrano nero. Dipendono dalle tradizioni locali, dal sistema politico, e non ultima dalla volontà di chi lo indossa.
Franz Fanon in Algeria svelata (1965) parlò della dinamicità storica del velo: «Le donne arabe sono portatrici di una pluralità e una complessità di esperienze e di vissuti che non possono essere ricondotti ad un’unica tipizzazione femminile, cieca di fronte alla pluralità dei percorsi individuali e alle forme di ibridazione, né tanto meno essere accettati o rifiutati attraverso le lenti di paradigmi normativi elaborati al di fuori delle culture in esame».
Il velo può essere il risultato di una negoziazione familiare che fa ottenere a colei che lo indossa il permesso di uscire o di studiare in metropoli ad alto grado di promiscuità. Molte femministe nelle università delle capitali islamiche sono convinte che esso possa neutralizzare la sessualità delle donne nella sfera pubblica rendendo chiaro che esse sono cittadine, non oggetti di desiderio: il significato repressivo ne viene così capovolto in strumento di libertà, riappropriazione di spazi.

Il corpo — sappiamo — è luogo di lotta. Ancora una volta il corpo femminile si fa veicolo, luogo e simbolo, medium e messaggio, diventando metonimia per interi territori.
In molti Paesi le donne della sinistra radicale tornano a indossare il velo come simbolo anticolonialista. Ricordano l’Algeria, dove le donne “svelate” furono usate come simbolo “civilizzato” da parte dei conquistatori francesi del Paese e per questo motivo durante la guerra d’indipendenza il velo islamico divenne simbolo della lotta contro il dominio coloniale.
Lo fanno in Europa molte migranti di seconda generazione, ri-velandosi con orgoglio a simboleggiare un’identità ri-scoperta, a rappresentare la cultura di provenienza anche a prezzo di un isolamento sociale (una forma visibile di quella nostalgia di cui parla tanta letteratura d’emigrazione ma anche un rifiuto dello stile di vita occidentale o una sfida alle leggi statali, come in Francia dal 2004 ha dimostrato l’affaire des foulards).
A Ramallah un tempo le donne fermavano i capelli con farfalle di vetri colorati; nelle città spettrali di oggi anche le palestinesi devono coprirsi le teste. Sono veli di rabbia e di dolore. La tensione tra istanze nazionali e istanze femministe emerge sotto le sembianze di un intreccio contraddittorio tra lotta sociale e lotta contro l’occupazione israeliana.

Conosciamo i paradossi della laicità. Le rivendicazioni di libertà possono essere pericolose e sono presuntuose quando sono fatte per conto terzi.
La discussa legislazione in ordine al velo ha visto un intervento diretto del legislatore francese e belga, una resistenza contraria negli Usa, in Germania e in Italia. Paradossalmente i detrattori del velo ne hanno proposto l’abrogazione per legge, logica che a sua volta ignora il diritto alla libera scelta individuale di ogni donna. Se è vero che obbligare una donna a coprirsi è una violenza, lo è anche indurla a scoprirsi? Limitazioni alla libertà possono affermare la libertà? Qual è lo spazio di autonomia di cui dispone un’adulta nella determinazione del suo bene? Chi lo decide? Dove?
C’è una consigliera comunale di Podemos che in Catalogna, con in testa il velo islamico, ha sposato in municipio due omosessuali. Il mondo va avanti ma non è detto che scelga sempre le stesse traiettorie.

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Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.

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